La psicologia quasi perfetta di Joker e quell’unico punto mancante

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Su Joker di Todd Phillips, Leone d’Oro alla 76° edizione della Mostra del cinema di Venezia, è già stato detto e scritto tutto e il contrario di tutto. Non servirà a molto dire anche in questa sede le stesse cose (o il contrario di esse) in quanto già espresse in maniera lucida, filmicamente colta e cosciente in molte delle pagine meritevoli di considerazione critica. La rete e le pagine delle riviste più o meno specializzate fioccano letteralmente di informazioni e analisi dettagliate a tal punto da soddisfare a dovere chiunque avesse il desiderio tanto di conoscere almeno trama e fatti della narrazione posta in essere quanto di approfondirne la natura psicologica (quella scalinata che ritorna, che la si salga o la si scenda con sinistra grazia, quanto richiama il concetto di Io ed Es freudiano, specie quando all’improvviso spunta la polizia che insegue per reprimere, censurare?) o anche solo i rimandi cinefili (che pure sono tanti: dal Chaplin di Tempi moderni – proiettato in una sala cinematografica che si fa teatro di una delle tante scene chiave del film – per un rinnovato richiamarsi contenutistico tra individuo e furiosa corsa del pianeta verso futuri inaccettabili, in luoghi di finzione scenica che deflagrano al cospetto di una realtà che strappa lo schermo e ne manda al macero le caratteristiche divisorie tra immagine e visione fisica reale; allo Scorsese di – soprattutto – Taxi driver Re per una notte, per ovvie motivazioni e intuizioni di una follia che non è mai realmente follia, o lo è in quanto prodotto di una conformazione civilizzante forzata, di obbligatoria appartenenza come di ostentato riferimento visivo – come altrimenti interpretare proprio la presenza di Robert De Niro per uno dei ruoli cardine in funzione della conformazione di ambientazione e personaggi?).

È sublime, per certi aspetti emotivi, la magnificenza con la quale Phillips tratta il concetto di risata coniugandolo in patologia, quasi come a voler direzionare il sentire altrui verso una concezione della serenità, della spensieratezza, o semplicemente dell’innocenza – che tutti, in quanto umani, acquisiamo di diritto al momento stesso della nascita – intesa come qualcosa da reprimere, da assoggettare a convenzioni che recitano altro, che impongono disciplina (quasi sempre mascherata da educazione) e che, allo stesso tempo costringono a una serenità comandata, perché il suo opposto reale spaventa (“put on a happy face”, o il “don’t forget to smile” che diventa “don’t smile” con un colpo secco di pennarello).

Ed è proprio questo il punto dell’unico discorso che si intende accennare qui, adesso. A Joker non manca certo la maestranza di una regia (splendida proprio in quanto proveniente dalla mano di un additato come eccellenza del demenziale; com’era il discorso? I comici sono i più grandi detentori del dramma?), come non manca certo l’eccellenza anche corporale del puro talento interpretativo (De Niro a parte, Joaquin Phoenix, a certi livelli, è forse davvero un – se non il più – grande attore vivente, almeno da questa parte di pianeta: nella vita sociale persona affabile, disponibile e amichevole, per chi la sa cogliere e approcciare; nella vita invisibile, probabilmente, emblema di un lacerante dolore radicato che emerge da quella maledetta notte fra il 30 e il 31 ottobre 1993).

Qualsiasi informazione, critica o analisi, dicevamo, la si trova davvero ovunque si scelga di direzionare l’occhio per acquisire questa o quell’altra conoscenza sulla pellicola in questione. C’è, però, in Joker, un frammento di discorso di fondo che sfugge al film stesso ma anche alle letture che lo scrivente ha comunque passato volentieri in rassegna a titolo informativo o in segno di curiosità nei confronti di un dibattito ideologico e culturale sempre più che necessario in un contesto di appiattimento globale. Un frammento di discorso che riguarda, nella sostanza, uno spunto di riflessione che, se attuato, avrebbe offerto risultati ben più condivisibili e osannabili dai diretti interessati.

