Il significato dell’Inferno: storia, letteratura, religione

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Quando pensiamo all’inferno, le prime immagini che ci vengono in mente sono quelle  della prima delle tre cantiche della Divina Commedia di Dante Alighieri, che corrisponderebbe al primo dei Tre Regni dell’Oltretomba visitati dal sommo poeta durante il suo onirico viaggio ultraterreno. L’Inferno è, quindi, identificato come il mondo delle anime dannate, collocate in base alla logica morale medioevale, a sua volta fondata sull’Etica Nicomachea di Aristotele. L’Inferno dantesco, pertanto, nell’immaginario collettivo, è diventato il paradigma per eccellenza per rappresentare il luogo della miseria morale in cui si trova l’umanità, privata in maniera definitiva della grazia divina e di ogni possibilità di raggiungere la salvezza. Ma proviamo a riflettere, in maniera più approfondita, sulle varie concezioni storiche e filosofiche che hanno cercato di dare una definizione al luogo più temuto dell’oltretomba, destinazione inevitabile delle anime irredente che, comunemente, con poche varianti significative, indichiamo come “inferno”.

L’origine dell’Inferno

La civiltà umana ha avuto inizio quando l’uomo ha cominciato ad avere la consapevolezza di doversi confrontare con il mistero della vita e di conseguenza con quello della morte. Chi siamo? Perché siamo qui? Dove andiamo? Sono gli interrogativi alla base di ogni riflessione umana che, agli albori del periodo considerato “storico”, sono stati risolti attraverso l’elaborazione di miti e di leggende, raggiungendo la dignità di “pensiero sistematico”, in alcuni contesti particolari, come nella filosofia greca, alla base dell’intero impianto razionalistico occidentale.

Il termine “inferno” deriva dal latino infernum, quindi da inferus (infer) che richiama in maniera esplicita il concetto del “sotterraneo”, da mettere in relazione al sanscrito adhara, diffusosi in ambito indeuropeo con il suffisso ndhero , “sotto”, di cui si conservano evidenti tracce nelle lingua inglese (under) e nella lingua tedesca (unter). L’idea dell’inferno si è sviluppata nella maggior parte delle culture precristiane, cristiane e non cristiane. Di solito, come già detto, è indicato come un mondo oscuro e sotterraneo, associato alle viscere della terra, mentre il paradiso è collocato nei cieli, come simbolo di ascesi e di libertà spirituale.

L’Inferno nella storia e nelle religioni

Le religioni monoteiste (ebraismo, cristianesimo ed islamismo) traggono origine dagli antichi culti Accadici, Semitici, Caldei ed Assiro-Babilonesi. Ad esempio una leggenda babilonese narra di Tiamat, che vuol dire “abisso”, raffigurata come il serpente mostruoso che spazza il mare ed abita la notte, sfidata e sconfitta da Bel-Merodach, il dio del sole. La stessa figura del serpente/dragone, identificato poi con Satana, la ritroviamo nell’Apocalisse di Giovanni di Patmos, erede della mitologia religiosa mesopotamica. 

Nello Zoroastrismo, invece, diventa più netta la contrapposizione tra il Dio del bene ed il Dio del Male: l’anima del defunto deve transitare sul ponte “che dà il rendiconto”, collocato tra il picco del Giudizio ed il sacro monte Alborz. Il ponte, infatti, si estende sulle profondità degli inferi, allargandosi al passaggio dei buoni, ma riducendosi allo spessore di una lama di rasoio per i malvagi che, inesorabilmente, sono destinati a cadere, trovandosi dannati nel mondo degli inferi alla mercè di Ahriman, il perfido dio mentitore. 

Nella cultura egiziana, l’anima per conseguire la salvezza deve aver condotto una vita all’insegna del bene e della giustizia. Il suo cuore è pesato nella cosiddetta “Sala della Verità”, mentre il morto pronuncia una sorta di confessione agli dei, molto simile, per la verità, al contenuto dei dieci comandamenti di mosaica memoria (non a caso interessanti teorie identificano la figura di Mosè con Tutmose, nobile egiziano). Il cuore del defunto è posato sul piatto di una bilancia e, qualora sia più pesante della piuma collocata sull’altro piatto, sarà consegnato al vorace Ammit, una creatura divoratrice del mondo degli inferi. Questo rituale mistico, che diventerà anche patrimonio della tradizione ermetica, prende il nome di “psicostasia” (pesatura delle anime). Nell’oltretomba egiziano, vi è Seth, il dio della distruzione che, comunque, protegge anche la barca di Ra, il sole, che passa di notte negli inferi per risorgere il mattino seguente. Nel corso dei secoli il culto di Seth subisce una battuta di arresto, diventando una divinità di rango minore, del tutto crudele e malvagia, fino a confluire nella figura di Satana in ambito cristiano.  

