Gli incredibili anni 60: la Grande Inter di Herrera

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“Pensa veloce, agisci veloce, gioca veloce”

Helenio Herrera

Nel tardo pomeriggio del 27 maggio 1964 il Prater di Vienna è ormai gremito da oltre 70000 spettatori, che stanno prendendo posto per il grande evento che li attende: la finale della Coppa dei Campioni.

La partita ha come protagoniste due squadre nettamente diverse per blasone ed esperienza internazionale: da una parte i plurivincitori della manifestazione, il Real Madrid di Di Stefano, Puskàs e Gento; dall’altra l’Inter di Suarez, Mazzola e Facchetti, che si affaccia per la prima volta alla finalissima.

Sulla panchina dei nerazzurri siede un argentino dalla spiccata e velenosa parlantina, per alcuni un grande allenatore, in grado di tirare fuori il meglio dai suoi giocatori e motivarli come nessuno prima di lui, per altri invece un grandissimo manager di sé stesso, più fortunato che capace: Helenio Herrera, detto il Mago, che aspetta da tempo questa sfida.

La storia di Helenio Herrera

La sua storia sembra uscita direttamente dalla penna di Dickens: nato ufficialmente nel 1910 (lui sosteneva 1916) e fuggito bambino con papà Paco e mamma Maria dalla povertà di Buenos Aires, ne rivive una addirittura peggiore in Marocco, dove la disperazione diventa compagna di giochi e maestra di vita.

I suoi genitori perdono tutto ciò che hanno prima ancora di toccare il porto di Casablanca, quando la corpulenta Maria si sbilancia dalla barca che li trasporta e cade in acqua: Paco, incapace di nuotare, implora i marinai di ripescarla, ma questi prima contrattano una somma pari a tutti gli averi degli Herrera, che alla fine si ritrovano salvi a terra, ma senza un soldo.

Questa immagine gonfia di cinismo scava profondamente nel piccolo Helenio, che passa l’infanzia e la giovinezza tra le fatiscenti baracche dei profughi e si ripromette di fuggire appena può. A salvarlo sarà il calcio: le doti atletiche ci sono (la tecnica un po’ meno) e con esse Herrera si ritaglierà una modesta carriera da difensore in Francia, che se anche non gli garantirà gloria imperitura lo aiuterà almeno a fare finalmente pasti regolari.

Quando la sua storia da calciatore sarà agli sgoccioli e si lascerà andare all’ambizione di diventare allenatore, gli tornerà utile anche l’esperienza di venditore (lavoro a cui era costretto per far quadrare i conti): diventerà l’archetipo dell’affabulatore impenitente, in grado di stordire il proprio interlocutore con avventure e storie improbabili, ma talmente ben raccontate da essere credibili.

Con la sua parlantina riesce a vendere una carriera ben diversa da quella svolta (i mezzi all’epoca per confutare le sue storie sono pochi) e gonfiando il suo pedigree inizia la sua avventura da allenatore.

Dopo le prime positive esperienze in Francia sul finire degli anni quaranta si sposta in Spagna, dove vince il campionato con l’Atletico Madrid, litiga con l’ambiente, se ne va sbattendo la porta e ricomincia il giro.

Definisce in pochi anni i principi su cui avrebbe basato il suo modo di allenare, contraddistinti da disciplina ferrea in campo e a tavola, allenamenti estenuanti, frasi motivazionali appese negli spogliatoi, ritiri infiniti, pretesa di fede cieca e indiscussa nei suoi metodi, culto feroce e ossessivo della vittoria.

Sul finire degli anni cinquanta arriva la grande occasione: il Barcellona lo assume e lui vince e convince, portando a casa la vittoria del campionato e della Coppa delle Fiere, che gli permettono di raggiungere finalmente fama, soldi e uno status di primadonna degno del suo ego.

