American Graffiti: vivere nel passato per fuggire dal presente

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Ci sono film che portano su di loro l’inconfondibile segno dei loro tempi: La febbre del sabato sera è legato alla fine degli anni ’70, Pulp Fiction con il suo collage postmoderno è un manifesto degli anni ’90. Ci sono altre pellicole, al contrario, che tornano nostalgicamente indietro nel tempo, come se volessero fuggire da un presente non soddisfacente: American Graffiti (1973) di George Lucas, è uno di questi film.

Sì, avete letto bene, George Lucas, proprio quell’uomo che nel 1977 con il primo Star Wars (in realtà come ben sanno gli appassionati si tratta del quarto capitolo della vicenda) rivoluzionerà definitivamente la storia del cinema, facendo uscire il genere dello sci-fi dalla non meglio definita nebulosa dei film di serie B rendendolo un prodotto artisticamente riuscito e (forse soprattutto) assolutamente vendibile sul grande mercato.

Ecco, prima di questa rivoluzione c’è stato American Graffiti, che potremmo definire come una conservazione: se infatti con Star Wars Lucas guarda avanti nel tempo (ovviamente a livello di effetti speciali, ma anche nella struttura della storia), con American Graffiti il regista statunitense dà un ultimo sguardo nostalgico alla propria adolescenza, prima di abbandonarla definitivamente. La pellicola è infatti un trasognante omaggio agli happy days degli anni ’60 (siamo in un paese della provincia americana nel 1962), della gelatina e della serenità: un omaggio, di fatto, agli U.S.A. prima dello scontro con la realtà, che possiamo simbolicamente far coincidere con la guerra del Vietnam.

Lucas gira per l’appunto il film nel 1973: il Vietnam, il ’68, Martin Luther King, Woodstock, sono tutti eventi e persone già passate, temi già assorbiti dall’inteligencja americana. Siamo infatti a livello cinematografico in piena New Hollywood, ovvero quel momento della storia del cinema statunitense in cui registi come Scorsese e Coppola guardano all’Europa e distruggono la bolla di vetro della middle class benpensante per immettere nei loro film temi di forte attualità politica e sociale. Lucas, con American Graffiti, sembra scappare da tutto questo: scappare dal Vietnam, scappare dall’impegno politico, scappare dalla vita adulta, per re-immergersi in un’onirica infanzia in cui l’unico vero problema era il trovare la macchina per uscire la sera con gli amici.

American Graffiti è la storia della notte prima della partenza per il college (e quindi verso l’età adulta) di quattro ragazzi di un paesino della provincia americana. I quattro personaggi sono diversi ma abbastanza stereotipati: abbiamo Curt, il riflessivo che non ha ancora deciso se vuole partire o no; abbiamo Steve, che è deciso invece a partire per prendere a piene mani “quel meraviglioso mondo che è lì fuori”; abbiamo Terry, lo sfigato del gruppo, che proprio in questa sera riesce a trovarsi la ragazza; e poi, last but not least, abbiamo John, il ribelle alla James Dean che vorrebbe scappare via ma che si trova frustratamente incastrato nel personaggio del “più figo del circondario”.

Ma non è tanto la storia di questi quattro ragazzi che mi preme analizzare, quanto piuttosto l’ambiente ricreato, che, come detto, assume i tratti di un tentativo di fuga dal presente (anni ’70) del regista.

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La locandina del film.

L’arena in cui si svolge la vicenda è infatti quanto di più tranquillo si possa immaginare: i ragazzi girano tutta la sera in macchina completamente liberi da ogni pensiero. Ecco, per l’appunto, la macchina. Il simbolo del benessere per antonomasia del capitalismo americano è anche il simbolo della pellicola: i personaggi passano praticamente tutta la sera a guidare per le strade del paese, ed essa è indiscutibilmente il must dell’essere “fighi” (John è ovviamente il guidatore più veloce della contea) e l’oggetto del desiderio di tutti (Terry vede nella macchina l’unico modo per avere finalmente una ragazza). L’automobile assume dunque l’immagine dell’oggetto del desiderio di un’intera generazione, essa è però un’auto che gira sempre intorno, non è un biglietto di sola andata per un mondo nuovo, non è una via di fuga da un ambiente opprimente: è un segno del benessere da sfoggiare tra i propri coetanei.

Ed è proprio per questo che il punto di risoluzione del film è estremamente importante: John si ritrova gareggiare con Bob (un giovanissimo Harrison Ford), un ragazzo che lo vuole battere in velocità; la corsa però quasi finisce in catastrofe dato che Bob perde il controllo della macchina, che finisce fuori strada e poi prende fuoco (ma il ragazzo riesce a salvarsi). La macchina che prende fuoco assume dunque un duplice significato. Da una parte essa è un simbolo alla Easy Rider che manifesta il crollo delle illusioni della generazione degli anni ’60 di fronte alla dura realtà: lo scoppio dell’auto dunque come metafora dello scoppio della guerra in Vietnam, come metafora della fine dell’adolescenza e dell’inizio dell’età adulta. Dall’altro lato data la location della corsa (una classica highway statunitense che dà verso l’infinito), lo scoppio della macchina potrebbe simboleggiare un’impossibilità di via d’uscita dal piccolo paesino statunitense e dunque un’impossibilità di via di fuga dall’adolescenza: l’impossibilità del diventare adulti e del vivere la vita reale.

