Il Milan di Rocco e Rivera: quando il Diavolo va in paradiso

Posted by

“Mi te digo cossa far, ma dopo in campo te ghe va ti.”

Nereo Rocco

“Ho sbagliato io ad accettare questa squadra e voi a propormi di allenarla. Queste sono le mie dimissioni, arrivederci e grazie.” Nereo Rocco è serio, molto serio, tanto che Gipo Viani e il presidente Rizzoli restano per qualche secondo freddati di fronte allo sguardo corrucciato del loro interlocutore.

La stagione 61/62 non è affatto partita bene per il Milan e per il suo neo allenatore, che già dopo poche giornate è diventato il principale obiettivo della contestazione dei tifosi e della critica. Rizzoli, capisce il momento e lo rassicura: “Resti al suo posto signor Rocco, andrà tutto bene.”

Lui accetta, ma pretende la testa di Jimmy Greaves, principale acquisto estivo, con cui la scintilla non è mai scoccata: “Sto mona de inglisc, xe bravo quando xe facile, ma quando xe ora de sofrir el salpa par la so isola.” Fin dal suo arrivo Greaves ha manifestato una certa intolleranza per i ritiri, la disciplina, i controlli e i metodi spesso bruschi di Rocco: è indubbiamente fortissimo (dieci goal in nove presenze), ma non si sacrifica per la squadra e pare beva e fumi un po’ troppo nelle sue notti brave a Milano.

Il tecnico fatica a dare equilibrio a una squadra che oltre all’inglese schiera in attacco anche Josè Altafini, fuoriclasse brasiliano la cui poca predisposizione al sacrificio in campo rivaleggia con quella di Greaves. Tra i due uno è di troppo, ma l’ex del Chelsea conquista per ampio distacco il primato nella classifica di scarso gradimento grazie al suo gatto di nome Rocco: pare infatti che il frustrato Graeves adori prendere a calci il felino ogni volta che torna a casa.

Pettegolezzi a parte, uno come Greaves non può andare a genio a Rocco. Lui è el paron, che in friulano vuole dire “padrone”, soprannome conquistato in quasi vent’anni di panchine di provincia dopo una buona carriera da mezzala: Rocco vuole sapere tutto dei suoi calciatori, vizi (soprattutto i vizi) e virtù, perché per lui prima viene la persona e poi il calciatore quando progetta una squadra.

Per i suoi “manzi” è un padre e Rocco è disponibile alla carezza, ma anche a ruggire se qualcuno sgarra o manca di rispetto: per chi si adegua e si fa forgiare a suon di rimbrotti, pacche sulle spalle e grida in un triestino misterioso diventa intoccabile, ma chi fa il “mona”, come Greaves, finisce all’angolo.   

Giuseppe Viani, detto Gipo preferirebbe dare il benservito ad Altafini, che da qualche tempo chiama poco cordialmente “coniglio” dopo averlo beccato in un locale notturno: il giovane José, alla vista del direttore tecnico, si era nascosto senza riuscirci dietro un divano e da qui il soprannome poco lusinghiero.

Meglio non inimicarsi lo “sceriffo” Gipo: fisico imponente, modi spicci, personalità straripante, amante della bella vita, delle carte, del vino e delle ore piccole, Viani quando era ancora l’allenatore dei rossoneri non si era fatto problemi ad alzare le mani con il monumento Nils Liedholm, reo di non condividere le sue scelte tattiche.

Gipo gradisce poco l’idea di bocciare Greaves, che ha fortemente voluto e per cui il Milan ha investito molto, ma alla fine cede e accetta di trovare un sostituto gradito al tecnico: è palese che dopo questo il margine di errore concesso a Rocco si assottiglia ulteriormente. Il paron è uomo di calcio fin troppo navigato e sa come vanno le cose: vorrà dire che le dimissioni (o l’esonero) sono solo rimandate di qualche settimana.

