Many Faces Out Of Focus: il wonky in dieci dischi‏

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C’è questo sound che è venuto fuori in punta di piedi all’inizio di questo decennio. Quasi per caso. Quasi che a un certo punto ce lo siamo ritrovati davanti, già parecchio sviluppato, e nemmeno ci eravamo accorti che fosse in corso un’evoluzione di determinati suoni che avrebbe portato lontano. Parecchio lontano, se pensiamo a qual era il punto di partenza e quale quello di arrivo: praticamente, in non più di due-tre anni siam passati dall’hip hop alla trap. E in mezzo c’era questa melma indefinibile ma elegantissima, a cui ai tempi dare un nome fu un bel rompicapo. Usammo prima l’accezione abstract hip hop. Poi non fu sufficiente e qualcuno si invento il nome wonky, che in effetti fece presa. Poi le cose si evolvettero in modo così inafferrabile che le definizioni iniziarono a fioccare: aquacrunk, purple sound, street bass. Il termine più hipster lo stabilirono nei paesi scandinavi: skweee.

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Ma le parole non sono importanti. Non stavolta. Stavolta era l’idea che era parecchio esaltante: sperimentare con le sezioni ritmiche che ruotavano intorno all’hip hop colto (quello di Madlib e J Dilla), portandolo a una nuova dimensione piena d’eleganza e costruendo, a colpi di sensazioni jazzy e uso ingegnoso dei synth, i beats del futuro. Modern beats infatti è il termine che abbraccia meglio tutte le realtà di cui stiamo parlando. Realtà che si svilupparono da questa e dall’altra parte dell’oceano, in un parallelo a distanza che andava avanti tenendo presenti le peculiarità di ogni parte: più eleganti e aristocratiche le produzioni europee, più marcate e interessate a trovare la quadra di pubblico quelle americane. Un mosaico che offrì sia il lato iperastratto che quello concreto, e che servì alla generazione del momento per tirare fuori la next big thing.

Next big thing che poi, più tardi, fu la trap, sound che può esser fatto risalire ai risultati ottenuti più nel versante americano, a conferma del fatto che in questo trambusto a vincere fu il lato che più si preoccupava di agganciare il pubblico (non è sempre così?). Già, perché il wonky fu un sound per certi versi spettacolare, eppure interrotto: interrotto dal fatto che il disco perfetto, quello capace di convincere tutti e restare nel tempo e nell’apprezzamento di tutti, non uscì mai. Il che fu un peccato, ma anche no. Perché uscirono diversi dischi dalla qualità altissima, e la percezione di essi fu impreziosita dal fatto che questi restarono dischi fondamentalmente conosciuti a pochi. Magari di nomi che presto sarebbero diventati ben più famosi, ma per altri motivi. Nel loro “momento wonky“, furono in pochi a parlare di loro.

Fu la fucina da cui uscirono alcuni dei talenti che apprezziamo maggiormente oggi. E tutti insieme formarono un piccolo manuale d’uso sull’orientamento al futuro applicato alla produzione musicale: non ti curar dei risultati a breve termine ma pensa in grande e focalizza la visione. Qualcuno capirà. Qualcuno ci arriverà in un secondo momento. Qualcuno non ci arriverà mai, eppure amerà i frutti diretti del tuo lavoro. Che importa. I dieci dischi di cui vi parleremo in questo percorso han toccato alcuni dei punti più alti in termini di fantasia e pensiero visionario avuti nel decennio in corso, con tanto di coinvolgimento diretto della scena italiana.

Mentre scorrete i dieci dischi qui sotto, vi consigliamo di tenere a mente la direzione complessiva. Il punto di partenza originario è quel J Dilla che ascoltate sopra e che è stato largamente celebrato qualche giorno addietro, per i dieci anni del suo album spartiacque Donuts e per l’enorme influenza che ha avuto sui beatmakers che poi inventeranno il wonky. Il punto di arrivo invece è qui sotto. Vi servirà come bussola d’orientamento nel viaggio, giusto per non dimenticare come sono sfociate le intuizioni che andremo approfondendo. Il punto di arrivo è quello che ha portato agli entusiasmi ritmici di oggi. Quelli che oggi battezziamo trap e che son partiti proprio come sentite qui sotto, sotto forma di evoluzioni più cattive delle esperienze wonky. Qui un possibile anello di congiunzione con quello che verrà dopo.

