Men of Faith and Devotion: la storia dei Depeche Mode

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Non è mai stata una questione di seguire le mode. In oltre 35 anni di carriera ci hanno associato in un modo o nell’altro a tutti i sound del momento che si sono susseguiti in Europa e non solo. Il synthpop, la techno, il dark rock, l’industrial, l’IDM, persino il grunge. La verità, però, è che non siamo mai stati noi a inseguire le mode. Anzi, ve lo confesso: fin dall’inizio eravamo convinti di poter essere noi, quelli che le mode le producevano. Lo sapevamo fin da quando, nel 1980, andavamo di persona nelle sedi delle etichette discografiche londinesi a proporre le nostre demo, con le prime registrazioni di Photographic e Dreaming Of Me. Avevamo idee chiare e ambizioni precise. E soprattutto, avevamo un sound che non aveva nessun altro.

Perché – è utile ricordarlo – prima di noi il pop elettronico che conoscete adesso non esisteva. Esisteva quel sound embrionale che stava sparigliando le carte della new wave a cavallo tra i ’70 e gli ’80, quello sì. Ed era un periodo di fermento eccezionale: The Human League, Ultravox, John Foxx, i suoni elettronici che si inserivano nel midollo della musica alternativa e maturavano i presupposti per la fase successiva. E non prendeteci per arroganti se ve lo diciamo, ma la fase successiva eravamo noi. Tutto quello che sarebbe successo nella prima metà degli anni ’80, il synthpop, i brillantini e tutto il decennio di plastica, tutto questo fondamentalmente ebbe inizio con Just Can’t Get Enough.

Da lì nacque tutto. E fu un’esplosione immediata. Eravamo giovani e pieni di energie fresche, fu naturale farci prendere fin da subito dalle interviste e dai live. I primi anni furono eccitanti e convulsi, le cose si muovevano a un ritmo velocissimo e ci fu subito il cambio di formazione, con Vince Clarke che ha preso la sua direzione autonoma con Yazoo e Erasure, Alan Wilder a sostituirlo e a prendere le redini del nostro sound, Martin Gore subito pronto a passare alla scrittura delle canzoni a tempo pieno, Andy Fletcher sempre presente alle tastiere e io, Dave Gahan, a garantire la continuità d’immagine e mantenere il carisma di tutto il gruppo. E di carattere ne avevamo, ve l’assicuro. Nella nostra prima fase, quella puramente pop che va da Speak & Spell (1981) a Some Great Reward (1984) siamo stati in grado di fare sia hit pop perfette per il tempo in cui eran nate (See You, Everything Counts) che pezzi più cattivi come Photographic, appunto, o More Than A Party. Parlavamo di temi politici e sociali ma anche d’amore e amicizia, sapevamo essere delicati come una ballata emozionata (Somebody) e virili come uno scoppio industrial (Master & Servant). Dettammo il ritmo degli anni d’oro del pop e la nostra fama aumentò in maniera lenta e inesorabile. Dopo People Are People iniziammo a spopolare anche negli Stati Uniti e decollammo come band pop internazionale.

Fu lì che iniziammo a maturare la prima svolta vistosa. Gli anni del pop elettronico di matrice dance furono eccitanti e coinvolsero tutti, ma nel preciso momento in cui si passava alla seconda metà del decennio avevamo la sensazione che un nuovo carattere fosse necessario. Ancora una volta, eravamo pronti ad anticipare i tempi e voltare le spalle al volto più plasticoso del pop, prima che la fine di quell’era diventasse chiara a tutti. E la svolta si compì coi nostri due dischi successivi, Black Celebration e Music For The Masses, gli album più particolari, più di carattere della nostra intera discografia. Il pubblico in realtà finì per affezionarsi di più a quanto accaduto prima e dopo, ma diciamo pure che quei due album sono il nostro apice creativo assoluto.

Da un lato Black Celebration, anno 1986, album tetro al limite del funereo, le mosche sul parabrezza, quindicenni ingenue alla mercé dei corruttori e un’atmosfera maledetta che spazzò via in un sol colpo la nostra immagine pop più allegra. Dall’altro Music For The Masses, 1987, titolo ambizioso per un disco che in realtà le masse voleva scuoterle, non con sound facili ma con una serie di canzoni dal carattere definito, che non somigliavano a nient’altro in circolazione. Eravamo in un momento in cui creare un sound tutto nuovo era alla nostra portata, e quello che ci inventammo fu di fatto la nostra identità. Tramite singoli di grande effetto ancora oggi: Question Of Time, Strangelove, Behind The Wheel, Little 15e poi quei pezzi divenuti cult sebbene mai usciti come singoli, tipo Fly On The Windscreen. E Never Let Me Down Again, ovviamente, qui sopra. Mi tocca dirvelo: è stato quello il nostro momento migliore. Più intimo, più vero, più ispirato. Quelli furono i nostri dischi fuori dai giochi, non offrirono riferimenti facili e furono disconnessi da tutto il resto. Dopo di essi, cominciarono gli anni ’90. E con essi, la nostra nuova immagine.