Quale risultato si sarebbe ottenuto se la narrazione avesse fatto di Arthur Fleck non soltanto una persona malata o un emarginato da una società belluina nelle sue atroci intenzioni di selezione del genere umano tramite annientamento del più debole? (Tra il dire e il fare c’è di mezzo Thomas Wayne – ben più pantegana dei ratti che intende sterminare – e suo figlio è solo un imberbe indifeso; qualcuno ancora vuole chiamare tutto questo “origin story”? Bene: una sequenza finale come quella di questo film può tranquillamente far vacillare ogni esigenza di riportare tutto sempre, indefessamente a una serializzazione tanto rasserenante quanto inesistente). Cosa sarebbe successo se Arthur Fleck fosse stato tratteggiato, in primis, come un accumulo senza via di ritorno, un deflagrare di pene innanzitutto emotive, prima ancora che fisiologiche e socialmente strutturali? Ma un accumulo di cosa? Senza dubbio di quel qualcosa che ognuno di noi appartenenti al genere umano, nessuno escluso, ha sentito crescere e maturare almeno una volta nel corso della propria esistenza, elaborando l’accaduto a seconda di una individuale conformazione psicosomatica che è sempre e solo risultato di influenze esterne particolarmente prossime al proprio sentire anche più impercettibilmente sensoriale.

Ed è proprio qui che a Joker manca almeno un tassello non di poco conto.

Ognuno di noi nasce secondo una conformazione interiore (ma anche strutturale, fisica) di contenitore emotivo che fa letteralmente il pieno, nel corso dei propri anni di vita, di esperienze inoculate da impartizioni esterne (la famiglia nel suo complesso, le figure genitoriali, l’istituzione scolastica, i rapporti interpersonali con figure terze e quanto altro), fino al delinearsi – quando vuole o può manifestarsi – di una identità propria, in accordo o in opposizione rispetto al contesto di appartenenza. Focalizzando l’attenzione sulla primissima fase vitale dell’individuo, cosa accade al bagaglio emotivo di chi subisce gravi perdite ed enormi scompensi umorali, o subisce restrizioni o vilipendi laceranti agli albori della propria esistenza? Accade che quel qualcuno inciampa rovinosamente in un enorme masso posto alla sprovvista lungo la strada percorsa a grandi falcate umorali, ferendosi in maniera irreparabile, portando con sé per sempre una cicatrice enorme che è possibile nascondere, certo, ma mai eliminare del tutto in quanto eternamente presente a ricordare l’accaduto.

La prima fase esistenziale è, ovviamente, quella fondamentale per il delinearsi della personalità, ma anche di buona parte di ciò che viene tranquillamente archiviato sotto la voce “malattia” (dai disturbi ossessivi compulsivi più deboli alle esplosioni di dissociazione dell’identità; dite un po’: avete mai avuto un amico immaginario? Ma certo, come no: stavate solo giocando. Proprio come Arthur col suo mentore televisivo e la sua bella fidanzata).

Non è solo il caso, badate bene, di chi subisce violenze, abusi o maltrattamenti di ogni sorta, condannabili, come ovvio, per il solo fatto di esistere anche per un brandello di nanosecondo nella mente di un qualsiasi essere umano su ogni scampolo di superficie terrestre. È il caso anche di una gioia repressa senza motivo alcuno o per ragioni ben fuori dalla portata comprensiva di un bambino; è il caso anche di un semplice schiaffo rifilato da un padre o una madre al proprio piccolo il giorno del suo compleanno perché troppo chiassoso nel manifestare la sua felicità, in attesa della festa serale con gli amichetti, in contrasto col torpore di una giornata storta sull’adulto luogo di lavoro; è il caso anche di un “ma stai zitto” in risposta a una domanda innocente ma importante, in quel momento e in quella fase di vita; è il caso anche di un continuo “non sporcare” quando non hai mai neanche lasciato un’impronta sul vetro di una finestra; è il caso anche di tanti “devi fare questo” e “si fa così” quando il mondo, per contro, va avanti in maniera nettamente diversa da un’epoca precedente.