Nella mitologia greco-romana, notiamo che si utilizza il termine “inferi”, come espressione del sotterraneo “regno dei morti”, governato dal dio Ade (Plutone per i Romani) e dalla dea Persefone (Proserpina per i Romani), legata al culto di Demetra e ad i misteri eleusini. Ad un certo punto si passò a identificare il regno dei morti con il suo stesso re, denominandolo appunto “Ade”. È molto importante sottolineare come il regno dei morti per il mondo greco-romano fosse un vero e proprio luogo geografico, nel quale si poteva entrare mediante accessi segreti e poco conosciuti dai mortali. Nella mitologia greca, uno degli ingressi nell’Ade era collocato nel paese dei Cimmeri, al confine crepuscolare dell’Oceano, dove si racconta la discesa remota di Ulisse per incontrare l’ombra del mago Tiresia. In ambito romano, invece, una delle vie di accesso al mondo degli inferi era posizionata vicina al lago Averno, da cui Enea discese in compagnia della Sibilla cumana.

Un’altra importante osservazione da fare è che, nella mitologia greco-romana, all’inizio l’Ade era considerato il regno delle ombre, precluso ai viventi, senza distinzione tra anime buone e malvagie. Solo in un’epoca posteriore, influenzata dai culti orientali, si diffuse la distinzione tra “Tartaro”, ovvero il tenebroso luogo dove eternamente sono punite le anime dei malvagi, e “Campi Elisi”, dove invece vivono felici e beate le anime pie e virtuose. 

La topografia del regno degli inferi raggiunse la usa descrizione più completa nell’Eneide del poeta Virgilio che, oltre alla distinzione tra il Tartaro ed i Campi Elisi, aggiunse il Vestibolo, un sorta di anticamera popolato da mostri e demoni vari. Ed, in più, aggiunse la “città di Dite”, dedicata al re degli inferi, da cui trasse spunto Dante nella “Divina Commedia” per descrivere la città del re dell’inferno, Lucifero. Le pene da espiare nel Tartaro o i premi da conseguire nei Campi Elisi non erano stabilite dagli dei, ma da tre giudici: Minosse, suo fratello Radamanto ed Eaco. Cerbero sorvegliava il luogo dove si emetteva il giudizio, poi era necessario raggiungere il fiume Acheronte e dare una moneta a Caronte per poter essere traghettati dalla parte opposta. Da qui l’usanza di mettere una moneta nelle orbite oculari dei defunti, in modo che avessero la possibilità di pagare il prezzo della morte.

In ambito ebraico, l’inferno subisce un marcato processo di spiritualizzazione. Satana, pur imponendosi come il principale attore del male, non è una divinità contrapposta a Dio, ma una creatura che proviene da Dio stesso, un suo servitore che diventa poi il suo antagonista (Satàn= oppositore). In tale contesto, il demonio assume i tratti degli dèi presenti nel pantheon dei popoli vicini, assumendo anche il nome di Belzebù, dio fenicio. L’inferno, in origine denominato Sheol (il posto dei morti sottoterra) verrà poi chiamato Hinnom (Gehenna), che era il nome della valle dove, stando ad alcuni passi dell’Antico Testamento biblico, veniva adorato il dio Moloch, rappresentato come un  idolo di bronzo contenente una fornace dove venivano gettate le sue vittime, molto spesso bambini e giovani, in cruenti sacrifici umani. Inizia, pertanto, a formarsi il concetto di inferno che sarà sviluppato in ambiente cristiano, come quel luogo dove i malvagi bruciano, subendo i tormenti di una creatura sommamente malvagia e della sua schiera di demoni. Di carattere, più o meno simile, sarà l’immagine dell’inferno che sarà elaborata dal mondo islamico. 

La teologia cristiana si riallaccia a quella ebraica, delineando l’inferno come un luogo di tormenti, dominato dal fuoco eterno e dalle tenebre, dove la luce divina non è ammessa. Da questo luogo, i dannati, come supplizio aggiuntivo, possono addirittura scorgere i santi e i beati che godono dell’estasi divina in Paradiso, ma non posso assolutamente trarne sollievo. La teologia moderna ha sempre più ammesso che l’inferno non è un vero e proprio luogo di torture, con tanto di demoni che perseguitano le anime dannate, ma un luogo di definitivo allontanamento dalla felicità che soltanto Dio può dare. Da notare che alcuni filosofi antichi come Origene, nonché qualche illustre pensatore moderno come Ugo von Baltahsar, sostenevano l’interessante dottrina dell’apocatastasi, secondo la quale alla fine dei tempi vi sarebbe stato il ristabilimento dell’ordine universale, con il ritorno di tutte le creature nella grazia di Dio, perfino Satana.