Gipo è reduce da un infarto che ha lasciato più di un segno, ma resta comunque il diabolico re del mercato italiano e tesse la sua tela: prima spedisce l’estroverso Graeves al Tottenham (dove diventerà il più prolifico attaccante inglese di sempre), poi scova in Argentina Dino Sani, l’uomo che può raddrizzare la stagione. Brasiliano, reduce dal vittorioso mondiale svedese del 1958 con Altafini, Sani è un regista che sembra ormai avere imboccato il viale del tramonto e al Boca Juniors non gioca granché: è un’occasione da prendere a poco e ha un curriculum tecnico che sembra adattarsi all’idea di calcio di Rocco.

Quando si presenta al campo di allenamento, Sani viene squadrato per bene dal paron, che sentenzia a modo suo: “Gavemo comprà un impiegà del catasto! Gipo nostro ga fato rimpatriar el nonno.” In effetti i capelli radi, la bassa statura, i baffetti sottili e l’accenno di pancia piuttosto marcato fanno passare il brasiliano come un ex calciatore, ma l’apparenza in questo caso inganna.

Sani si piazza in mezzo al campo e dimostra ai suoi nuovi tifosi e compagni di squadra che la visione di gioco e il gusto per il lancio millimetrico non temono né l’età, né qualche chilo di troppo: esordisce con goal nel vittorioso 5 a 1 contro la Juventus e diventa “il cervello” di un Milan finalmente convincente.

Il risultato favorevole permette a Rocco di salvare la panchina e di lavorare con maggiore tranquillità nel plasmare la squadra secondo il suo credo tattico. Finora lo schieramento è stato troppo sbilanciato per attuare efficacemente il catenaccio, schema di cui il paron è uno dei migliori interpreti, ma l’innesto di Sani rende più semplice sbrogliare la matassa e cambiare le sorti della stagione rossonera.

L’arrivo del brasiliano apre finalmente uno spiraglio in prima squadra per il giovane talento Gianni Rivera, sponsorizzato da Viani, che spinge per il suo definitivo lancio dopo un primo anno di rodaggio. Il paron finora non ha capito come sfruttarne le capacità (così come Viani prima di lui) e in estate ha provato a convincere senza successo il direttore tecnico a mandarlo in provincia a farsi le ossa: ora, senza più Greaves, Rivera diventa la prima scelta sulla trequarti rossonera.

Il ragazzo è gracile, apparentemente fragile, non ha un grande scatto e il tiro non è esattamente degno di un bomber, però con l’indubbia classe negli ultimi venti metri di campo riesce a camuffare i molti dubbi che critica e parte dello staff nutrono verso di lui. Rivera ha eleganza, raffinatezza, carisma e tecnica da vendere e il paron lo adotta, lavorandolo ai fianchi per smussarne i non pochi spigoli: sotto la tutela di Rocco il Golden Boy del calcio italiano inizia poco a poco la scalata verso l’Olimpo dei Grandi.

Il Milan con lui e Sani può schierare un centrocampo di gran qualità, che però ha evidenti limiti: Rocco sopperisce alla lentezza e alla scarsa capacità di recupero del brasiliano e di Rivera dividendo la squadra in due blocchi rigidi e distinti di cinque difensori e cinque attaccanti. Nel primo i terzini David e Radice, il centrale Salvadore e il mediano Trapattoni vanno a uomo sul diretto avversario, mentre Cesare Maldini, libero designato senza compiti di marcatura, interviene a spazzare quando serve e apre al contropiede; nel secondo le mezzali Sani e Rivera accompagnano l’attacco e innescano con i loro lanci l’estro di Altafini, Barison e Danova.

Chiuso il girone di andata in quarta posizione, con un distacco di cinque punti dall’Inter capolista, il Milan che si affaccia nella seconda parte del campionato è un’altra squadra: Rocco e i suoi inanellano diverse vittorie consecutive e anche grazie all’inaspettato crollo dei cugini nerazzurri, diventano con un turno di anticipo campioni d’Italia per l’ottava volta.

