È facile odiare la trap ai tempi di Lil Pimp e Young Signorino. Magari entrando in contatto con questa musica per via dei giovanissimi rapper che si fanno un paio di tatuaggi, schiaffano la loro faccia su video e, a suon di versi non sempre significativi e beat non sempre originali, ottengono una popolarità che ne fa i veri divi del sistema musicale moderno. Vedere la semplicità con cui basta qualche atteggiamento vagamente provocatorio e una architettura rap asciutta e spesso molto simile alle altre produzioni di genere può generare antipatia, è innegabile. Ci si chiede perché i giovani impazziscano per questo sound, ci si domanda se cotanto successo sia meritato. E come spesso capita nelle mode musicali e nelle bolle mediatiche, le risposte generano polemiche, frustrazioni, in ultima analisi distanza.
Eppure non è sempre stato così. C’è stato un tempo in cui la trap era una vera e propria avanguardia sonora, portata avanti da un numero limitato di artisti che vedevano nell’arte della sottrazione la nuova frontiera dell’abstract beat. Momenti che ormai sembrano molto lontani, anche in termini di sostanza stilistica. Eppure si parla di una manciata di anni fa, quando la trap era un’onda che rimischiava coraggiosamente le carte in un crocevia pericoloso tra hip-hop strumentale, wonky, dubstep ed EDM. Tutti sotto-generi nascosti, fondamentalmente underground, popolati da artisti impegnati nel produrre nuovi suoni e inventare nuove combinazioni, personaggi la cui priorità era l’innovazione, non la popolarità.
Di trap music si parlava già a metà anni 2000 (il primo album di Gucci Mane, Trap House, è datato 2005), quando rappresentava la faccia cattiva, di strada, del rap. E così è continuata a restare fino ai primi anni 2010. Poi, però, qualcosa cambiò. E se da un lato persistevano le produzioni rap che sfoggiavano facce sporche e appartenenza al ghetto (Lex Luger e Waka Floka producevano già nel 2010 tracce come Hard In Da Paint, che avevano già tutti i semi della trap di oggi), dall’altro emersero una manciata di giovani artisti visionari, provenienti dagli ambienti del beat astratto e dell’elettronica intelligente, e iniziano a giocare a incrociare le cose in modo coraggioso, facendo nascere produzioni ingegnose che rallentavano i ritmi, creavano spazi, imparavano dalla lezione del dubstep per proporre un modo di fare hip hop nuovo, geometrico, cerebrale.
L’anno zero della seconda ondata trap è probabilmente il 2012, anno in cui si fecero notare artisti e produzioni che portavano aria di novità in una scena elettronica che cercava di trovare nuovi punti di riferimento dopo il declino del dubstep. I protagonisti erano soprattutto giovani artisti statunitensi dal piglio disinvolto e dallo stile tendente all’astratto. Gente come Baauer, un ragazzetto tutto pepe che era in grado sia di colpi virali come l’Harlem Shake, sia di remix inafferrabili come quello sopra di Roll Up. Come i TNGHT, super-coppia composta da Hudson Mohawke e Lunice, che quell’anno portarono un pezzo come
La trap viene dalla miami bass e dalla new orleans bounce, che a loro volta vengono musicalmente dall’ hip hop electro del bronx (intendo l’ electro funk dei primi anni 80 iniziato da afrika bambaata in poi).. elementi tipici selezionati nella trap (quali snare che suona a “plof”, charleston insistente e atmosfera dark) si possono trovare in un brano electro del 1986: “Drag rap” degli Showboys viene dal queens (quartiere di New York) ma è molto più conosciuto al sud degli USA