Quello che c’è stato prima di arrivarci, lo approfondiamo coi dischi che seguono. Seguiteci.


Flying Lotus – Los Angeles

In questa storia, come in ogni altra storia musicale, c’è un progenitore indiretto e un genitore diretto. Il progenitore in questo caso è Donuts di J Dilla, uscito nel 2006, il disco di riferimento principale per tutti gli artisti che stanno per venire in questo articolo e per l’intero sound wonky (per saperne di più vi mandiamo dagli amici di Dance Like Shaquille O’Neal, che recentemente hanno avuto una bellissima iniziativa che coinvolgeva i beatmakers italiani). Donuts è il disco che ha aperto la mente in questa direzione.

Il genitore diretto, invece, è quello che la direzione l’ha data: Flying Lotus, con 1983 prima e Los Angeles dopo. Quest’ultimo in particolare è il disco che ha sancito la promozione di quel sound da sperimentazione a realtà in movimento. Uscito soli due anni dopo Donuts, già racchiude in sé tutto quello che poi verrà approfondito ed evoluto negli anni a venire. Ufficializzando la nascita di un artista che ha prodotto innumerevoli ispirazioni (Flying Lotus poi cambierà volto e si immergerà fino alla testa nel jazz sound, ma agli inizi era il maestro del beatmaking) e di un genere che a un certo punto cambierà il corso degli eventi, che altrimenti sarebbero semplicemente andati nelle solite direzioni hip hop.

Aveva diversi volti, Los Angeles. Alcuni perfettamente cerebrali, in concordanza con le direzioni che si svilupparono maggiormente nel genere. Altri anche più aggressivi. Alcuni ai limiti del tribale, altri 100% occidentali. Praticamente un esperimento da laboratorio, eppure venuto fuori come un ascolto compatto e stimolante come pochi. Un disco da riascoltare oggi, a quasi dieci anni di distanza, come una visione isolata in una torre lontana che guardava lontano. Tanto lontano che a prendere un disco dello stesso genere uscito anni dopo (tipo quelli che seguiranno in questa disamina), senti pochissime differenze.

Era il 2008 e la storia era iniziata, negli USA. La reazione dell’Europa non è tardata ad arrivare…


Hudson Mohawke – Butter

La storia del wonky comincia negli Stati Uniti, ok. D’altronde parliamo di qualcosa che abbraccia il mondo hip hop, e si sa che l’hip hop è una di quelle cose in cui gli USA guardano tutti dall’alto verso il basso. Però parliamo anche di un sound che privilegia l’ingegno e la fantasia, quindi ovviamente l’Europa si fece sentire fin da subito. E all’inizio fu proprio un confronto tra fantasia e sostanza, sapete. Perché nel Regno Unito arrivò uno che più tardi fece di fantasia e intuizione i suoi punti fermi: Hudson Mohawke. Sì quello che più tardi fece Thunder Bay, fondò i TNGHT di Higher Ground e inventò la trap moderna. Che però ai tempi di Butter, il disco del 2009 che lo promosse ad attore principale dei modern beats, era un vulcano di idee e invenzioni orientate al pubblico colto.

Disco stranissimo, Butter. Probabilmente non può nemmeno considerarsi riuscito in pieno, per le mille direzioni prese e la struttura frammentaria che alla fine non ti lascia mai pienamente soddisfatto. Ma quante idee, ragazzi. Alcune rientranti in quella dimensione inafferrabile che rese il wonky così affascinante agli occhi più analitici, alcune allegrotte che son quasi funky e altre dotate di quella melodia e di quel coraggio che poi diventarono la cifra stilistica di un altro peso massimo del genere, Rustie. Probabilmente il disco più complesso del blocco che stiamo scorrendo. Il wonky si stava facendo sempre più inafferrabile.

Flying Lotus e Hudson Mohawke, due nomi che presto sarebbero diventati big. Ma il wonky è fatto anche di attori non protagonisti. I dischi meno abituati alla luce della ribalta saranno quelli che daranno consistenza al genere.