È il caso di tutti questi (e molti altri) apparentemente insignificanti dettagli della vita di un essere umano che si accumulano nel tempo, ritornando costantemente in situazioni differenti, con altra entità ma consistenza sempre maggiore con il procedere della propria evoluzione atrofizzata; elementi di una crescita all’insegna di timori e sensi di colpa inesistenti, speranze mai nate e orizzonti tramortiti che finiscono per invadere – una volta identificati come tali – ogni sprazzo emotivo portando alla sopraffazione della più esausta disillusione su ogni ipotesi di divenire individuale (e quindi potenzialmente collettivo), a discapito della più genuina autoconsiderazione in quanto appartenente ad un qualsivoglia contesto; portando alla paranoia, o a una percezione del reale che, per quanto inesistente in qualità di emblema della più assoluta soggettività, provoca “malattie” incurabili se non esclusivamente tramite una innata capacità e forza di autoanalisi (rara in molti).

Ed è anche sulla base di questo che una vita adulta non viene più vista come resoconto di esperienze da mettere in pratica ma come una pena inflitta da ulteriori incomprensioni (anche casuali) che spingono oltre l’orlo del precipizio.

Chiunque può essere una coniugazione mai del tutto inadempiente di Arthur Fleck, non per forza fuoriuscendo da trascorsi irrimediabilmente traumatici ma anche solo risultando come un coacervo di privazioni o devianze emotive che conducono a una (spesso del tutto) divergente interpretazione del real. Ed è proprio questo che un pur eccellente lavoro come Joker evita di (o non sa, o non vuole) considerare, preferendo addentrarsi nei ben più battuti e redditizi territori narrativi di sopraffazione e violenza corporale (per non parlare di elementi sociali platealmente orientati verso un “tutto è male” e “tutto è cattivo” che non sempre giocano un ruolo adatto a portare in spalla il gravoso peso della causa).

Se Joker avesse incentrato un buon terzo della sua struttura sul tracciamento di simili elementi emotivi, avrebbe delineato i propri inossidabili tratti distintivi come un crescendo inarrestabile di condivisibilità emotiva difficilissimo da scalzare con produzioni hollywoodiane incentrate sempre sul solito ed estenuante viaggio canonico dell’eroe. Ecco perché il cinema di autori come, tra tutti (almeno in ambito statunitense), M. Night Shyamalan, Jeff Nichols e David Lynch trasuda realtà pur tramite (anzi grazie a) messe in scena apertamente allegoriche di concetti estremamente attinenti a sottilissime stratificazioni di realtà percettiva che i manuali li usano, certo, ma a tornaconto di uno scopo ben preciso, estremamente umano, irrimediabilmente universale (e per questo temuto e, talvolta, allontanato anche con disprezzo, come nel caso di Shyamalan).

Questo manca a Joker per farne un vero capolavoro del reale: la capacità di comprendere dove davvero può avere tutto inizio per chiunque, una caratteristica di importanza fondamentale, capillare e forse più, che però, qui, non riesce ad emergere come forse avrebbe dovuto, soccombendo al naturale esorcismo che ognuno di noi opera nei confronti dell’indicibile aderente al proprio sé; una parte esplicativa fondamentale del non-vissuto di chi ne cesella la conformazione (comunque indispensabile) di baluardo eretto in onore di ultimi mai veramente dichiarati se non da un sistema organizzativo che è finzione di per sé, che è menzogna esso stesso.

Articolo pubblicato originariamente su La Seconda Visione e concesso ad Auralcrave per la ripubblicazione.

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