Come il Poema a Fumetti di Buzzati rivoluzionò il fumetto italiano

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“Letteratura e immagini non si sposano, perché la letteratura non consente contaminazioni di nessun genere”

Così Carlo Marabini, sul Resto del Carlino, recensisce nel settembre 1969 l’appena edito da Mondadori Poema a Fumetti di Dino Buzzati. Un’opera per molto tempo considerata minore nel corpus dello scrittore milanese d’adozione, se confrontata con le precedenti opere di pura prosa quali Il deserto dei Tartari (1940) e Sessanta Racconti (1958).


Il contesto culturale

Nel 1969 il fumetto per adulti non era una novità in Italia: Sergio Bonelli irrorava già da tempo le edicole con Tex Willer e Zagor, Hugo Pratt appena due anni prima iniziava a navigare nel “mare salato” con il suo Corto Maltese mentre Diabolik era già in circolazione dal 1962. Ma che su un fumetto, genere narrativo pop e di consumo, ci fosse la firma di un rispettabile autore e giornalista del Corriere della Sera, ai tempo già sessantatreenne, suonava evidentemente scandaloso. Anche l’amico e intellettuale Indro Montanelli si disse perplesso davanti a quello che sembrava un esperimento mal riuscito e di cattivo gusto.

In verità Buzzati non era nuovo a incursioni nel mondo dell’illustrazione. Anzi, si può affermare che l’attività di disegnatore fosse da sempre complementare a quella letteraria. Almeno tre delle sue prime opere uscirono corredate delle sue illustrazioni, tutt’altro che inferiori quanto a qualità alla materia scritta: Barnabò delle Montagne (1933), che testimonia peraltro il forte amore e l’attrazione quasi mistica dell’autore bellunese per le sue montagne, Il segreto del Bosco Vecchio (1957) e La famosa invasione degli orsi in Sicilia (1958), due racconti per giovanissimi in cui i coloratissimi disegni accompagnano la penna fantasiosa è ironica dello scrittore in maniera quasi inscindibile. Si ricordi inoltre che Buzzati dai propri racconti ricavò spesso, ed espose anche al pubblico, stampe e quadri di vario genere. Tutti riconoscibili, però, dall’uso espressionistico (lynchano ante-litteram) dei colori, dalla quasi bidimensionalità, dal senso di inquietudine e assurdo metafisico degno del miglior De Chirico. Era o non era, dopotutto, quella di fine anni ’60, la Milano del gran fermento avanguardistico, di Manzoni (Piero) e Fontana?

Eppure Poema a Fumetti, l’opera forse più buzzatiana di Buzzati, è qualcosa di più. Non è una novella illustrata, perché lo scritto a differenza dei casi sopra elencati è inscindibile dal disegno, senza il quale non avrebbe senso d’essere; non è nemmeno una novella, perché le parole scorrono in una sorta di flusso che alterna narrazione e discorso libero senza soluzione di continuità, quasi senza punteggiatura. Una sorta di poema, e qui si spiegherebbe la prima parte del titolo. Ma la seconda? Non è un fumetto nel vero senso del termine perché non esistono “nuvole” e onomatopee, ma caratteri tipografici che si inseriscono sullo sfondo illustrato diventando talvolta esse stesse parte dell’illustrazione. Già dalla sua definizione ambigua e irrisolta, Poema a Fumetti spiazza. Come a spiazzare è la sinossi della trama: il giovane cantautore Orfi, idolo delle folle di giovani ragazze scatenate, scende agli Inferi (che ovviamente si trovano nel sottosuolo di Milano) per recuperare la sua amata Eura. In pratica, il mito greco di Orfeo ed Euridice in chiave hippy. Una parodia malinconica e sperimentale dei miti greci tanto amati da Buzzati che, ad appena tre anni dalla sua morte, sembra quasi richiamare a sé tutto il proprio bagaglio di immagini, miti e ricordi di una vita per un’opera sulla ricerca continua del senso dell’esistenza.

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Abbiamo detto che il Poema può essere considerato la summa della visione del mondo di Buzzati. Analizziamone la trama.


La trama

“Ma Orfi il figlio minore con scandalo / del parentado sta facendo fortuna / nei sotterranei del Polypus / ogni sera i minorenni delirano per lui”.

È in una Milano allucinata e notturna, invasa da miriade di giovani in preda al delirio liberatorio della civiltà moderna (di cui Buzzati, sempre alla ricerca dei significati più atavici e sepolti, diffidava) che ci viene presentato il protagonista, intento a cantare una canzone intitolata “Le streghe della città”: Buzzati ci mostra queste streghe, seminude e provocanti, volteggiare come Furie intorno alla Torre Velasca (edificio-simbolo controverso della modernità del capoluogo meneghino), in un tripudio di bocche sospese e personaggi deformi che paiono uscite da un incubo erotico di Munch. Ad ora tarda Orfi intravede Eura scendere da un taxi e oltrepassare un muro come un fantasma. Il giorno dopo, un’amara sorpresa risveglia il cantautore: Eura è morta, in una tetrissima città colpita da un morbo misterioso e fatale che ricorda la peste di Manzoni (Alessandro). Con l’aiuto di un losco figuro, Orfi trova una delle varie porte che conducono all’aldilà e decide di scendere a recuperare la sua amata. Accompagnato da un’avvenente quanto succinta portinaia, il nostro percorre gradino dopo gradino fino a giungere negli Inferi.