Lukid – Chord

Uscito nel 2010 per la Werk Discs di Actress, Chord era già il terzo disco di un artista che da anni faceva indagini nell’ambito beats astratti. Con risultati anche parecchio apprezzati dagli addetti ai lavori, eh (il disco precedente, Foma, ricevette un 4.5/5 su ResidentAdvisor). Questo perché lo stile era parecchio suggestivo e intelligente, come si addice a un’uscita a tema contemporaneo venuta fuori a Londra. Sì, Chord potrebbe essere benissimo l’emblema del contributo londinese alla faccenda wonky: finissimo, astratto e visionario, pittore di panorami che poi si sarebbero aperti un bel po’ più tardi. E senza nemmeno la pressione dell’hype, come invece in un modo o nell’altro si era notato per i due dischi che abbiamo visto finora, Los Angeles e Butter.

Eppure ecco, ve lo dicevamo all’inizio del percorso: il disco wonky perfetto non uscì mai, perché ogni disco aveva sempre un numero eccessivo di pensieri e preoccupazioni legati a come dovesse suonare il sound in sé. E questo rendeva ogni disco parecchio complesso. Chord è fondamentalmente un disco da ingegneri (la cover art l’avete vista, no?). Chi era già ben immerso dentro al sound o comunque assetato di sperimentazioni (e chi vi scrive a quei tempi rientrava bene in entrambe le categorie), quel disco lo ha amato. Il resto del pubblico probabilmente non sapeva nemmeno che fosse esistito. E a risentirlo oggi? Beh, a posteriori sì, oggi il fascino dovrebbe essere chiaro a tutti. C’era un’eleganza visionaria eppure robusta, era contorto ma concreto, trasudava entusiasmo ma non cedeva mai il controllo all’istinto. È un disco che è rimasto, ma di cui molti si son dimenticati. È per questo che stiamo procedendo oggi alla riscoperta del wonky. È il momento giusto.

Eppure Lukid, in fondo, era ancora qualcuno di cui si parlava. Il vero fascino nel wonky fu vedere i producers sbucati dal nulla tirare fuori i dischi più affascinanti e nello stesso tempo più sottovalutati del filone. Tipo i prossimi due.


Samiyam – Sam Baker’s Album

Sezione “i dischi più sottovalutati del wonky“, puntata n. 1: il secondo album di Samiyam, uscito nel 2011 per la Brainfeeder di Flying Lotus (che nel frattempo stava propugnando il sound wonky con parecchia energia). Un disco da riprendere ed apprezzare con la dovuta dovizia. Perché ora, oggi, si fa presto a dire che Samiyam è uno degli artisti di punta dei modern beats. Ai tempi non lo diceva nessuno. Ai tempi Samiyam era uno di quei nomi provenienti dall’underground che conoscevano in pochissimi e apprezzavano ancora in meno. Anche perché il Sam Baker’s Album era un disco che sembrava prendere una direzione diversa, fatta di versi electro grassi e atteggiamento gangsta. Qualcosa che non si associava in maniera immediata all’eleganza del wonky che girava a quei tempi.

 

Ascoltatelo adesso invece, quel disco. Ora sembra il disco che ci aveva capito di più, tra quelli di cui vi stiamo parlando. Perché era piantatissimo nel sound urbano made in USA, eppure si esprimeva secondo tagli essenziali e mosse solo accennate. Non era un disco arrogante. Se aggiungi l’arroganza avresti avuto un classico disco trap di qualche anno dopo, ma no, quel disco aveva un’intenzione diversa. Era un piccolo manuale d’uso su quello che si poteva fare e soprattutto su quello che non si poteva fare coi gangsta beats. Praticamente un monito. Che oggi suona tanto come un “prendetene e fatene buon uso“. Col piccolo dettaglio che nessuno ha fatto riuso di quel sound. Tranne lui stesso, profeta inascoltato di un sound tutto suo.

Ribadiamo: è tra i dischi meno celebrati che si nasconde il vero fascino del wonky. La conferma ve la diamo subito, col prossimo disco.


Onra – Chinoiseries pt. 2

Sezione “i dischi più sottovalutati del wonky“, puntata n. 2: le Chinoiseries di Onra, precisamente la parte seconda. Il disco minore di un artista minore che per tutta la carriera ha pensato ad altro. Perché Onra nella nicchia wonky sulla carta non sarebbe mai dovuto entrarci. Lui, di stanza a Parigi ma ben immerso nei suoni statunitensi, ha iniziato come esponente di un r’n’b piuttosto classico, e pure nelle sue ultime espressioni (Fundamentals dell’anno scorso) non ha fatto altro che riprendere il carattere hip hop più classico. In mezzo, però, è venuto fuori questa perla sconosciuta a tutti, che suo malgrado rappresenta una delle espressioni più complete in assoluto del wonky.