Con Personal Jesus e l’album Violator, nel 1990 partì la nostra vera fase rock. La nostra immagine acquistò definitivamente le sfumature dark che poi diventarono identificative di quegli anni, e con due album maturammo la formula con cui la maggior parte del pubblico ci identificò. Furono gli anni del successo più grande. Eravamo dei divi. Venne fuori Enjoy The Silence, ovviamente, e divenne una delle canzoni emblematiche di tutti gli anni ’90. Nel ’93 venne fuori anche Songs Of Faith And Devotion e l’aria da reietto che impersonai così bene in I Feel You e Walking In My Shoes. E nel frattempo eravamo ancora in grado di scrivere grandi canzoni anche fuori dai suoni più visibili del tempo (in Violator c’era Sweetest Perfection, in Songs Of Faith And Devotion apparve One Caress). Musicalmente, insomma, eravamo pienamente ispirati. Individualmente invece, ahimé, eravamo allo sbaraglio. Il Devotional Tour fece emergere tutti gli eccessi di ognuno di noi. Martin aveva spesso crisi epilettiche, Andy cadde in depressione, Alan ci lasciò con tanta amarezza e io… beh sì, lo sapete. Tra eroina e cocaina ci rimasi quasi secco, in quell’albergo a Los Angeles.

Ancora un’altra svolta, stavolta forzata dalle vicende reali di ognuno di noi. Eravamo alla deriva ed era necessaria una rinascita, che faccia insegnamento di quanto accaduto e si assicuri di dare al futuro una direzione diversa. La direzione giusta per la nostra vera maturità. Ultra, nel 1997, fu il disco in cui ci rialzammo, faticosamente, umilmente, consapevoli di dover rimettere insieme i pezzi. Le parole di Barrel Of A Gun, il pezzo qui sopra che apre l’album, non erano (come vuole leggenda) le prime parole che dissi quando mi risvegliai in ospedale dopo quella notte, ma era chiaro a tutti che quella canzone era il nostro tentativo di esorcizzare quanto accaduto. Ultra fu allo stesso tempo resurrezione e presa di coscienza, fu il disco che mostrò tutte le nostre fratture ma anche quello che rese chiaro che dietro a tutte le minacce e le difficoltà, dietro alle debolezze della nostra natura umana, c’era ancora qualcosa di importante da tenere vivo. E fu quello che ci impegnammo a fare, in maniera consapevole, per il resto della nostra carriera.

Exciter (2001) e Playing The Angel (2005) furono la migliore fotografia della nostra maturità. Niente di pirotecnico o sensazionalistico quanto certe cose che facevano parte del nostro passato, ma due dischi solidi e ben ispirati, ricchi di belle canzoni e capaci di accogliere nuovi ascoltatori dalla generazione successiva. Più luminoso e multisfaccettato il primo, capace di alcuni dei momenti più sentimentali in assoluto (Breathe, Freelove, Goodnight Lovers), ma anche di singoli solidissimi e pronti per il mercato moderno come I Feel Loved. Leggermente più caustico il secondo, con quei cari toni oscuri a tornare volentieri tra le pieghe di brani come The Sinner in Me o Lilian. E ancora singoli che, incredibile, spopolavano tra i giovani. Come Suffer Well, qui sotto. Che, va detto, ricordava ancora una volta come elemento fondamentale del nostro successo globale furono i nostri video, grazie a quel visionario inarrivabile che è Anton Corbijn.

L’ultima fase è quella della stabilità. Stiamo fondamentalmente continuando a fare i Depeche Mode, una band che è passata attraverso quattro decenni sempre restando tra le più amate dal pubblico, formata da tre signori che si vanno avvicinando ai 60 ma che sanno parlare a un pubblico ancora ampio e pronto ad esaltarsi. Sounds Of The Universe (2009) e Delta Machine (2013) non possono definirsi dischi estremamente ambiziosi, è vero. Non faccio fatica ad ammetterlo: sono i nostri dischi più anonimi, meno grintosi. E infatti son quelli di cui si parlò meno. Eppure son stati molti lì fuori che si son gasati alle note di Wrong e Soothe My Soul.

La vera notizia è che siamo ancora qui. Vivi. Consapevoli di quanto ingombrante sia il nostro passato e di quanto pericoloso sia abbandonarsi a quel tipo di paragoni. Ma capaci di catalizzare gli entusiasmi di un pubblico che per eterogeneità e differenza di età ha pochi rivali, in grado di coprire gli ascoltatori di mezza età che venivano ad ascoltarci agli inizi, i loro figli che ci hanno scoperto nella nostra seconda onda di successo, e i nipoti di otto anni che, guarda un po’, pare che ancora ci apprezzino più delle teen band moderne. Il nuovo album Spirit è uscito e il tour mondiale sta avendo un sold-out dopo l’altro. Come ai vecchi tempi. Nulla è mai cambiato. E nonostante sappiamo benissimo che presto sarà il momento di gettare la spugna, noi oggi vogliamo ancora esserci. Con dignità. Cercando di dare un valido seguito a quella che oggi, a posteriori, resta una delle storie più incisive e ricche di colpi di scena del pop moderno.

Le monografie di Aural Crave sono monologhi immaginati in cui l’artista viene raccontato in prima persona. La verità che incontra l’interpretazione, un modo stimolante per riscoprire i personaggi chiave dei nostri tempi.

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