Italian Serie A Top Scorers: 1961-1962 José Altafini (Milan) 22 goals

Decisivo è Altafini, che anche in questa stagione si conferma straordinario realizzatore, spianando la strada alla rimonta rossonera con ventidue reti. In Brasile lo chiamavano Mazzola per la somiglianza con il grande Valentino e nella sua avventura italiana José dimostra di avere le stimmate del bomber di razza e di essere un fuoriclasse dell’area di rigore. Altafini è veloce e scattante, lesto di piedi e di pensiero, ha fiuto per il goal e sa coniugare potenza, furbizia e tecnica: sembra conoscere ogni anfratto dell’area di rigore e con fantasia e ferocia punisce senza scampo le porte avversarie.

Il trionfo inaspettato schiude le porte della Coppa dei Campioni, che durante la stagione 62/63 diventa l’obiettivo principale di un Milan claudicante in Serie A. I rossoneri, guidati ancora una volta dal micidiale Altafini, viaggiano a vele spiegate in Europa e giungono alla finale di Wembley senza particolari patemi.

Ad attenderli c’è il Benfica, trionfatore delle ultime due edizioni, un cliente tutt’altro che semplice da affrontare. Durante il viaggio verso lo stadio la tensione è evidente e Rocco gestisce la situazione da par suo, caricando i giocatori con un discorso che conclude con “Chi no xe omo resti sul pulman”. Quando i rossoneri scendono e si avviano all’entrata notano però che manca proprio il paron, rimasto seduto al suo posto: il gesto, seguito da risate generali, disperde il nervosismo e permette alla truppa di concentrarsi sulla partita decisiva.  

Le aquile di Lisbona scendono in campo pronte a banchettare dell’avversario e concretizzano subito la propria pericolosità con un goal della sua pantera nera Eusébio. Il Milan traballa vistosamente, ma regge e l’infortunio di Coluna sul finire del primo tempo toglie ai lusitani la principale fonte di gioco e dà modo ai rossoneri di restare in partita.

Durante l’intervallo il paron scuote la squadra e punta il dito contro il suo centravanti, apparso impalpabile e poco reattivo: “Ciò, Iosé, el ga razon Gipo, ti sé un conejo!”.

Nel secondo tempo sale in cattedra Rivera, che si dimostra decisivo e cambia la partita: prima con un tiro velenoso, che dopo essere stato respinto finisce arpionato e messo in rete da un rinvigorito e spietato Altafini; poi con lancio in contropiede, che consente al solito José di superare Costa Pereira, incapace di opporsi al capocannoniere della Coppa dei Campioni.

Finisce 2 a 1: il trionfo del Milan è anche quello dell’Italia, che per la prima volta ha un club campione d’Europa. Sembra l’inizio di un ciclo esaltante, ma l’entusiasmo è smorzato dall’addio di Rocco, che annuncia a malincuore di andare al Torino, con cui ha un accordo verbale da qualche mese. Dietro questa scelta c’è la difficile convivenza con l’ingombrante Viani e un rapporto che si è sfaldato da tempo: Rocco è stufo delle continue ingerenze del direttore tecnico sulla gestione della squadra e sempre meno disposto ad abbozzare imbarazzati sorrisi di circostanza alle continue battute al vetriolo sul suo modo di esprimersi e vestire.

L’addio senza crisi sportiva è anomalo nel calcio italiano: Rocco e i rossoneri si allontanano senza essere arrivati alla consunzione del rapporto, lasciando aperta la porta a un riabbraccio futuro.

Nelle successive stagioni Rocco non riesce a schiodare il Torino dalla mediocrità perenne a cui la tragedia di Superga lo ha condannato, mentre il Milan vive anni confusi e di smarrimento, conquistando solo una Coppa Italia.

I rossoneri divorano presidenti, dirigenti e allenatori, mostrandosi preda di una feroce bulimia che distrae l’ambiente e spalanca la strada alla supremazia cittadina e nazionale dell’Inter di Herréra.

Poi, nell’estate 67 il neo presidente Carraro annuncia il ritorno del paron, riaccendendo l’entusiasmo in una tifoseria mortificata da troppe annate balorde. Rocco trova un club profondamente diverso da quello che ha lasciato, privo anche dello sceriffo Viani, che dopo una vita in rossonero segnata da vittorie indimenticabili e grandi intuizioni sul mercato, ha deciso di portare i propri talenti altrove.

