Le Città Invisibili: l’architettura umana secondo Italo Calvino

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Marco Polo descrive un ponte, pietra per pietra.
– Ma qual è la pietra che sostiene il ponte? – chiede Kublai Kan.
–  Il ponte non è sostenuto da questa o quella pietra, –  risponde Marco, – ma dalla linea dell’arco che esse formano.
Kublai Kan rimane silenzioso, riflettendo. Poi soggiunge:
– Perché mi parli delle pietre? È solo dell’arco che m’importa.
Polo risponde: – Senza pietre non c’è arco.

“Città (ant. cittade) s. f. [lat. civĭtas -atis «condizione di civis» e «insieme di cives»; al sign. di «aggregato di abitazioni» la parola giunse per metonimia, sostituendo urbs]. – 1. a. Centro abitato di notevole estensione, con edifici disposti più o meno regolarmente, in modo da formare vie di comoda transitabilità, selciate o lastricate o asfaltate, fornite di servizî pubblici e di quanto altro sia necessario per offrire condizioni favorevoli alla vita sociale”. L’enciclopedia Treccani la definisce così: un luogo in cui si svolge, più o meno ordinata, la vita degli uomini.

La vita degli uomini, tuttavia, non sembra poi essere così ordinata: segue traiettorie strane, è ingarbugliata, confusa, misteriosa. È vero, si fanno le file alla posta, le confezioni di pasta si trovano sempre tra gli scaffali del supermercato e il bagno è sempre in fondo a destra, eppure i rapporti umani rimangono il marasma di sempre, si continua perennemente a scrutare il cielo in cerca di segnali, sembra impossibile smettere di travisarli, e quell’attimo in cui vorresti esprimere i tuoi sentimenti pesa sempre come un macigno: il tempo, la gravità e le distanze che riempiono le città sembrano rispondere più a un capriccio che alla volontà di un dio razionale. È questa l’urbe che abitiamo, questo il villaggio interiore in cui instancabili ci ritiriamo e ancora questa la città che Calvino vede ne Le Città Invisibili. L’unica che valga la pena di descrivere, pietra per pietra.

calvino

Italo Calvino è senza dubbio uno degli scrittori italiani più importanti del novecento. È da molti considerato uno scrittore trasversale: prendendoci per mano sin da bambini, raccontandoci con la dolcezza delle fiabe le asperità del mondo, ci accompagna nell’adolescenza con i racconti di formazione che ci aiutano a superare gli imbarazzi di chi è ancora impacciato nel maneggiare le cose della vita, per poi arrivare a quell’inestricabile groviglio che è l’età adulta, nel lungo viaggio che porta alla consapevolezza del mondo attraverso la decifrazione dei suoi astrusi codici.

Il bambino che ascolta dalla bocca del babbo le flautate parole delle Fiabe Italiane per poi essere trascinato nel mondo dei sogni, si risveglia misteriosamente su un albero mentre dà la caccia al proprio io che chissà perché si trova proprio lì, a un paio di metri da terra. E non c’è neanche il tempo di ascoltare il mormorio della gente che sussurra di un certo barone rampante, che ben presto l’adolescente, divenuto adulto si ritrova a vagare al soldo dell’imperatore dei tartari alla ricerca di città misteriose, molto probabilmente invisibili, ma necessarie per cercare tra le maglie di trame sempre più complicate il segreto della geometria che attiene alle cose umane.

Marco Polo riporta all’imperatore dei Taratari Kublai Kan i resoconti del suo viaggio. Nel suo cammino gli capita di incontrare città come Tecla, perennemente in costruzione, almeno fino al tramonto, quando “Scende la notte sul cantiere.” E a chi chiede qual è il progetto, quale il fine di tanto instancabile lavoro, gli si risponde semplicemente che è una notte stellata, “Ecco il progetto”; racconta all’imperatore della città ragnatela: “Sospesa sull’abisso, la vita degli abitanti d’Ottavia è meno incerta che in altre città. Sanno che più di tanto la rete non regge.”; ad Anastasia si imbatte in una città ingannatrice in cui “se per otto ore al giorno tu lavori come tagliatore d’agate onici crisopazi, la tua fatica che dà forma al desiderio prende dal desiderio la sua forma, e tu credi di godere per tutta Anastasia mentre non ne sei che lo schiavo”. E ancora tante altre sono le città che segnano il viaggio di Marco Polo: Despina Eufemia Ipazia Sofronia. Come ogni città presenta una morfologia singolare, così accade sempre che tale morfologia si rifletta sul modo di essere dei suoi abitanti… o è forse vero il contrario, ma fa lo stesso perché in fondo la città non vive che dei suoi abitanti e non è data l’una senza gli altri.