Secondo tale concezione, dichiarata eretica nel Concilio di Costantinopoli del 553, tuttavia, mai condannata definitivamente dalla Chiesa, l’inferno non dovrebbe essere una condizione eterna, ma temporanea, in quanto non potrebbero coesistere per sempre due regni, quello di Dio e quello di Satana. Per i teologi della Scolastica, in primis, Tommaso d’Aquino, l’inferno si traduce nella definitiva lontananza da Dio. L’anima avrebbe sempre una naturale tensione verso Dio, l’Assoluto e, pertanto, la privazione di questo suo supremo obiettivo la porterebbe in una condizione ontologica e psicologica di perenne sofferenza. Per la Scolastica non è Dio che danna l’anima, ma essa stessa, rifiutando la via della salvezza, costruita e fondata sul mistero dell’incarnazione di Gesù, si autoinfliggerebbe il supplizio eterno.

L’Inferno nella letteratura

Come si diceva in apertura, la Divina Commedia di Dante ci fornisce il paradigma più famoso per pensare all’inferno, in considerazione dell’enorme successo letterario del testo. Dante riassume l’intera dottrina teologica e filosofica del Medioevo sull’inferno, cercando di narrarne anche la storia e la sua formazione. Esso sarebbe costituito da un immenso abisso, scavato da Lucifero (Satana, si tratta di due diverse figure confluite nella mitologia cristiana) dopo la sua caduta dal Cielo, trovandosi nel sottosuolo dell’emisfero delle terre emerse.

L’inferno è concepito come un luogo percepibile immediatamente dai sensi, suddiviso in 9 cerchi, ordinati a seconda della gravità delle colpe commesse, fino ad arrivare all’orribile Lucifero che maciulla direttamente con le sue fauci Giuda, Bruto e Cassio, simbolicamente indicati da Dante, perché esponenti sia del tradimento verso la Chiesa (potere spirituale) che verso l’Impero (potere temporale). Il sommo poeta intravede nella distribuzione delle pene la legge del contrappasso, cioè viene imposta una pena simmetrica ed opposta rispetto al peccato commesso.

Di grande valore poetico e letterario, è la descrizione di John Milton nella sua famosissima opera Paradiso perduto (Paradise lost, 1667). Milton, a differenza di di Dante, non credeva nell’inferno o nel paradiso da un punto di vista concettuale teologico, per cui la sua descrizione ha un valore soprattutto simbolico. È molto coinvolgente la narrazione della caduta di Satana/Lucifero negli abissi che avrebbe generato l’inferno con la sua stessa iniquità, ma per volontà divina. Sarebbe stato Dio stesso, nel suo progetto creativo, che avrebbe individuato un luogo di eterna oscurità e sofferenza, per collocarvi gli angeli ribelli. Ma questi ultimi non sarebbero stati mai annichiliti dalla sua volontà, aderendo, in qualche modo, ad una visione di Lucifero e dei suoi seguaci gnostica e non convenzionale. Forse la descrizione dell’inferno da parte di Milton è una delle più suggestive ed impressionanti dell’intera letteratura:

“Egli subito osserva quell’aspro e desolato luogo, quella prigione orribile e intorno fiammeggiante, come una grande fornace, e tuttavia da quelle fiamme nessuna luce, ma un buio trasparente, una tenebra nella quale si scorgono visioni di sventura, regioni di dolore e ombre d’angoscia, e il riposo e la pace non si troveranno, né mai quella speranza che ogni cosa solitamente penetra; e solo una tortura senza fine urge perenne, e un diluvio di fiamme nutrito di zolfo sempre ardente, mai consunto.”

John Milton, Paradise lost, libro I, vv. 59-69

Ed anche nella visione dell’agnostico Milton, traspare l’influenza della teologia cristiana, implicando una visione infernale come una dimensione spirituale dell’uomo, l’inferno cioè presente nella sua anima. Quasi struggente è l’affermazione del Lucifero di Milton:

“Me miserevole! Per quale varco potrò mai fuggire  l’ira infinita e l’infinita disperazione? Perchè dovunque fugga è sempre l’inferno; sono io l’inferno.”  

John Milton, Paradise lost, libro IV, vv. 76-78

L’Inferno nelle religioni orientali

A differenza delle religioni abramitiche, dove vi è un’accentuata contrapposizione tra il bene ed il male, la visione orientale è più di carattere meccanicistico e spirituale. Nel regno degli inferi buddista, i Naraka, i condannati non subiscono un giudizio da parte di divinità superiori, ma vi giungono come diretta conseguenza della legge del karma, considerata come un principio di causa-effetto di carattere meccanicistico.   Peraltro, i Naraka non sono eterni, ma la loro durata è sempre temporanea, in considerazione della gravità delle azioni compiute, potendosi considerare sia come luoghi fisici che mentali.