Il lavoro di Rocco si concentra inizialmente sull’organizzazione difensiva e dal mercato arrivano il gigantesco portiere Fabio Cudicini e il libero con trascorsi interisti Saul Malatrasi, che vanno ad aggiungersi ad Anquilletti, Schnellinger e Rosato. La nuova difesa è un mix di gioventù, esperienza, corsa e pochi fronzoli, ideale per supportare le idee tattiche del paron, che proprio sull’ermetismo difensivo ha costruito i suoi successi.

In mediana Rocco ha poco da intervenire: ci sono ancora i mastini Trapattoni e Lodetti, quest’ultimo lanciato in prima squadra durante il primo ciclo del paron e poi divenuto titolare dopo l’addio di Sani. I due polmoni del centrocampo fungono da scudieri al talento di capitan Rivera, dispensatore di assist e lampi di onnipotenza calcistica, che viene lasciato libero di assecondare il proprio genio senza obblighi tattici. Sulla trequarti, a dargli manforte, viene inserito “l’uccellino” svedese Kurt Hamrin, anziano fuoriclasse ancora in grado di incidere con fantasia e goal dalla fascia destra.

Davanti, ora che Altafini è diventato il re di Napoli, opera Angelo Sormani, uno di quei giocatori che Rocco ama alla follia per la sua duttilità tattica e per la sua partecipazione alla manovra. Accanto a lui c’è in rampa di lancio Pierino Prati, ala sinistra rientrata alla base dopo qualche stagione in prestito, su cui Rocco intende scommettere.

Il catenaccio di Rocco, solido in difesa e fulmineo a imbastire contropiedi mortiferi, permette a questa formazione di dominare senza difficoltà il campionato 67/68 e di strappare il Milan dalla mediocrità degli ultimi anni.

La vittoria della Serie A non è l’unica soddisfazione che il Milan si toglie: anche la Coppa delle Coppe è terreno di caccia per i rossoneri, che giungono in finale dopo un’esaltante cavalcata in cui eliminano anche i detentori del Bayern Monaco. A Rotterdam li aspetta l’Amburgo, che nulla può contro un ispirato Hamrin: lo svedese semina il panico in più occasioni e segna una doppietta nel primo tempo, mettendo in cassaforte il risultato per il secondo titolo stagionale.

Il Milan e Rocco si sono ritrovati e riscoperti vincenti in un’annata straordinaria e sembrano finalmente pronti ad aprire un ciclo vincente: nella stagione successiva però la squadra non riesce a difendere lo scudetto e dopo una serrata lotta al vertice con Fiorentina e Cagliari deve cedere il primato nazionale ai viola.

I rossoneri spendono molte preziose energie in Coppa dei Campioni, dove il sorteggio non li premia e li mette di fronte a rivali combattivi e di grande valore: Anderlecht, Celtic Glasgow e Manchester United sono le dure avversarie nel cammino europeo, ma un Milan battagliero, pratico ed efficace in contropiede riesce a domarle e a raggiungere la finale di Madrid.

Lì, ad attenderli, c’è l’Ajax di Johan Cruijff, che in quegli anni si affaccia alla ribalta internazionale e sembra ormai pronto a vincere la sua prima finale europea. Il Milan è però una squadra molto più esperta e cinica e guida la gara fin dall’inizio, gestendo senza difficoltà le sfuriate dei lancieri. I rossoneri alzano la loro seconda Coppa dei Campioni, vincendo per 4 a 1: a segnare sono Sormani e uno straripante Prati in versione “Pierino la peste”, che mette a referto tre goal, mentre è Vasovic a realizzare il goal della bandiera per l’Ajax.

Milan Ajax 4 1 1969

A ispirare il successo del Milan è Rivera, che si consacra come uno dei più grandi dieci del calcio e a fine anno (primo italiano di sempre) vince anche il Pallone d’Oro. Nessuno si stupisce più dei suoi passaggi millimetrici, che viaggiano in spazi apparentemente inesistenti e scardinano con un guizzo difese incapaci di fronteggiarne la genialità. Rivera viaggia in un’altra dimensione e dal suo cilindro di mago estrae senza spettinarsi stop magnetici, palleggi raffinati, dribbling disarmanti, finte e veroniche ubriacanti: la fantasia è al potere quando in campo c’è il Golden Boy.

