Gloria e maledizione: il Benfica di Eusébio

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“Eusébio e Amalia Rodrigues non sono né un giocatore, né una cantante di fado: sono il Portogallo.”

José Mourinho

Bela Guttmann non si considera emotivo.

Nella sua vita si è visto scippare dalla sorte e dal crollo di Wall Street tutti i soldi guadagnati nell’America Soccer League ed è stato costretto a rientrare in Ungheria tra gli sberleffi di chi lo considerava un fallito.

Poi, una volta appesi gli scarpini e divenuto allenatore, lo hanno costretto a scappare, mentre l’Olocausto mieteva gli ebrei come lui e un campo di concentramento divorava suo fratello.

Dopo la guerra ha allenato in Romania, Ungheria, Italia, Argentina, Brasile e Cipro: arrivato a sessant’anni e dopo averne viste tante, può dirsi immune alla commozione, ma forse non all’imbarazzo.

Ha appena guidato il Porto in una drammatica rimonta sul Benfica, coronata dalla vittoria per differenza reti nel campionato portoghese 58/59 e i dirigenti gli stanno consegnando una spilla in diamanti a forma del logo del club.

Quel pizzico di disagio che prova mentre intasca il gioiello deriva probabilmente dall’accordo firmato per la stagione successiva proprio per gli encarnados di Lisbona, che si è guardato bene dall’annunciare ai suoi grati anfitrioni.

Anche perché c’è la finale della Taça de Portugal ancora da giocare e l’avversario è ancora il Benfica, che vince il trofeo e aspetta il suo nuovo allenatore. Lui, da consumato istrione che non teme di essere tacciato di egocentrismo, si sgancia dai dragoes aggrappandosi al clima umido di Oporto, non proprio il massimo per la salute.

Anche questa volta Guttmann non si fa problemi a fare ciò che vuole e a mostrare la sua indole manipolatoria: è così che si approccia alla vita e agli uomini, prendere o lasciare. E spesso c’è chi lascia, perché con un carattere come il suo è facile andare allo scontro.

Ma nel calcio è un maestro indiscusso, un innovatore in grado di motivare la squadra con un carisma magnetico e di schierarla con sagacia e maestria.

Bela ama il possesso palla, la coralità e i passaggi corti: nei suoi anni da giramondo delle panchine ha perfezionato i principi a lui cari fino all’approdo al 4-2-4, che segna il pensionamento dello storico WM di Chapman.

Ora tocca al Benfica avere a che fare con questo signore burbero e visionario, che non nasconde di voler lasciare un segno nel gioco del calcio.

La squadra che eredita è di prim’ordine: in porta c’è Alberto da Costa Pereira, in difesa Mario Joao, a centrocampo Joachim Santana e Cavém, in attacco José Aguas e José Augusto. 

Poi c’è la stella, Mario Coluna, sublime direttore d’orchestra e discreto collezionista di soprannomi: tra “Coluna vertebral” e “o Monstro sagrado” i tifosi allo stadio da Luz hanno l’imbarazzo della scelta quando devono dedicargli un coro.

Guttmann è contento, il materiale è di prim’ordine e si può far bene, magari anche in Coppa dei Campioni, dove domina da anni il Real Madrid. Il Benfica finora ha fatto la comparsa in Europa e il presidente Mauricio Vieira de Brito, senza crederci veramente, promette al tecnico in caso di vittoria lo sproposito di trecentomila corone: ancora non sa che i soldi sono per Bela un incentivo formidabile.

Nella Primeira Divisao 59/60 l’avversario diretto è lo Sporting, l’altra squadra di Lisbona: gli ercandados lottano punto su punto con i cugini, conquistando il titolo di campioni solo alla fine. La rivalità tra i due club non si limita però al solo campionato, ma converge anche sull’ingaggio di un giovane calciatore che il tecnico ungherese vuole portare al Benfica.