Herrera plasma il suo personaggio istrionico tra furibonde polemiche e gesti teatrali, mentre la stampa va a nozze con la sua eccentricità e la sua voglia di protagonismo, i suoi quaderni in cui appunta schemi e idee, che ne fanno il primo allenatore a contendersi le pagine dei giornali con le stelle della squadra.

Il suo Barcellona sembra destinato a imporsi anche in Coppa dei Campioni e lui non fa mistero di voler strappare il primato continentale al Real Madrid, padrone assoluto della competizione, ma la sfida nelle semifinali del 1960 mette in mostra quanto sia grande la differenza tra le due squadre.

Mentre il Madrid conquista la sua quinta coppa consecutiva con un sonante 7 a 3 sull’Eintracht Francoforte, in terra catalana si consuma la resa dei conti: la stampa e la tifoseria chiedono la testa dell’allenatore e Herrera viene accompagnato alla porta senza tanti complimenti, nonostante la seconda affermazione consecutiva nella Liga.

Helenio, orgoglioso com’è, segna tutto sul suo quaderno e non dimentica: prima o poi la sua strada si sarebbe di nuovo incrociata con i blancos e lui si sarebbe trovato pronto alla vendetta.

1960: Herrera all’Inter

Nell’estate del 1960 il presidente Angelo Moratti decide di portarlo all’Inter, per provare finalmente a far svoltare un progetto su cui il grande petroliere ha investito tantissimo, ma che dopo cinque anni stenta ancora a decollare: Herrera impiega tre anni e tanti altri soldi per far digerire i suoi metodi e plasmare la squadra a sua immagine, ma poi vince e non si ferma più.

Complice l’abbandono del WM inglese (su forte sollecitazione di un Moratti piuttosto seccato dai pochi risultati) e il passaggio a un catenaccio rivisto e corretto dal Mago, l’Inter s’impone in Italia con una formazione che diventa in pochi anni un mantra per i tifosi nerazzurri e non solo: Sarti, Burgnich, Facchetti, Bedin, Guarneri, Picchi, Jair, Mazzola, Milani (Domenghini), Suarez, Corso.

Il catenaccio, a cui sempre più squadre italiane si rifanno all’epoca, è notoriamente un modulo in cui ci si arrocca in difesa e si punta a limitare i danni, in attesa di un’occasione per colpire l’avversario, soprattutto in contropiede: questa tattica diventa con Herrera anche propositiva, con alcune significative variazioni sul tema. Ad esempio, Armando Picchi (nato terzino e reinventato dal Mago centrale difensivo) si cala nel ruolo di libero in modo innovativo, non si limitandosi solo a fungere da ultimo baluardo prima del portiere, ma si occupa, come un regista aggiunto, anche e soprattutto d’impostare per primo l’azione.

Herrera anticipa di decenni alcuni precetti tattici divenuti ora scontati, come il pressing e l’attacco degli spazi, portando i propri giocatori ad anticipare l’avversario e ad arrivare per primi sulla palla.

Taca la bala (aggredisci la palla) diventa non solo il suo motto, ma anche il grido di battaglia su cui plasma l’Inter, costruendo una roccaforte difensiva con giocatori che però non si limitano a contenere l’avversario, ma, una volta riconquistato il pallone, puntano a capovolgimenti di fronte improvvisi e devastanti.

Oltre al poderoso marcatore Tarcisio Burgnich (scartato da una Juventus che non ne comprende appieno il potenziale) e all’insuperabile stopper Aristide Guarneri (impostato centrale da un’altra intuizione del Mago), a completare con Picchi la formidabile linea difensiva nerazzurra c’è un ragazzo dotato di notevoli mezzi atletici, che Herrera ha lanciato in prima squadra dopo essersi invaghito della sua corsa prorompente: Giacinto Facchetti.

Facchetti ridisegna a suon di falcate incontenibili il ruolo del terzino, che con lui diventa “fluidificante” e non si limita più solo al mero contenimento dell’ala avversaria, ma anzi la sfida e la costringe a ripiegare di fronte alle sue sgroppate offensive: grazie a lui l’Inter non solo ha un difensore di prim’ordine, ma anche un’arma in più nel contropiede e le squadre rivali sono costrette a fare i conti con quest’ala mascherata da laterale difensivo.