In questa cornice già nostalgica e onirica di suo, la sceneggiatura vuole contribuire alla patinatura dell’opera. Le trame e i dialoghi tra i personaggi sono infatti forzatamente e volutamente banali: le morali sono facilmente intuibili e l’arco di cambiamento dei protagonisti è già chiaro dalla prima sequenza. È infatti chiaro fin da subito che Curt deciderà di partire e che Steve resterà a casa, ma l’ovvietà della trama è scelta coscienziosamente per poter riprodurre un mondo in cui tutto era realmente facile e sotto gli occhi di tutti, in cui non serviva ragionare e riflettere per trovare delle risposte alla propria vita. Per questo American Graffiti rientra in quel cospicuo filone della cinematografia americana che ha come tema la perdita dell’innocenza (assieme a Il grande Gatsby e tanti altri): la perdita dell’innocenza di una nazione che scopre la guerra, le rivoluzioni e i morti, la perdita dell’innocenza di una nazione che si riconosce come anch’essa carnefice degli innocenti, e non come simbolo assoluto della libertà di pensiero e della democrazia.

Ed è proprio per questo che partire fa così tanta paura: perché il mondo lì fuori è meraviglioso, sì, ma va affrontato, e per affrontare qualcosa bisogna prendersi le proprie responsabilità e mettersi in discussione. E Curt non vuole affrontare se stesso, o almeno non è pronto a farlo: ecco quindi che invece di preparare le valigie continua a seguire un obiettivo impossibile (una ragazza bionda che guida una macchina bianca) per tutta la notte, come se questo potesse essere la risoluzione ad ogni suo dubbio. Il messaggio di Lucas è chiaro: la generazione degli anni ’60 pur di non crescere è pronta a passare il proprio tempo nell’inseguire il nulla, a riempire di senso una cosa senza senso alcuno. Ma alla fine della fiera bisogna comunque partire, bisogna comunque crescere: e quindi Curt con poco sonno si imbarca sull’areo salutando tutti i suoi amici e dal finestrino dell’areo vede sulla strada sottostante sfrecciare la macchina della donna cercata per tutta la notte, che guida nella sua stessa direzione, ovvero verso il futuro. La macchina bianca, simbolo dell’innocenza perduta (per chiaro simbolismo cromatico) e ricercata invano riappare solo quando il protagonista decide di crescere e di affrontare la vita, un po’ come dire: avrai quello che credi di desiderare solo quando avrai capito cosa desideri davvero.

In questo mondo bianco e candido, fatto di drive-in e ragazze dai capelli cotonati, non è presente nessuna etnia diversa da quella bianca statunitense. Niente neri, niente messicani, nessun asiatico: sembra che il paesino in cui viene ambientata la vicenda abbia subito una sorta di “purificazione della razza bianca” da parte de Ku Klux Klan. Non per questo il film vuole essere razzista: sarebbe stato infatti forse più etnocentrico il presentare le etnie diverse come disturbatori di una realtà ovattata (una roba che ha ironicamente fatto recentemente George Clooney, con il cospicuo aiuto dei fratelli Cohen, con quel gioiellino che è Suburbicon). Omettere completamente le etnie non appartenenti alla midlle class americana è più una scelta orientata verso la volontà del non guardare in faccia nessun problema. Come detto infatti nel ’73 ormai anche la parabola di Martin Luther King e del movimento contro la segregazione dei neri è stata ormai largamente assorbita dal cinema americano: il non guardarla in faccia equivale al rifiuto netto di ogni conflittualità, di ogni, un certo senso, errore di quella società ovattata idealizzata da Lucas. L’inserire l’etnia afroamericana in quegli anni richiede infatti necessariamente una presa di posizione politica da parte dell’autore (verso destra o verso sinistra, che dir si voglia), ma in un film che vuole idealizzare l’età dell’innocenza, la politica non può essere in alcun modo ammessa.

Nello stesso versante va interpretata la scelta della colonna sonora, una compilation del miglior rock n’roll anni ’50 e ’60 (da Barbara Ann a Rock Around The Clock, passando per The Great Pretender), il rock n’roll, possiamo dire, dell’innocenza e del divertimento. Nel ’73 infatti è già arrivato Woodstock, con il suo carico di psichedelia, progressive rock e assunzione di droghe pesanti. In questo quadro il rock n’roll bianco ed apolitico degli happy days assurge a metafora della piccola scappatella senza risvolti sociali, del piccolo gesto di ribellione subito riassorbito (e tollerato) in una vita tranquilla. Tutti ascoltano rock n’roll e lo ballano: il ballo della scuola, mid-point della vicenda, è simbolo di questa ribellione negli schemi. Lo stesso John, ribelle per antonomasia, possiede un cuore d’oro (tutta la vicenda con la ragazzina sta a testimoniare la sua purezza) ma ha il mondo degli adulti (impersonato dalla polizia e dai professori) alle calcagna, anche se in una maniera che pare sostanzialmente immotivata. Se infatti in questo mondo onirico non c’è spazio per altre etnie, non c’è spazio neanche per dei personaggi adulti con un minimo di caratterizzazione: gli over 40 sono tutti allo stesso modo pesanti e punitivi, sono in un certo senso i veri antagonisti della pellicola (e non è un caso che il rito di iniziazione di Curt sia il distruggere la macchina di un duo di poliziotti): essi non portano con loro alcun messaggio di crescita e non hanno assolutamente niente da insegnare. È questo forse il più grande simbolo della non voglia di crescere che George Lucas ci tiene ad immettere nel suo film.

Cos’è, quindi, American Graffiti? È un sogno ad occhi aperti, è il vagheggiamento nostalgico di un’età tranquilla in cui tutto andava bene: è una vera e propria fuga da un presente fatto di lotte e contestazioni. American Graffiti è il ritratto di un passato decontestualizzato ed estremamente patinato che non vuole trovare risposte di alcun tipo, ma che vuole solamente sognare.

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