Una mattina, mentre è dal barbiere, Guttmann incontra José Bauer, un suo ex giocatore ai tempi del San Paolo. Bauer, che ora fa l’allenatore, gli racconta con toni entusiastici di un ragazzo di colore in cui si è imbattuto in Mozambico e che ha provato a portare senza successo al San Paolo.

Bela si incuriosisce e prende informazioni su questo fenomeno. Gli dicono che ha diciotto anni e vive a Mafalala, un sobborgo di Lourenço Marques; che è orfano di padre fin dalla tenera età ed è cresciuto in estrema povertà; che ha imparato a giocare con palle fatte di calzini e un vero pallone lo ha visto solo quando si è unito allo Sporting Lourenço Marques; che si chiama Eusébio da Silva Ferreira, ma sul campo lo conoscono solo come Eusébio; che è eccezionale, fuori dal comune, segna a raffica e scatta come un felino: per Guttmann può bastare.

Convince il presidente Vieira de Brito a prenderlo, ma non è semplice: come molti club nelle colonie portoghesi lo Sporting Lourenço Marques è una società satellite, affiliata ai cugini dello Sporting, che avrebbero il diritto di prelazione sul cartellino di ogni tesserato. Per Bela un “avrebbero” è un pertugio in cui insinuarsi con ogni mezzo.

Prima tratta con mamma Flora, centro di gravità emotivo del ragazzo, promettendole cifre che lei e suo figlio non si sono mai immaginati; poi sposta l’obiettivo sullo Sporting Lourenço Marques, su cui rovescia una fortuna.

Come lo Sporting viene a sapere del tentativo di scippo fa fuoco e fiamme, accusa il Benfica di calpestare le regole e prova a forzare la mano alla sua società affiliata e al ragazzo.

Lo Sporting però non sa affondare il colpo e pur volendolo non è disposto a fargli firmare un accordo da professionista, preferendo parcheggiarlo nelle giovanili senza retribuzione: non c’è partita ed Eusébio e la mamma firmano per le aquile di Lisbona.

Ma il clima è ormai esasperato e volano gli stracci. Lo Sporting non solo contesta l’accordo tirando per giacca la Federazione calcio portoghese, ma c’è chi giuria che sia anche disposto a rapire Eusébio una volta giunto in Portogallo.

Guttmann, che non vuole correre rischi e nella vita ne ha viste tante, decide di anticipare l’eventuale mossa: ordina di spedire il ragazzo in un albergo nell’Algarve subito dopo il volo dal Mozambico.

Lì, in attesa che le polemiche si sgonfino, Eusébio vive in incognito in una camera prenotata per tale Ruth Molosso e si fa prendere dall’angoscia di essere finito in una faccenda più grande di lui. Chiama la madre al telefono per dirle di voler tornare a casa, ma la signora Flora, con ancora in mano l’assegno del Benfica, gli ricorda che non si può avere nostalgia della fame e lo convince a restare: dopo dodici giorni la dirigenza degli encarnados decide che il pericolo è passato e che è ora di conoscere Lisbona.

Ci vogliono mesi prima che la faida abbia termine e il Benfica venga riconosciuto legittimo proprietario del cartellino di Eusébio: nel frattempo Guttmann gli fa assaggiare il calcio europeo attraverso le partite delle giovanili, in cui il talento mozambicano viene finalmente testato.

Intanto il Benfica riparte per una nuova stagione, affermandosi ancora sullo Sporting nella Primeira Divisao, mentre in Coppa dei Campioni le aquile di Lisbona si spingono inaspettatamente e con estrema facilità fino alla finale.

Protagonisti di questa avventura sono Aguas con i suoi goal e Coluna, che sotto la guida di Guttmann raggiunge la maturità calcistica e illumina con le sue invenzioni la cavalcata europea degli encarnados

L’entusiasmo per la conquista della finale di Berna si smorza ampiamente quando dall’altra semifinale esce vittorioso il Barcellona di Czibor, Kubala, Suarez e Kocsis.