Un’altra colonna di quest’Inter è una mezzala spagnola assai prolifica, che negli anni a La Coruña e poi a Barcellona si è imposta come una delle migliori della sua generazione, fino a fregiarsi del Pallone d’Oro 1960: Luis Suarez.

Moratti lo porta a Milano con un assegno che consente al Barcellona di aggiungere un anello al Camp Nou e Herrera gli cuce addosso il nuovo abito da playmaker, facendogli smettere quello di velenoso incursore: Suarez diventa così il centro nevralgico della manovra nerazzurra, predicando calcio con lanci illuminati per i suoi compagni.

Tra i maggiori beneficiari dei passaggi di Suarez c’è Jair, funambolica ala brasiliana, che grazie alla sua spericolata velocità traduce spesso in goal gli assist del regista spagnolo, che non è l’unico “genio” al servizio di questa squadra di grandi campioni.

L’altro è Mario Corso, il numero undici della formazione, che in teoria dovrebbe fare l’ala sinistra, ma in pratica si sposta per il campo dove più gli aggrada, contravvenendo ai rigidi dettami del Mago per assecondare la propria creatività smisurata e uno dei più mortiferi piedi sinistri della storia del calcio.

Antesignano di quelli che oggi consideriamo trequartisti, Corso ammalia i suoi tifosi con dribbling ubriacanti, punizioni letali e tunnel umilianti, giocando con l’avversario di turno come un gatto con il gomitolo e irridendolo spavaldamente con il suo talento superiore.   

Come se non bastassero la sua celebre pigrizia (Brera lo definì “participio passato di correre”) e l’anarchia tattica a renderlo inviso al suo allenatore, è anche con la sua lingua lunga che Corso si conquista ogni fine stagione il primato tra coloro che sono da cedere.

Il “Piede sinistro di Dio” ama poco i metodi e i ritiri “militari” del Mago e non ne fa mistero, lasciandosi andare spesso a commenti velenosi nello spogliatoio: Herrera semplicemente non lo sopporta e appena può smuove mari e monti per farlo trasferire, ma Moratti proprio non ci sente e così, ciclicamente, ogni settembre si ricomincia, con Helenio che gli ringhia contro e Corso che scrive poesie con il suo sinistro.   

L’ultimo pezzo pregiato di questa squadra è un ragazzo alto e sottile come uno spillo, che corre velocissimo e non disdegna d’inquadrare la porta durante le sue sgroppate brucianti: Alessandro, detto Sandro, ancora non sa che in pochi anni diventerà una leggenda e una bandiera nerazzurra, anche perché porta un cognome pesante, che paradossalmente sembra precludergli una carriera d’alto livello.

Sandro è il figlio di Valentino Mazzola, la grande leggenda del calcio italiano: dopo la tragica scomparsa del padre e gli anni difficili in cui la spensieratezza dell’infanzia è stata scossa dal boato di Superga, si è stabilito a Milano, dove si è fatto strada nelle giovanili dell’Inter, ma non sono pochi quelli che lo considerano solo un raccomandato figlio d’arte incapace di giocare ad alto livello.

Herrera non bada ai cattivi consiglieri e riconosce in quel diamante grezzo le stimmate del campione, facendone un titolare inamovibile della sua Inter, utilizzandolo sia come attaccante che come mezzala.

La finale di Coppa dei Campioni

Nonostante la vittoria nel campionato 62/63 abbia dato consapevolezza dei mezzi della squadra e la cavalcata in Coppa dei Campioni abbia ribadito la forza dell’Inter, trovarsi in finale con quel Real Madrid ha un certo impatto sui giovani nerazzurri.

Mentre le squadre entrano in campo Mazzola non riesce a staccare gli occhi di dosso dalla Saeta Rubia e Picchi sembra inebetito di fronte al Colonnello.