La stagione 69/70 porta in squadra al posto di Hamrin l’argentino naturalizzato francese Nestor Combin, che viene schierato da Rocco nel tridente con Sormani e Prati: il Milan incappa in una stagione sfortunata in Serie A, mentre in Coppa dei Campioni esce agli ottavi.

Il clou dell’annata è la Coppa Intercontinentale, in cui a ottobre sfidano in due partite i campioni sudamericani dell’Estudiantes di La Plata: per i rossoneri è l’occasione di mettere finalmente le mani sul trofeo sfuggito pochi anni prima contro il Santos di Pelè. Un Milan indiavolato seppellisce a Milano gli argentini con due goal di Sormani e uno di Combin, ipotecando di fatto la vittoria.

Il ritorno a Buenos Aires è però tutt’altro che una passeggiata: gli argentini mettono subito in chiaro quale sarà il clima dell’incontro fin dall’uscita dei milanisti dal sottopassaggio, su cui i tifosi rovesciano addosso dagli spalti caffè bollente. Ma non finisce qui, perché durante il riscaldamento i fradici rossoneri diventano il bersaglio delle violente pallonate intimidatorie dei loro avversari.

La partita è fin dall’inizio una caccia all’uomo: qualunque rossonero intercetti il pallone diventa l’obiettivo di entrate assassine e colpi bassi, tollerati da un arbitraggio connivente. Al goal di Rivera rispondono gli argentini con due reti, ma di calcio ce n’è poco e il Milan punta a salvare le gambe e le facce, non riuscendoci sempre. Protagonista assoluto è il portiere Poletti, che quando può lascia la porta per assestare calci e pugni contro i rivali: i rossoneri perdono prima Prati, steso da un colpo alla schiena, poi Combin, che rimedia un pugno che frattura naso e zigomi. La vittoria per differenza reti sorride comunque al Milan, finalmente campione del mondo, ma il Diavolo, anche se in paradiso, non può ancora gioire. Il malridotto Combin viene prelevato dallo spogliatoio e arrestato con l’accusa di aver disertato il servizio militare: solo dopo una lunga trattativa diplomatica può essere rilasciato e tornare insieme al resto della squadra in Italia.

Ora Rocco vuole il decimo scudetto e concentra tutti i suoi sforzi per aggiungere la stella alla maglia del Diavolo: i campionati che si susseguono sono però deludenti e il Milan non riesce mai a vincere lo scudetto, arricchendo comunque la bacheca per due volte con la Coppa Italia e con un’altra Coppa delle Coppe. A metà anni settanta il paron lascia per un’ultima esperienza in panchina con la Fiorentina, che gli non porta soddisfazioni.

Il decimo scudetto arriva nel 1979: un Rivera ormai trentaseienne lo vive quasi da spettatore, scrivendo le ultime pagine di un romanzo sportivo eccezionale. Il ritiro dell’ex Golden Boy segna la fine di un viaggio lungo vent’anni, in cui Rivera è cresciuto fino a diventare simbolo del Milan e del calcio italiano: niente male per uno che non sapevano come mettere in campo. 

Rocco è da qualche tempo dirigente del club, ma non riuscirà a vedere sulle maglie rossonere l’agognata stella. Colpito da improvvisa e fulminante malattia, si spegne il venti febbraio dopo un breve soggiorno nell’ospedale di Trieste: del suo malconcio fegato dirà nei suoi ultimi giorni “Xe in malora dopo tante rabbie e bevute”.

Le vittorie del paron (e non sono poche) non bastano a rappresentarne la grandezza e l’importanza: artigiano della tattica, ambasciatore del “cadenasso”, acuto scrutatore di uomini.

Prima di perdere coscienza sussurra al figlio Tito “Dame el tempo”, proprio come quando si rivolgeva in panchina ai suoi secondi: ma ormai, di tempo, non ce n’è più.