Is This The Life We Really Want? Il nuovo disco di Roger Waters

Is this the life we really want? Roger Waters ritorna sulla scena musicale con una domanda: un anziano di 74 anni ci chiede se sia davvero questa la vita per noi degna di essere vissuta. Il tono con cui ci viene posta è quello di un uomo che come si suole dire “ne ha viste tante”, e che si rivolge a noi proprio per spronarci a uscire dallo stato di cose in cui viviamo. Forse perché la risposta implicita alla domanda iniziale è: “No, non è affatto la vita che vogliamo”.

Sembra quasi che Waters sia stato spinto più da un intento collettivo che da un una semplice pulsione artistica individuale. La sua condizione infatti è quella della leggenda vivente che, con i suoi tour a metà strada tra il quello che è stato (un repertorio di classici impressi nella memoria collettiva) e quello che “è oggi” ciò che è stato (The Wall è stato declinato sempre più secondo un’ottica politica collettiva), riesce un po’ a fare ciò che vuole senza preoccuparsi della risposta del pubblico.

L’impressione è che Waters, guardandosi attorno, sia stato chiamato dal pubblico stesso a produrre un nuovo disco. Per uno come lui, uno della vecchia scuola, comporre una nuova opera oggi non è affatto facile. Questo perché il modello di scrittura che lo ha sempre distinto sia da solista che nei Pink Floyd, che lo si voglia chiamare “concept album” o “opera rock”, è ormai completamente sdoganato. I motivi di questa deriva, pur rischiando di andare incontro a estreme banalizzazioni, sono da ricercare nel “fast food” del mercato musicale. Senza tirar fuori argomenti economici diciamo che, in estrema sintesi, fare un disco di questo tipo è sia “antistorico” sia presuntuoso nei confronti di chi, in passato, si è reso grande proprio attraverso questo modo di comporre musica.

Waters torna a 25 anni dalla sua ultima, fin troppo sottovalutata, fatica da solista (Amused To Death, 1992), a pieno regime, chiamando come produttore un certo Nigel Godrich, quello che molti considerano di fatto il sesto membro dei Radiohead. Non è una scelta casuale poiché i Radiohead, checché se ne dica, sono stati l’ultimo gruppo a dare una svolta al modo di concepire la musica rock. Nonostante le due parti abbiano dichiarato, in maniera più o meno implicita, di non amarsi reciprocamente, Waters ha riconosciuto la maestria di Godrich e ha deciso di dargli il ruolo di produttore, nonché direttore d’orchestra della sua nuova opera.

Il disco, diciamolo preliminarmente per non dar luogo a fraintendimenti, non è un capolavoro per due motivi: anzitutto perché questa definizione rischia di sminuire ogni riflessione critica nei confronti di un prodotto artistico; e poi perché è un termine di difficile maneggiamento per un ascoltatore contemporaneo all’uscita del disco. Queste cose lasciamole dire agli storici della musica, in poche parole.

Se quindi non è un capolavoro, Is This The Life We Really Want? è, per usare le parole dell’autore, “un viaggio che parla della natura trascendentale dell’amore. Di come l’amore ci può aiutare a passare dalle nostre attuali difficoltà a un mondo in cui tutti possiamo vivere un po’ meglio”. Ci troviamo quindi di fronte a un orizzonte molto più propositivo rispetto alle esperienze precedenti da solista del bassista inglese. E’ possibile infatti tracciare una linea di separazione nel disco: la prima metà è tipicamente “watersiana” per la messa in musica delle paure e delle difficoltà dell’uomo, la seconda invece è una chiara dichiarazione di intenti positivi verso le capacità di liberazione dell’amore.

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Insomma Waters cerca in tutti i modi -magari non sempre riuscendoci al meglio- di riportare la bussola verso l’individuo e il miglioramento della sua vita. Un signore di più di 70 anni, autore di dissacranti e cupe descrizioni della vita umana (The Final Cut è davvero lontano dagli intenti di questo disco sotto questo punto di vista), ha deciso quasi di fornire una chiave di volta per aprire uno spiraglio alle difficoltà in cui viviamo. Non è magari l’età che lo ha ammorbidito ma probabilmente la presa di coscienza che di “requiem per il sogno del dopoguerra” non ne abbiamo più bisogno. C’è bisogno di forze propulsive e, nel caso di Waters, della forza liberatrice dell’amore.

Il punto di forza di questo disco sta, quindi, nell’uso che fa della dimensione musicale del presente. Godrich, infatti, prende decisamente in mano le redini creative del disco tenendo a bada in alcuni punti la verbosità della scrittura di Waters e adattando il sound a una produzione che suona difficilmente “vintage”. Tutto si mantiene in un equilibrio perenne tra Waters e il produttore che si scambiano influenze reciprocamente.

