La Chinoise: il periodo marxista di Jean-Luc Godard su pellicola

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Quando Jean-Luc Godard, nel 1967, dirige il suo nuovo film La cinese, si trova in un momento di impasse artistica ed ideologica molto profonda: sono lontani i tempi della Nouvelle Vague di Fino all’ultimo respiro (1960), il cineasta è passato dalla rinuncia a qualsiasi tipo di narrazione in Due o tre cose che so di lei (1966) ed è arrivato ad essere un vero militante politico marxista. Il regista trova nella dialettica marxista una cornice ideologica alla sua continua e necessaria decostruzione linguistica: l’ideologia però avrà la meglio su Godard, portandolo nel gruppo registico militante Dziga Vertov (dal nome del grande documentarista della rivoluzione leninista) e provocandogli una crisi così forte da farlo arrivare addirittura alla rinuncia della forma film, all’annullamento di sé come autore (fase intorno ai primi anni ’70).

Ma come detto, La cinese viene prima di questa crisi e resta, a posteriori, l’unica opera registica di livello del Godard pienamente militante. Il film rispecchia appieno la situazione culturale della Francia degli anni ’60, ma in un certo senso la anticipa: il caldissimo ’68 deve ancora arrivare ma già la rivoluzione culturale maoista, unita alle proteste per la guerra in Vietman, ha creato un interessante strato culturale di giovani marxisti. O marxisti-leninisti. O maoisti. Ecco, appunto Godard esprime nel suo film l’indubbia nuova forza rivoluzionaria giovanile, ma anche le sue debolezze, le sue contraddizioni.

All’inizio del film ci troviamo in un appartamento in cui cinque studenti universitari organizzano una cellula rivoluzionaria. La casa ci appare piena di scritte di ogni tipo, e di libri, tantissimi libri, una enorme collezione per la maggior parte composta da innumerevoli copie del libretto rosso di Mao, lette rigorosamente ad alta voce dagli inquilini.

Gli studenti sono diversi fra di loro, e rappresentano diverse sfaccettature del movimento: abbiamo Guillame, un attore teatrale maoista che crede nella forza dell’arte brechtiana per spingere alla rivoluzione gli spettatori; abbiamo Vèronique, una vera furia anarchica e distruttiva che intrattiene una relazione sentimentale con lo stesso Guillaume; abbiamo lo scientista Henri, il nichilista Kirillov e l’unica proletaria del gruppo: Yvonne. Solo tre di loro sono attori professionisti: l’attore feticcio di Truffaut e immagine della Nouvelle Vague Jean-Pierre Lèaud (Guillaume), la nuova moglie di Godard, chiamata a prendere il testimone di Anna Karina, Anne Wiazemsky (Vèronique) e Juliet Berto (Yvonne), già comparsa in Due o tre cose che so di lei. Gli altri protagonisti sono veri appartenenti al movimento, direttori di cineforum, pittori, in linea con l’idea (questa sempre fissa) di Godard di autenticità massima della propria opera. I rapporti tra gli inquilini sono totalmente subordinati alla militanza: Yvonne lascerà Henri quando verrà espulso dal gruppo e Vèronique arriverà addirittura a far credere a Guillaume di detestarlo per fargli capire l’importanza del “combattere su due fronti”.

Nel film l’ideologia non sotterra l’istanza autoriale di Godard, che quasi esaspera il proprio stile: raccordi di montaggio ripetuti completamente a-narrativi, e anzi, che portano a una più complicata narratività tematica; attori quasi sempre ripresi in primi piani e che spesso fanno uso dell’interpellazione (sguardi rivolti in macchina e parole rivolte a uno spettatore ideale) con sullo sfondo immagini pop warholiane che si alternano a quadri rivoluzionari russi o cinesi; inserimento dei ciak all’inizio delle scene, a creare un nuovo meccanismo di cinema nel cinema, un cinema che ammette la propria finzione e dall’estraniamento parte per far raggiungere un nuovo tipo di mimesi allo spettatore (in quest’ottica rientrano anche le riprese dello storico direttore della fotografia di Godard, Raoul Coutard); inserimenti di canzoni totalmente slegate emozionalmente e narrativamente da quello che vediamo e per di più tagliate in punti senza senso.

Tutto questo rappresenta l’estrema modernità del cineasta francese, che rifiuta ormai totalmente il cinema classico: se in Fino all’ultimo respiro, tutti questi espedienti stilistici partivano da un necessario legame cinefilo al cinema classico americano, esteriorizzato in un continuo citazionismo di ogni tipo (per decostruire qualcosa è necessario conoscerlo), ne La cinese Godard non ha più maestri, non ha più idoli, e può darsi al pieno sperimentalismo. Liberato dai maestri però molte volte il regista comunque si arrende all’ideologia: lo dimostrano le scritte e gli slogan rivoluzionari presenti nei tagli d’inquadratura, che portarono lo stesso regista ad autoaccusarsi di fare cinema-verità (il peggior insulto possibile per lui).