Partendosi di là e andando tre giornate verso levante, l’uomo si trova a Diomira, città con sessanta cupole d’argento, statue in bronzo di tutti gli dei, vie lastricate in stagno, un teatro di cristallo, un gallo d’oro che canta ogni mattina su una torre. Tutte queste bellezze il viaggiatore già conosce per averle viste anche in altre città. Ma la proprietà di questa e che chi vi arriva una sera di settembre, quando le giornate s’accorciano e le lampade multicolori s’accendono tutte insieme sulle porte delle friggitorie, e da una terrazza una voce di donna grida: uh!, gli viene da invidiare quelli che ora pensano d’aver già vissuto una sera uguale a questa e d’esser stati quella volta felici.

Le città di Calvino sono un intrico tutt’altro che ordinato, matasse difficili da sbrogliare in cui le persone, le speranze e i sentimenti s’ingarbugliano e formano nodi a volte dolorosi. Città in cui la strada più breve che unisce due punti si ferma su un binario morto che non conosce destinazione, un luogo in cui dall’ordine nasce la disperazione e dal disordine può spuntare una moneta d’oro o almeno un bicchiere di vino ai cui vapori affidare la propria redenzione. Città di morte, amori e speranze: città divine e città imperfette.

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Le Città Invisibili appare per la prima volta nel novembre 1972. A pubblicarlo è Einaudi e il libro, più che al mondo degli scaffali polverosi di una libreria o agli annali di una antologia, appare sin da subito destinato al firmamento letterario. Per comprendere come il libro sia stato accolto in quegli anni, è sufficiente leggere quale fosse, dopo anni segnati da qualche frizione personale e – per così dire – ideologica, il giudizio che ne formulò Pier Paolo Pasolini:

Le Cosmicomiche – lo confesso – mi erano giunte come una cosa irreale e interlocutoria. Adesso egli mi riappare, non solo vero, ma più vero che mai, col suo ultimo libro, che non solo è il suo più bello, ma bello in assoluto.

La struttura del libro è estremamente semplice: pagina dopo pagina i resoconti di viaggio e i commenti che Marco e l’imperatore ne fanno si alternano ordinatamente. Ogni città riecheggia di allegorie concentriche, ogni racconto è una parabola con una precisa morale, e poi un’altra e un’altra ancora. La cartografia disegnata da Calvino delinea città di sentimento, retaggio ed errore. Camminando tra le strade sotterranee di un borgo e quelle aeree di un altro, Calvino si trova di fronte ai più diversi tipi umani, alle società degli uomini che partecipano al gioco della vita senza afferrarne fino in fondo le regole.

Kublai Kan possiede la maggior parte di queste città e le altre le desidera. Come ogni sovrano degno di questo nome vuole conoscere l’estensione del proprio dominio, ma col passare degli anni si sedimenta in lui la consapevolezza dell’impossibilità di contenerlo tutto dentro di sé questo dominio di città soggiogate con la forza: come i suoi sudditi, anche per l’imperatore è estremamente arduo decifrare l’algoritmo di quel gioco misterioso e crudele che è la vita umana.

A differenza dei suoi sudditi, tuttavia, Kublai Kan può avvalersi della preziosa guida di Marco Polo. Probabilmente, percorrendo la via della seta, Marco Polo non ha conosciuto soltanto luoghi remoti e inusitati, quanto meno non solo fuori di sé. Nel suo lungo viaggio attraverso la vita Marco deve aver osservato una grande varietà di uomini, di situazioni, di comportamenti e di pulsioni; deve aver raccolto le preziose monete di questo tesoro disseminato con grande alea in ogni angolo del pianeta, e deve aver portato il bottino raccolto dentro di sé. E deve aver confrontato le monete preziose che custodiva nel cuore con quelle raccolte dagli occhi nel suo lungo viaggio, e da questo confronto deve averne tratto una legge che governa gli uomini e che costituisce la più importante ambasceria che potesse riportare al suo imperatore:

L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n’è uno, è quello che è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio.

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