I blaugrana, che dopo aver eliminato il grande Real Madrid di Di Stéfano sono diventati i favoriti per la vittoria, attaccano i lusitani dal primo minuto, segnando al ventesimo con Kocsis. Il Benfica però non si fa prendere dal panico e pareggia poco dopo con un pallonetto di Aguas, che si conferma cecchino implacabile e costringe il Barcellona ad accusare il colpo più del dovuto: dopo neanche un minuto e in preda alla confusione, lo squadrone catalano segna un autogoal clamoroso che rovescia le sorti della partita.

Nel secondo tempo “o Monstro sagrado” Coluna scrive il suo nome sul tabellino marcatori e le aquile spiegano le ali sull’Europa: l’assalto finale porta i blaugrana ad accorciare con Czibor, ma non basta a scardinare il fortino davanti a Costa Pereira.

Lisbona è in delirio, i tifosi del Benfica festeggiano come mai prima d’ora, la dirigenza è entusiasta e anche Guttmann lo è: ci sono trecentomila corone che aspettano di finire sul suo conto in banca.

Ubriaco di gloria e con le difese abbassate il presidente Mauricio promette a Bela un premio astronomico di 650000 corone in caso di conferma europea: lui stringe la mano, mentre qualcuno nella stanza giura di aver visto l’emblema dell’escudo portoghese balenargli negli occhi.

Il Benfica non parte bene nel 61/62 e perde la Coppa Intercontinentale con il Penarol: Guttman scaraventa strali sulla dirigenza, rea secondo lui di aver organizzato male la trasferta sudamericana, ma il remissivo Vieira de Brito, ormai a fine mandato, si fa rimbalzare addosso le accuse.

Le aquile stentano anche in campionato e stavolta lo Sporting ha la meglio, aggiudicandosi la Primera Divisao: a chi gli chiede il perché del sorpasso dei cugini, Bela risponde maligno che il Benfica “non ha il culo per sedersi su due sedie”.

L’unica nota positiva è l’ingresso in formazione di Eusébio, finalmente pronto a giocare nel calcio dei grandi: il ragazzo ha confermato le sue doti e messo in mostra un bagaglio tecnico e atletico fuori dal comune che Guttmann innesca volentieri sui campi lusitani ed europei.

In Coppa dei Campioni il Benfica ha un buon inizio, poi perde per tre goal a uno col Norimberga e solo il genio sfavillante del giovane mozambicano riesce a evitare il tracollo, salvando i suoi nella partita di ritorno.

Inizia l’epopea del ragazzo, che non teme i grandi palcoscenici e schianta come birilli i suoi annichiliti oppositori, come se si trovasse ancora ai campetti Lourenço Marques.

EUSÉBIO 🇵🇹 (1942-2014) La Pantera Negra de Benfica y Portugal ⭐ Leyendas del Fútbol

Eusèbio diventa il prototipo di un nuovo genere di attaccante, un miscuglio di atletismo forsennato e tecnica sublime, in grado di aggredire lo spazio con esplosività e passo da centometrista: quando viaggia palla al piede è imprendibile e schianta come birilli i difensori che non sanno come bloccare l’imperiosità di quel galoppo olimpionico.

Eusébio è fantasia e potenza, raffinatezza e corsa, dribbling e velocità, tiro e goal: è la pantera nera di un nuovo calcio, supereroe venuto dall’Africa a travolgere il calcio europeo con movenze feline.

Anche il Tottenham in semifinale non può nulla contro le aquile, che volano ancora in finale. Ad Amsterdam trovano il Real Madrid: se la prima finale era stata dura, questa volta contro Puskàs, Gento e Di Stéfano dovranno essere perfetti.

Le merengues vogliono ribadire la loro supremazia continentale dopo il passaggio a vuoto della stagione precedente e infilzano per due volte Costa Pereira in soli venti minuti. I due goal di Puskàs sembrano mettere fine a ogni velleità di gloria, ma prima il solito Aguas e poi Cavem riportano in partita le aquile.

Sul finire del primo tempo Puskàs scrive l’ennesima prestazione da leggenda e con la sua tripletta si va all’intervallo: per molti è davvero finita qui, anche se il Benfica ha ancora un tempo per recuperare il goal di scarto.