Se è vero che il Godard autore e regista fa di tutto per far sentire la propria presenza nella pellicola, ciò non si può dire del Godard marxista: lo spettatore non riesce infatti a capire quanto il regista stia appoggiando, sbeffeggiando, o addirittura opponendo il movimento. Passiamo dunque all’analisi di diverse scene.

In questa scena il regista sembra assumere una grossa presa di posizione contro l’imperialismo statunitense, ma anche contro il falso-comunismo sovietico, reo di essersi ammorbidito e di aver cercato il compromesso. Il vero comunismo sarebbe quello dei vietcong (che infatti vengono sterminati dagli americani, al contrario dei russi) e dunque quello di Mao. La politica maoista della rivoluzione culturale aveva in quegli anni avuto un’incredibile diffusione in Francia: appariva dall’esterno incredibile che finalmente qualcuno combattesse i carri armati con i libri. Oggi siamo a conoscenza del disastro economico e sociale che tale politica generò: contro ogni possibile minaccia di revisionismo e capitalismo Mao fu abile ad appoggiarsi al popolo contro la classe dominante, appoggiò gruppi studenteschi e attaccò le quattro cose vecchie (pensiero, cultura, tradizioni e abitudini), rompendo totalmente col passato e chiudendo, o addirittura distruggendo, scuole, musei, biblioteche, templi.

In questa scena invece i giovani militanti vengono sbeffeggiati, e appaiono vuoti ed estremisti (senza causa): il povero Henri infatti viene accusato di revisionismo per ogni singola opinione che possa leggermente differire dal libretto rosso di Mao. Henri in seguito verrà espulso dal gruppo, nonostante la sua storia sentimentale con Yvonne.

In questa inquadratura, col solito uso del primo piano con sfondo che crea una dialettica tra i vari elementi del profilmico, Yvonne “spiega” che cos’è il marxismo-lenismo, spiegare però è di fatto una parola troppo grossa. Godard mette in risalto come i giovani rivoluzionari in realtà non conoscano affatto le ideologie che propugnano.

D’altro canto questo estratto mostra il lato opposto: Guillaume che legge ad alta voce e con incredibile passione (o foga semplicemente teatrale, il suo unico modo di espressione?) il libretto rosso, mentre Henri e Vèronique sono impegnati a prendere nota dei vari impegni della giornata.

Ma è questa, forse, la scena più esplicativa del film. Godard lavora quasi in maniera classica con la macchina da presa per una decina di minuti: si tratta di un dialogo in cui gli attori non guardano in camera, non abbiamo quasi mai primi piani ma piani americani o a mezza figura, e comunque di profilo, l’inquadratura è pienamente oggettiva e segue il discorso dei protagonisti. Nessun ardito taglio di montaggio, nessuna immagine pop, nessuna canzone inserita a caso, limitazione delle scritte rivoluzionarie: è la scena-verità. Vèronique incontra in treno il filosofo comunista Francis Jeanson (famoso all’epoca per essersi opposto alla guerra imperialistica francese in Algeria), per parlargli delle idee rivoluzionarie della propria cellula. L’esito è semi disastroso: il filosofo non approva la strategia del terrorismo, a maggior ragione se dietro di esso non vi è la forza di un popolo, e accusa la protagonista di scarsa conoscenza politica e filosofica. Nonostante l’incontro con Jeanson, Vèronique ucciderà comunque il Ministro della cultura russo in visita a Parigi (non prima però di uccidere un’altra persona per un ridicolo errore come l’inversione del numero di camera del ministro). A prescindere dalla vita del regista, dal suo più o meno ostentato marxismo, sembra che la sua posizione coincida alla fine dei conti con quella del filosofo, ovvero un marxismo filosofico intellettuale e sostanzialmente revisionista che mal sopporta le chiusure dogmatiche.

La fine del film simboleggia forse l’intero movimento rivoluzionario giovanile, scopriamo infatti che l’appartamento è in realtà dei genitori di Vèronique, andati in villeggiatura per l’estate. Il gruppo (o ciò che ne è rimasto, in quanto Henri è stato espulso e Kirilov ha trovato nel suicidio la vera rivoluzione) è dunque costretto ad abbandonare la rivoluzione e i partecipanti a tornare alla loro normale vita borghese, come se nulla fosse mai accaduto.

La cinese è un film davvero unico nel suo genere e unico nella carriera dello stesso Godard, è un’immagine dal vivo e autentica del ’68 francese, è l’esasperazione delle tecniche linguistiche e stilistiche del regista, è un film che rifiuta la narratività e rifiuta la mimesi cercando l’estraniamento, cercando di colpire lo spettatore e di fargli prendere coscienza della situazione, nella migliore tradizione del cinema militante (Ejzenstejn e il suo montaggio delle attrazioni su tutti) . La cinese è Jean-Luc Godard.

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