Suarez, che Di Stefano e Puskàs li ha già incontrati nelle dure battaglie spagnole, scuote i due compagni e il resto della squadra, incitandoli a concentrarsi sulla partita che li aspetta più che sugli autografi.

Come non capire la reazione dei due ragazzi in quel sottopassaggio? Il Real Madrid ha già vinto cinque volte la Coppa dei Campioni in sei finali e vanta in attacco la coppia più devastante della storia: nessun altro club ha avuto, ne avrà forse mai, due fuoriclasse come loro davanti.

Herrera ha preparato la finale con grande perizia, allenando non solo i corpi, ma soprattutto le menti della squadra: come Suarez conosce gli avversari e sa bene di cosa sono capaci se lasciati liberi di esprimere il loro gioco.

Prima della partita ha catechizzato soprattutto il mediano Tagnin, ripescato dall’Inter dopo una squalifica di oltre due anni per una brutta storia di partite truccate, che sembravano aver posto fine alla sua carriera: il Mago gli ordina di non mollare mai Di Stefano e lui esegue, incollandosi per tutto il campo come un’ombra al fuoriclasse madridista.

Le marcature di Herrera si rivelano fondamentali durante l’incontro e costringono il Real Madrid a impattare contro la difesa interista: la Saeta Rubia soffre talmente Tagnin da venirne annullato, Puskàs trova grandi difficoltà a scollarsi di dosso l’asfissiante Guarneri, mentre Gento e Amancio non hanno vita facile contro Burgnich e Facchetti.

Dal canto loro i madrileni puntano a bloccare le vie di passaggio a Suarez, considerato il vero fulcro del gioco avversario, ignari di avere anche a che fare con il genio balistico di Corso, piuttosto in vena in questa serata austriaca.

Quando sul finire del primo tempo il Real Madrid sembra ormai prossimo a rompere la roccaforte nerazzurra, proprio il ciondolante “Piede sinistro di Dio” dà il via all’azione che rompe gli equilibri e consente a Mazzola di infilare al volo da lontano con un destro imprendibile.

COPPA DEI CAMPIONI 1963 64 INTER REAL MADRID 3 1

Il Real Madrid è a fine ciclo, con molti giocatori anziani e con Di Stefano consapevole di essere alla sua ultima apparizione con i blancos, ma l’orgoglio e la classe non hanno età: per loro quel goal, dopo un tempo passato ad attaccare come di consueto a testa bassa, è una mazzata che deve essere subito restituita.

Il secondo tempo vede i madrileni ancora sbilanciati in avanti, alla disperata ricerca del pareggio, che pure sembra nell’aria dopo i pali di Gento e Puskàs. Il forcing di Di Stefano e soci li espone però al contropiede dell’Inter, che mette in pratica alla perfezione la strategia voluta da Herrera: farli scoprire per poi punirli in velocità.

Dall’ennesimo rovesciamento di fronte nasce il raddoppio del centravanti Milani, che però non scoraggia le merengues e non lascia tranquilli i nerazzurri, che infatti subiscono poco dopo il goal di Felo. Sul 2 a 1 il fortino interista sembra iniziare a vacillare sotto la veemente carica del Madrid, ma incredibilmente resiste e riparte elasticamente, continuamente, fino al goal che mette fine alla partita, segnato dal figlio di Valentino in uno dei suoi scatti perentori e letali.

Ad alzare la Coppa è l’Inter e Herrera può tirare una linea sul suo quaderno: stavolta i madrileni si devono arrendere alla sua arguzia tattica.

Il più felice di tutti è Angelo Moratti, che finalmente corona il suo sogno di far entrare la sua squadra nel club dei grandi, dopo anni in cui non erano certo pochi quelli che lo sbeffeggiavano per i tanti milioni spesi senza ottenere nulla.