Per un motivo semplice e omnicomprensivo: ha esaltato il lato del wonky che sa guardare oltre, scoprendo i suoni di provenienza lontana, combinando una base portante di genere composta da fantasia e robustezza ritmica a un’elevazione in altezza molto ambiziosa, che scrutava l’orizzonte alla ricerca dell’elemento più lontano compatibile alla combinazione. In parole semplici: questo suo disco doveva essere la sua personale reinterpretazione delle musicalità orientali, ma a venirne fuori è stato il lato più colto che il wonky è stato in grado di esporre. E nessuno può nemmeno vantarsi di aver davvero voluto questo risultato, per questo disco. È stato praticamente un caso. Certe cose vengono fuori da sole, come entità a sé stanti. Il merito in questo caso è stato azzardare il mix improbabile.

Il metodo, la fantasia, la capacità di uscire fuori dagli schemi e pensare in maniera obliqua. Il wonky è fatto di sorprese e conferme, di nomi autorevoli e personaggi venuti fuori dal nulla, in continua alternanza. Il prossimo artista, ad esempio, è uno di quelli che è nato proprio nel bacino del primo wonky, per poi farsi conoscere da tutti qualche anno dopo. Questo era ciò che questo genere sottovalutato fu in grado di fare, nonostante tutti i limiti di visibilità e fruizione.


Lapalux – Forest & Many Faces Out Of Focus EPs

Stranissima la parabola dipinta da Lapalux dagli inizi ad oggi. Venuto fuori dal nulla come giovane sperimentatore di suoni avanzati coi suoi primi EP (quelli di cui vi parleremo tra un attimo), scoperto prima dalla stampa e poi da FlyLo, che lo assolda su Brainfeeder nel 2012 (giusto per perseguire l’intenzione di monopolizzare i beatmakers del momento). Poi arriva Nostalchic, che fondamentalmente fu un disco glo-fi con qualche ambizione aggiuntiva, e le reazione furono tutto sommato tiepide, al punto che nessuno si aspettava più granché da lui. Infine, l’anno scorso, Lustmore e la sorpresa portata dal perfetto equilibrio tra intelligenza e ritmo che abbiamo coronato anche in sede di riepilogo 2015. Insomma, promessa, caduta e risurrezione nel giro di tre anni, senza nemmeno il punto d’appoggio della fedeltà stilistica. Per lungo tempo lui non ha fatto altro che seguire gli istinti estemporanei, producendo infatti perlopiù dischi dalla riuscita parziale.

I primi due EP, però, erano parecchio futuristici. Le sezioni melodiche sottili e astratte che l’avrebbero definito come artista erano già lì, ma accanto ad esse c’erano movimenti noise a volte anche aggressivi, scorribande coi synth e momenti onirici. Quando di wonky si parlava ancora pochissimo lui produceva già pezzi come Quick Kiss e Peafowls on the Carousel, dalla comprensione difficile perché avevano le mani in pasta dentro tante, troppe direzioni diverse. Il classico modo di presentarsi al pubblico incuriosendolo per le potenzialità future. Che poi di fatto non si legarono mai completamente al wonky, anche perché lo stesso wonky in realtà allargò le proprie maglie d’azione quasi subito, rendendo difficilissima l’identificazione della scena. Lapalux però c’era, a modo suo. Ossia, nascosto dietro un telo bianco semitrasparente. E muovendosi in maniera sfuggente, come farà in ogni suo disco successivo.

Nomi noti (quantomeno oggi), che si alternano ad altri meno chiacchierati. O perlomeno dimenticati. L’alternanza continua.