Se Godrich dimostra di conoscere, in certi passaggi, la musica floydiana meglio di Waters stesso e la adatta a un sound tipico dei Radiohead (i primi minuti della title track sono paradigmatici a riguardo), il bassista si prende i suoi spazi creativi recuperando la copiosità dei tuoi testi (la parte finale sempre del pezzo citato prima è un esempio), i suoni e rumori ambientali, le voci narranti che fanno da raccordo ai pezzi. Waters recupera tutti i topoi del suo modo di fare musica a volte rischiando , a conti fatti, di portare lo spettatore nella classica caccia al riferimento nella discografia precedente: accettando questo gioco potremmo dire che, ad esempio, il primo singolo estratto Smell The Roses ha un’impostazione che ricorda Have A Cigar, il secondo singolo Deja Vù ricorda moltissimo la progressione armonica di Mother, la quarta traccia Picture That è un brano a metà strada tra One Of These Days e Sheep. Senza continuare all’infinito si può tranquillamente desumere che il disco abbia cercato anche di accontentare quella fetta di pubblico dichiaratamente di ascendenza “floydiana” che tanto si era allontanata da Waters durante i suoi dischi da solista. Quindi se i riferimenti innegabilmente ci sono -aggiungerei che sono sempre e comunque presenti in qualsiasi disco di qualsiasi artista- è altrettanto fuori dubbio che ci sia stata una certa svolta nell’arrangiamento dei pezzi.

Waters si è sempre circondato di grandissimi chitarristi (Gilmour, Clapton, Beck) mettendoli a servizio delle sue idee creative ma, questa volta, ha scommesso su una totale assenza di assoli di chitarra. Nonostante alcuni notizie indicavano la volontà di chiamare Gilmour per alcuni passaggi solisti, Godrich ha di fatto sostituito il ruolo primario della chitarra con una produzione robusta di tastiere. Questa scelta è, senza dubbio, originale per la produzione watersiana anche se, in molti punti, sembra essere stata più dettata da prese di posizione personali più che da ciò che, a conti fatti, chiedevano i brani. La già citata Deja Vù proprio per la struttura avrebbe davvero richiesto un esplosivo assolo finale a chiusura del pezzo invece sfuma tra pianoforte e cori femminili.

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Roger Waters e Nigel Godrich insieme in studio

Tornando a un’analisi più tematica del disco si può sottolineare la sempre più forte presa di posizione politica di Waters.  È un elemento che oramai sta caratterizzando da molti anni la sua attività di musicista e che, a fasi alterne, potrebbe davvero rischiare di “politicizzare” la sua produzione attuale e anche il passato musicale che mette in scena ai suoi concerti. Waters non è nuovo a questi attacchi politici se pensiamo a tutta la critica a Margaret Thatcher che aveva esplicitamente fatto negli anni 80. Il rischio di “politicizzare” è forte però nel momento in cui l’attacco si fa sempre più diretto ed elimina completamente l’elemento che ha sempre caratterizzato la scrittura watersiana: l’uso della metafora.

Animals, una delle sue vette creative, era una grandissima metafora della società che, con il rimando orwelliano, riesce ancora oggi davvero a stupire l’ascoltatore per la maestria con cui mette in musica una critica sferzante alla politica di quegli anni. Amused To Death, il suo precedente disco da solista, riesce anch’esso ad approdare a una attentissima riflessione sull’importanza dei mass media sempre attraverso una precisa metafora: il personaggio della scimmia -allegoria del genere umano-  che cambia canale televisivo restando del tutto indifferente a ciò che guarda.

Questi elementi sembrano essere un po’ assenti o almeno messi da parte in questo disco: pare quasi che l’artista inglese abbia preferito ragionare più in chiave intimistica che attraverso stratagemmi narrativi. Ritengo che questa scelta sia stata determinata da un chiaro mutamento del modo di concepire la musica: Waters si è perfettamente reso conto che questa scrittura avrebbe portato a una dimensione fin troppo interpretativa che avrebbe offuscato la sua poetica militante degli ultimi anni.

Is This The Life We Really Want? è quindi un disco che ha il grandissimo pregio di collocarsi nel presente musicale senza rievocare troppo nell’ascoltatore il ricordo di un passato leggendario. Un disco che, quindi, si prende i suoi tempi e i suoi spazi richiedendo moltissimi ascolti accompagnati dalla lettura dei testi. Obbliga in un certo senso lo spettatore ad approcciarsi a un ascolto più meditato, più cauto rispetto alle modalità di ascolto che caratterizzano innegabilmente il modo di intendere la musica oggi.

Un disco che ha come titolo una domanda è un’opera aperta che riporta una certa circolarità nel modo di ascoltare la musica: l’artista offre un determinato prodotto e l’ascoltatore è costretto a porsi quella stessa domanda e darsi una precisa riposta.

Roger Waters è tornato con la sua poesia, la sua rabbia, qualche sua solita paranoia ma questa volta sembra averci lasciato una domanda, quasi fosse un testamento spirituale.

E quindi torniamo alla domanda che ci è stata fatta: è davvero questa la vita che vogliamo? A noi tutti le singole risposte.

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