Il giovane Mazzola, che aspetta con ansia il mito Di Stefano per scambiare le maglie, viene invece fermato da Puskàs, che gli porge la sua: nel 1947 il Colonnello aveva affrontato Valentino e confessa al ragazzo di essere stato degno del grande cognome che porta sulle spalle. Sandro non dimenticherà mai quelle parole e quell’investitura.

Ma non c’è tempo di festeggiare: l’Inter ha ancora lo Scudetto da conquistare e sarebbe il secondo di fila. L’avversario principale è un ostico Bologna, che conclude il campionato al primo posto assieme agli uomini di Herrera e costringe i neo campioni d’Europa allo spareggio, sconfiggendoli con un secco 2 a 0.

L’era Herrera

La stagione successiva, con gli innesti definitivi di Domenghini e Bedin, è trionfale: dopo essersi aggiudicata la Coppa Intercontinentale a spese dell’Indipendiente, l’Inter rivince il campionato e soprattutto s’impone ancora in Coppa dei Campioni (stavolta contro il Benfica), lasciando per strada la Coppa Italia, persa in finale con la Juventus.

La stagione 65/66 li vede ancora come la squadra da battere sia in Italia che in Europa: in Coppa dei Campioni vengono però eliminati dal Real Madrid, ma la vittoria della seconda Coppa Intercontinentale e quella vittoria del decimo Scudetto, quello della stella, compensano le delusioni europee.

L’anno seguente l’Inter riparte per un’altra cavalcata travolgente: in campionato prende il largo e solo la Juventus riesce a stargli dietro, mentre in Coppa dei Campioni coglie un’altra finale, stavolta con il Celtic di Glasgow.

Purtroppo però i nerazzurri arrivano svuotati alla partita finale e subiscono la foga degli scozzesi, che sorprendentemente s’impongono per 2 a 1. La settimana successiva un’Inter ferita e barcollante vuole cucirsi l’ennesimo Scudetto: la Juventus è seconda a un punto di distanza e il Mantova del giovane Zoff sembra la classica vittima sacrificale.

La partita che per tutti è solo una formalità si trasforma invece in un dramma sportivo: il Mantova non solo resiste alla carica nerazzurra, ma con un goal rocambolesco condanna l’Inter al sorpasso della Juventus, che vince con la Lazio.

Dopo aver perso tutto i nerazzurri sembrano ormai arrivati alla fine di un ciclo indimenticabile e volano i primi stracci: Herrera pretende la testa di Picchi, che da tempo rappresenta l’anima ribelle di una squadra stanca dei lunghi ritiri, di scelte tattiche spesso incomprensibili e soprattutto dell’ingombrante ego dell’allenatore.

Moratti è costretto a cedere il suo capitano a malincuore, ma la partenza del libero non porta nessun beneficio all’Inter, che nella stagione 67/68 non riesce a essere competitiva su nessun fronte: gli incredibili anni 60 della Grande Inter giungono al loro epilogo.

Angelo Moratti decide che il suo tempo è scaduto e lascia il pacchetto azionario a un altro grande tifoso interista, Ivanoe Fraizzoli, che però fa subito intendere all’ambiente che certe spese vanno lasciate nel cassetto dei ricordi.

Il Mago capisce prima di tutti l’aria che tira e se ne va alla Roma, dove non riuscirà a riprendere confidenza con la vittoria. Tornerà all’Inter nel 1973, per un’ultima breve avventura che non aggiungerà nulla alla sua storia, ma lo renderà forse finalmente consapevole di aver svuotato del tutto la valigia dei trucchi: riuscirà comunque a togliersi la soddisfazione di cedere finalmente Corso che, ormai invecchiato e privo della protezione di Moratti, sarà costretto a fare le valige.

Gli incredibili anni 60 della Grande Inter di Herrera hanno segnato una rivoluzione nel calcio italiano, che si è scoperto per la prima volta in grado non solo di competere in Europa, ma anche di vincere, imponendo un nuovo modo di giocare e di allenare.