Anche nel complesso pantheon induista, non è possibile separare nettamente le divinità buone da quelle malvagie, così come avviene in ambiente abramitico. Nella concezione indiana il male è “il non riconoscere l’unica realtà possibile, l’unica verità contro l’illusione, il Brahaman”. L’allontanamento dalla verità del Brahaman rappresenta di per sé l’inferno, a parte la raffigurazione del demone Traka che tormenta l’anima dannata insieme alle altre creature da lui stesso generate. 

Nel Taoismo cinese, come nel Buddismo, la condizione infernale non è perpetua, configurandosi più simile ad una sorta di Purgatorio che ad un Inferno vero e proprio, poiché le anime dei dannati possono passare attraverso vari stadi di purificazione e liberarsi. Al termine dei tormenti, espiati nel Feng Du, la montagna del reame dei morti, all’anima viene propinata la coppa dell’oblio. L’anima viene rispedita nel mondo dei vivi per una successiva reincarnazione, avendo una nuova possibilità di seguire la Via del Tao (la virtù) per conseguire la perfezione e l’immortalità. Per certi versi la mitologia cinese si avvicinava molto a quella del medioevo cristiano: erano descritti con dovizie di particolari i supplizi patiti dai dannati, mentre i livelli del reame infernale variavano a seconda delle leggende locali, partendo da 4 fino ad arrivare perfino a 18. La particolare crudeltà evidenziata in alcune narrazioni provocò grandi resistenze da parte di eminenti esponenti della filosofia confuciana.

L’Inferno e il pensiero umano

Come abbiamo visto, il pensiero umano si è sempre orientato a ritenere l’inferno come qualcosa legato agli abissi, al sotterraneo, a ciò che è inferiore. Mi piace menzionare un passo tratto da Theology of Death, 1965 di Karl Rahner:

“La nostra nozione di base nel comune concetto dell’inferno include la profondità, qualcosa di inferiore, di intrinseco, appartenente allo sfondo, qualche cosa di essenziale e di radicalmente uno, così che possiamo supporre che quando pensiamo all’uomo che entra all’inferno , lo pensiamo nell’atto di stabilire un contatto con il più intrinseco, unificato, definitivo e profondo livello della realtà del mondo.”

In realtà, con la progressiva maturazione della riflessione umana che ha sempre di più considerato l’inferno come una dimensione metafisica e spirituale, si è anche sviluppata l’immagine dell’inferno come un luogo potenzialmente collocato in un’altra dimensione spazio temporale, dando vita a suggestivi soggetti fantascientifici. In tale contesto, oltrepassando i tradizionali percorsi religiosi e filosofici, alcuni autori hanno razionalizzato la concezione dell’inferno, molto spesso con letture personali epolemiche, rendendo l’atavico luogo di tormenti un simbolo avveniristico dei nuovi disagi della società moderna. Di grande impatto fu ad esempio nel 1964 il romanzo L’inferno a rovescio di Philip Josè Farmer, nel quale l’autore, partendo dal mondo immaginario dantesco e di miltoniana memoria, traspone l’inferno in ambito fantascientifico, dove colloca un’avanzata razza aliena con mire educative sul genere umano.

L’inferno ha ricevuto anche diverse interpretazioni dai promotori del cosiddetto movimento del “transumanesimo”. Esso implica un approccio del tutto nuovo alla futurologia, basandosi sul concetto che l’essere umano (Homo sapiens) non sia il prodotto finale della nostra evoluzione, ma solo l’inizio. I transumanisti, pertanto, riterrebbero desiderabile ed auspicabile l’alterazione della condizione umana, con l’utilizzo della ragione e della tecnologia, per abolire, ad esempio, l’invecchiamento e la sofferenza, e per aumentare le capacità intellettuali, fisiche e psicologiche della razza umana. Nell’immaginario catastrofico di alcuni esponenti di questo movimento, la creazione di una razza artificiale, come i GenRich o Artilect, con capacità decisamente superiori alla nostra, potrebbe ridurre gli Homo sapiens ad una forma di schiavitù, paragonabile all’inferno. Lo stesso romanzo di Dan Brown, appunto titolato “Inferno”, non molto fortunato, per la verità, come Il codice da Vinci, pur muovendosi in ambiti artistici tradizionali, rivela una lettura del “luogo dei tormenti” in chiave marcatamente transumanista.

Mi piace concludere con un famoso riferimento all’inferno di Italo Calvino, tratto dalla sua opera Le città invisibili (Einaudi, 1972), che rende bene l’idea di come l’inferno, al di là del significato mitologico e religioso, rappresenti bene lo stato di angoscia e di solitudine di ogni essere umano: 

“L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà: se ce n’è uno è quello che è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso e richiede attenzione e approfondimento continui: cercare e e saper riconoscere che e che cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio.”

Italo Calvino, Le Città Invisibili

Cover image: Hieronymus Bosch, The Harrowing of Hell

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