Clams Casino – Instrumental Mixtape

Uno dei personaggi più difficili da inquadrare tra quelli presentati in questo viaggio cominciato due settimane fa. Presente sulla scena dal 2008, benché in maniera saltuaria, produttore di molti artisti hip hop e non (Lil B, A$ap Rocky, The Weeknd, Blood Orange, FKA Twigs), Clams Casino può essere considerato il ghost producer ispiratore del wonky. Lavorando prevalentemente dietro le quinte nella musica d’altri e esprimendosi in prima persona solo per alcuni remix e per gli Instrumental Mixtapes. Tre in tutto, ma quello notevole è il primo, con cui riesce a collegare tre diverse traiettorie gettonate del momento: il nuovo r’n’b (era il periodo di gran fermento in cui era emerso Frank Ocean, per dire), la darkwave che poi avrebbe fatto la fortuna della Tri Angle (che infatti lo accoglie nel roster già nel 2011) e le nuove ritmiche, appunto.

Fu un disco parecchio lodato, va detto. Sempre all’interno di nicchie (quelle hip hop ricercate e quelle abstract che tenevano d’occhio il wonky), ma in quelle nicchie fu un piccolo cult. E riascoltato ora il disco ha un fascino ad ampio spettro, proprio perché è facile identificarci le varie direttive che poi sarebbero sbocciate più tardi. Tra i suoi momenti più assimilabili al wonky c’è il Rainforest EP e quella Gorilla che girò tanto ai tempi, mentre dal primo Instrumental Mixtape vennero fuori diverse tracce di alto livello, sempre in bilico tra cantato malinconico e ritmo astratto. Disco che resta incastonato nel momento di approccio alla maturità per il sound wonky, benché non si fa coinvolgere troppo nella faccenda. Da buon osservatore. Al riascolto scorre calmo e placido che è un piacere.

Iniziamo a riemergere, adesso. Passiamo ai cavalli purosangue del genere


Shlohmo – Bad Vibes

Venuto fuori in maniera molto simile a Lapalux nello stesso periodo, Shlohmo è il figlio d’arte meglio riuscito di Flying Lotus. I suoi primi EP (tutti di qualità altissima e piacere d’ascolto che è rimasto nel tempo) escono già intorno al 2009-2010 e sono perfettamente dentro al sound del momento. È una delle espressioni più ingegnose del wonky di quel tempo, così ben permeato delle sfumature jazzy e delle sensibilità glo-fi che  imperversavano in quel periodo. Quando uscirono, Camping, Shlohmoshun e Places diventarono un piccolo fenomeno a diffusione rapida tra i scopritori di nuovi talenti, e il nome Shlohmo iniziò ad arrivare alle orecchie di chi stava cercando la novità.

Poi, nel 2011, arrivò il primo album, Bad Vibes. Fioccò un altro 4.5/5 su ResidentAdvisor e la consapevolezza di avere a che fare con un talento purosangue. Il disco aveva mille sfumature e altrettante morbidezze, era accessibile a qualsiasi categoria di ascoltatore eppure riusciva a dare stimoli forti anche alle orecchie allenate. Ancora una volta, non era uno di quei dischi che ti limiti ad apprezzare per e sensazioni che provoca. Potevi delineare con precisione chirurgica tutti i motivi per cui era un disco d’eccezione: il riuso di certe sezioni ritmiche ritenute da sperimentazione che invece qui apparivano di facilissima fruizione, le sensazioni chillwave stavolta libere dallo stereotipo, e a serpeggiare tra una traccia e l’altra lo spirito future jazz, lo stesso che ogni volta ti fa secco perché a saperlo fare bene, ma davvero bene, sono in due o tre in tutto. Fu uno dei picchi del sound wonky nel momento migliore di un visionario del genere, ed è un peccato che oggi ce ne si ricordi troppo raramente.

Shlohmo è rimasto uno dei personaggi più ingegnosi della faccenda modern beats di questo decennio. Ma ce n’è un altro che lo ha eguagliato in capacità di definire una visione fuori contesto…


Rustie – Glass Swords

Accolto con applausi scroscianti da critica e pubblico, con qualcuno che successivamente lo considererà il disco che ha inventato la trap in Europa, Simon Reynolds che coniava d’improvviso per lui il termine “massimalismo digitale” e un po’ tutti a dichiararlo l’apice dei modern beats, Glass Swords di Rustie è il disco più discusso (e discutibile) tra quelli presenti in questo percorso. Chi vi scrive, ai tempi non si fece incantare più di tanto. Più che altro a causa del confronto in termini di genialità con certe cose fatte da Rustie in sede di EP, meglio capaci di rappresentare la fantasia irriverente del Regno Unito di fronte ai nuovi sound post-tutto. Nell’analisi di contesto, insomma, Glass Swords fu colpo di coda irriverente, per certi versi irrispettoso.