“Come ebbe varcato la porta / tutto è diventato diverso / anche la ragazza che fa da guida sembra diversa (…) / questo è il paese della grande signora / della famosa vecchia signora”.

Come vuole il mito greco e pre-cristiano, gli Inferi non sono un luogo di punizione e contrappasso. Non ci sono fiamme, diavoli, rimpianto del Paradiso mai ottenuto: semplicemente, è il luogo dove convogliano tutte le anime dell’umanità, perso ormai ogni affetto, ogni desiderio, ogni slancio vitale. Non c’è terrore, solo apatia, assenza, rimpianto. Rimpianto dei propri ricordi, della libertà di morire e dell’amore. Eros e thanatos, i concetti riassuntivi di tutta la mitologia greca e della mitologia personale di Buzzati.

Orfi si imbatte nel custode di Giosafat, una giacca vuota e senza corpo (anche questo un elemento ricorrente nell’immaginario buzzatiano, associata proprio al Diavolo), che dapprima si rifiuta di farlo passare, per poi concedergli una possibilità: dovrà cantare delle canzoni al pubblico di spettri per poter rivedere Eura. Inizia quindi la sezione più evocativa del Poema, denominata appunto “Le canzoni di Orfi”: una lunga rassegna di “Ti ricordi” ormai perduti per chi, come il pubblico che il cantante si trova davanti, sa che non li potrà più vivere. Ma più che la felicità e la giovinezza, Orfi canta le inquietudini, i misteri, i presagi divini che accompagnano l’esistenza umana: i rumori sentiti nel buio notturno della propria vecchia casa, i tremori della carne, i paesaggi montani con le proprie luci mistiche, i deserti, le ombre che gli alpinisti vedono di sfuggita fra le rocce, i personaggi silenziosi che si allontanano nell’oscurità, la stanchezza negli occhi del vecchio cane (simbolo del divino ricorrente anche nel racconto Il cane che ha visto Dio). Canta l’amore, Orfi, un amore tanto spirituale quanto tremendamente, scandalosamente carnale. Infine, al culmine dell’emozione, si canta di Dio.

“Dio / che qui non avete più / a voi, ahimè, è superfluo / il Dio della prima comunione  /il Dio dell’inferno e dei diavoli / (…) il Dio delle cripte e dei cimiteri / il Dio del rimorso alla sera / (…) il Dio che si avvicina in silenzio nell’ora della vostra morte”.

Un Dio sempre avvertito dagli uomini in vita, costantemente cercato, il cui mistero non si scioglie nemmeno dopo la morte. Un Dio che rappresenta lo sconvolgente senso che c’è dietro l’apparenza delle cose, di cui Buzzati fin dall’inizio della sua carriera non ha fatto altro che narrare l’attesa mai soddisfatta. Ma, come il sergente Drogo de Il deserto dei Tartari, non si può fare a meno di cercare.

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Dopo la lunga sezione di canzoni, che Buzzati illustra ricorrendo a citazioni ora da Bosch ora dal cinema espressionista di Murnau, Orfi ottiene finalmente il lasciapassare e si ritrova in una sorta di Stazione Centrale degli Inferi (l’architettura è la stessa), dove migliaia di anime si incamminano verso treni a quattro piani – decenni prima di Harry Potter, un’idea suggerita all’autore dall’amico Federico Fellini in persona! – che le porteranno verso una nuova vita, o verso l’eternità, o verso il nulla. Come la ricerca disperata di Orfi, che ritrova effettivamente Euridice ma la perde poco prima di raggiungere la soglia dell’uscita. Non poteva che finire così, di pari passo con la trama del mito originale.

Eppure, Buzzati aggiunge qualcosa: Orfi, ritornato a Milano, incontra il losco figuro che lo aveva accompagnato alla porta degli Inferi. “È tutto un sogno”, gli dice lui: Eura giace serenamente nel sonno eterno, così come un giorno spetterà anche ad Orfi, e solo allora potrà giacerle accanto. Il signore scompare come in un sogno, ma ad Orfi resta in mano l’anello sfilatosi dalla mano di Eura mentre cercava di trarla in salvo. Il confine fra magico e reale, sacro e profano, vita e morte, è solo apparente.

 *  *  *

Nel 1971 Buzzati pubblicherà un altro esperimento illustrato, I miracoli della Val Morel: una serie di finti ex-voto che ricostruiscono, attraverso immagini e brevi testi, le opere di bene miracolose di una santa. Un nuovo elenco di tematiche buzzatiane, che ne testimoniano la ricerca costante di un metafisico senso oltre, in modo forse più estremi e criptico che in Poema a fumetti. Resta però quest’ultima l’opera dove Buzzati raggiunge il suo apice compositivo, aprendo una nuova strada ai futuri graphic novelist italiani: dallo stile narrativo frammentario di Davide Toffolo, alle lunghe tavole silenziose e riflessive di Dylan Dog.

“Gli ultimi re delle favole si incamminano all’esilio / e sul deserto di Kalahari le turrite nubi dell’eternità passavano lentamente”

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