Guttmann è già oltre: “la partita è vinta”, dice ai suoi, “loro sono morti”. E così è: prima Coluna pareggia e poi Eusébio, da vera pantera nera, sbrana le merengues con due goal e si porta a casa la coppa.

Il Benfica conquista di nuovo la Coppa dei Campioni, ma l’urlo di gioia della dirigenza si strozza in gola durante i festeggiamenti, quando sorge una domanda più che lecita: “E ora il premio promesso a Guttmann per la vittoria come lo paghiamo?”

Entra in scena Antonio Cabral, neo eletto presidente degli encarnados al posto del malleabile Vieira de Brito, che si rimangia l’impegno del suo predecessore: 650000 corone significherebbero sfiorare la bancarotta e sono inconcepibili anche per le fiorenti casse delle aquile.

“Abbiamo scherzato”, gli dicono: in fondo non c’è niente messo per iscritto, ma solo parole dette sull’emozione del momento. Provano insomma a salvarsi con un “verba volant” d’occasione, ma Bela non la prende affatto bene: se il Benfica è sul tetto d’Europa è per merito suo e poi non si scherza sui soldi, siete matti? Quando era tornato in Europa dall’America con una valigia di cartone, lui, il più grande giocatore magiaro della sua generazione, era stato preso a sberleffi e definito poveraccio da chi prima lo osannava: l’umiliazione era stata intollerabile. Da quel momento Guttmann decide che solo stipendi e premi sempre più grandi potevano lavare via la vergogna da cui non riusciva a scappare.

L’affronto e il mancato rispetto dell’accordo sono inaccettabili per Bela, che con la seconda vittoria in Coppa dei Campioni ha guadagnato quattromila dollari in meno rispetto a quando ha vinto solo la Primeira Divisao: senza soldi i preti non dicono messa e lui se ne va. Prima però lancia in conferenza stampa il suo anatema: “Da qui a cento anni il Benfica senza di me non vincerà mai una Coppa dei Campioni”.

Guttmann lascia a Lisbona una squadra formidabile, coronata da un gioiello ventenne che si abbatterà sulle porte come un tornado per tutti gli anni sessanta.

Ma se in patria collezioneranno ancora titoli su titoli, l’Europa resterà un’utopia e la maledizione di Bela Guttman diventerà l’incubo degli encarnados, che perdono le finali di Coppa dei Campioni del 1963 con il Milan, del 1965 con l’Inter e del 1968 con il Manchester United.

Il Benfica dopo l’addio al calcio di Eusébio raggiunge altre finali nelle coppe: nel 1983 perde la Uefa contro l’Anderlecht e nel 1988 la Coppa dei Campioni ai rigori contro il PSV Eindhoven.

Nel 1990 le aquile strappano un’altra finale, l’ennesima in Coppa dei Campioni: lo stadio è il Prater di Vienna e a Vienna risiedono dal 1981 i resti mortali del grande e rancoroso Bela.

Eusébio decide che è un segno e va a pregare sulla tomba dell’antico maestro: possiamo mettere fine alla maledizione? Gli parla a cuore aperto e gli racconta delle finali perse e di quanto sarebbe bello fare un regalo a un popolo che non lo ha mai dimenticato. E poi sugli spalti del Prater, accanto a lui, ci sarà anche Amalia Rodrigues, l’altro simbolo del Portogallo: per favore, mister.

Ma Guttman non si lascia intenerire e il Benfica nulla può contro la perfetta macchina da calcio del Milan di Sacchi: Eusébio, che forse non si aspettava troppo, stringe le spalle e pensa che valeva la pena tentare.

Quando nel 2014 la pantera nera se ne va per un maledetto infarto, il portogallo dichiara tre giorni di lutto nazionale e tumula la salma nel pantheon, accanto a Vasco de Gama e alla grande Amalia.

Il Benfica in quella stagione raggiunge un’altra finale continentale, stavolta in Europa League, perdendo ancora: la maledizione di Bela Guttmann è ben lontana dall’esaurirsi.