Ma analizzato oggi a freddo, come entità a sé stante, Glass Swords fu un vulcano di idee. Idee che nei mesi successivi furono più volte riutilizzate e che fondamentalmente diventarono la linea guida principale per l’approccio al beat europeo. Nello stesso tempo, fu il disco che si allontanò maggiormente dallo spirito caratteristico del wonky, facendone più una faccenda da dance giovane, rifiutando la provenienza hip hop e abbondando coi breakbeat, partorendo di fatto una delle prime forme compiute di trap europea. Che poi è la fine del viaggio che stiamo facendo: nel preciso momento in cui emerge la trap, il vero valore del wonky è già da coniugare al passato. Sentire ad esempio il pezzo qui sopra. Che siete liberissimi di collocare già fuori dal calderone wonky, ma che eppure è necessario a capire l’evoluzione di questo sound. Eravamo partiti dal 2008 di Flying Lotus e le influenze J Dilla. Qui siamo nel 2011 e siam già passati alla trap.

2008-2011, tre anni di ricerca tra le righe dove son nate diverse delle idee che vengono sviluppate in questi anni. In quegli anni c’è stato tutto quello che ci siamo detti finora, più un’ultimissima cosa che ancora non vi abbiamo detto. La più interessante.


Beat.it – This Is Not A Revival

Eccola, la chicca da tenere a mente. Uscì a inizio 2012, come tentativo (forse un po’ tardivo) di far conoscere la qualità e l’impegno della scena italiana nella faccenda wonky che era esplosa negli ultimi anni. E ragazzi, la raccolta Beat.it, che racchiudeva i migliori beatmakers attivi nella ricerca astratta nel nostro paese, resta uno dei dischi più fini e ingegnosi tra i dieci proposti in questo percorso. Perché la scena italiana in quel periodo era un terremoto di entusiasmi e talenti come poche altre volte era successo nel nostro paese. E, cosa ancor peggiore, è rimasta una delle espressioni nostrane meno conosciute di sempre. Perché ahimé, a casa nostra quello non era esattamente il sound che poteva diventare moda d’ascolto, e farsi conoscere fuori confine in un ambito d’azione fondamentalmente di nicchia restava un’impresa inaccessibile coi mezzi a disposizione.

Digi G'Alessio - Oh Yes I'm A Lonely Man

Il paradosso è che se ascoltate Beat.it (potete farlo quando volete su bandcamp), vi accorgerete che gli artisti del disco sono quelli che avevano capito meglio di tutti il vero spirito originario del wonky sound. Che non doveva farsi trascinare troppo dalla vena futuristica aggressiva (capito Rustie?), né restare troppo coinvolto dalle altre mode del momento (glo-fi e darkwave, le debolezze principali di Clams Casino e Lapalux, qui sono out). Le sedici tracce di questa collezione erano ricche di fantasia ma intransigenti nell’assunto: il raggio d’azione era il beat e i panni sporchi si lavano in casa, senza chiedere aiuto a nessun’altro. Infatti è qui che il wonky conobbe il miglior stato di forma dei sintetizzatori. Nonché uno dei momenti di apice di alcuni dei produttori che si affermarono negli anni a venire: Digi G’Alessio, Kappah, AD Bourke, Colossius, Morpheground, Grillo, ContaineR, Manuele Atzeni. Se non li conoscete non è colpa vostra, ma solo un problema di circostanze avverse dovute alla natura della loro musica e carenze del giornalismo nostrano. Ma ora è il momento del recupero.

 

Fine del viaggio. Una disamina che abbiamo ritenuto doveroso fare, su un sound che sentiamo sempre più presente tra le uscite di oggi e alcuni dei recuperi più di moda per adesso. Perché è sempre un piacere ricelebrare J Dilla o Madlib. Ma proviamo sempre una punta di rammarico nel vedere che i frutti di certe loro intuizioni avevano dato vita ad alcune delle espressioni più entusiasmanti che abbiamo avuto nella prima metà di questo decennio. E ad essersene dimenticati sono in molti. Prendete questa lunga panoramica per quel che è: un momento di pausa per riflettere su qualcosa e un luogo in cui tornare per scoprire e riscoprire certi suoni perduti nel tempo.

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