L’imbattibile Grande Torino e la tragedia di Superga

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“Gli eroi sono sempre immortali agli occhi di chi in essi crede. E così i ragazzi crederanno che il Torino non è morto: è soltanto in trasferta.”

Indro Montanelli

Il quattro maggio 1949 chi guarda in alto nel cielo pomeridiano di Torino vede addensarsi un grande cumulo di nuvole, spinte da raffiche di vento che si fanno via via sempre più forti e impetuose: un temporale improvviso è pronto a rompere la placida routine cittadina.

Anche Don Tancredi Ricca se ne è accorto, mentre è nel suo studio nella basilica di Superga e vede una fitta e fastidiosa coltre di nebbia aggrapparsi e avvolgere completamente la collina che sovrasta la città.

Attorno alle diciassette un boato, che alcuni scambiano un tuono dopo un violento fulmine, scuote Torino: quel rumore in realtà non è dovuto a un evento naturale, ma a qualcos’altro che ha quasi spostato Don Ricca assieme all’intera stanza e costringe il cappellano a precipitarsi fuori in preda al panico.

Don Ricca resta senza parole, mentre assiste con orrore alla visione della coda di un velivolo sventrato che spunta sinistramente dalla basilica, colpita nella parte posteriore e devastata dai rottami: quello che ha di fronte è lo schianto di un aereo, la cui fusoliera ha trafitto come una freccia il muraglione del terrapieno dell’edificio.

Il cappellano si fa forza e cerca di avvicinarsi a quella scia di devastazione per prestare aiuto, ma a ogni passo incerto sotto la pioggia battente, tra le lamiere fumanti, i corpi straziati, le macerie e i calcinacci, cresce in lui la consapevolezza che ciò che gli resta da dare è solo la benedizione a quei poveri resti.

Intanto si accavallano le prime voci di altre persone, accorse a vedere quel macabro spettacolo e a dare una mano. Tra chi tenta di spostare i detriti e chi si fa coraggio e prova a identificare i corpi sfigurati, c’è chi riconosce delle maglie granata con lo scudetto.

Don Ricca, raccogliendo un portafoglio in cui trova i documenti di Bacigalupo, conferma ciò che i presenti avevano già capito: su quell’aereo, tra quei cadaveri, c’è il Grande Torino, di ritorno da una gara amichevole in Portogallo.

La tragedia di Superga

La squadra che stava dominando il dopoguerra calcistico italiano è sparita di colpo, inghiottita da quella nebbia, in un giorno qualunque di maggio.

Con il cuore in gola, in mezzo a quel caos a cui si sono mescolate le forze dell’ordine, autorità, pompieri e tanti curiosi, giunge sulla collina di Superga anche Vittorio Pozzo, vincitore di due campionati del Mondo nel 1934 e 1938 e che da pochi mesi non è più commissario tecnico della Nazionale.

Tocca proprio a lui, sollecitato da un carabiniere che lo riconosce mentre sembra essere l’unico a voler stare in disparte in quel piccolo pezzo d’inferno, il difficile compito di riconoscere le salme dei suoi ragazzi, dei dirigenti del club e dei giornalisti al loro seguito.

E così, non senza fatica e dovendosi più volte fermare per la commozione, Pozzo inizia il doloroso riconoscimento dei corpi, posti ai piedi della basilica: alcuni li individua da qualche oggetto personale, da un anello o una cravatta, altri (Maroso e Martelli) appaiono talmente malridotti da non poter essere identificati se non per esclusione.

Ci sono tutti: Menti, Ballarin, Grezar, Ossola, Castigliano, Loik, Gabetto, Mazzola…

Tutto il Torino scompare in quello sventurato viaggio e l’intera Italia piange la fine di una avventura sportiva eccezionale, nata un decennio prima, quando Ferruccio Novo (che evitò la trasferta per puro caso) acquista la squadra granata.

Tassello dopo tassello, Novo e i suoi collaboratori avevano costruito in pochi anni una società e un team innovativi e, soprattutto, vincenti come pochi altri prima e dopo di loro: la gestione manageriale si rifà a quella delle squadre inglesi e il neo presidente si circonda subito di collaboratori di grande competenza, come lo stesso Pozzo e Ernest Egri Erbstein.

1941-1949: Il grande Torino

La prima stagione con Novo al comando è il campionato 40/41, che vede i granata piazzarsi solo settimi, ma l’acquisto dal Varese del giovane centravanti Franco Ossola, laureatosi capocannoniere del campionato, rende le previsioni per il futuro ottimistiche.

L’ingresso in guerra dell’Italia nel giugno del 1941 sembra togliere solidità a questo ottimismo, ma il regime fascista vuole comunque mantenere una parvenza di “normalità” per la popolazione e il campionato di calcio prende il via come se nulla fosse: Novo intanto rivoluziona i granata, acquistando Menti, Ferraris, Gabetto, Bodoira e Borel.

Ma è l’ingaggio dell’allenatore Andras Kuttik e il passaggio dal Metodo al Sistema (su suggerimento di Borel) a cambiare definitivamente le sorti dei granata, che saranno i primi in Italia ad abbracciare il modulo di gioco conosciuto anche come WM, che da anni spopola in Gran Bretagna e permette una maggiore fluidità e un miglior bilanciamento tra fase offensiva e difensiva.

Grazie al WM finiscono secondi in campionato e pronti ormai a giocare stabilmente per lo Scudetto, ma Novo sente che manca ancora qualcosa, così acquista il mediano della Triestina Giuseppe Grezar e soprattutto supera la Juventus nell’ingaggio delle due straordinarie mezzali del Venezia: Ezio Loik e Valentino Mazzola.

Con una decisa sortita negli spogliatoi durante l’intervallo di una partita contro i lagunari e un esborso notevole per i cartellini, finalmente Novo porta a termine il suo progetto visionario, aggiungendo due tessere fondamentali al mosaico granata.

La prima è rappresentata da Ezio Loik, un’eccellente mezzala destra dalla corsa infinita, che solca il campo come un pendolo instancabile e disegna calcio con una sagacia tattica superiore, inquadrando la porta come pochi: non particolarmente veloce ed elegante, i tifosi granata gli avrebbero affibbiato il soprannome di “elefante”.

La seconda è Valentino Mazzola, in teoria mezzala sinistra, ma in realtà giocatore completo che anticipa per mezzi atletici e tecnici i grandi centrocampisti che si sarebbero imposti nei decenni successivi: calciatore “totale” ante litteram, riesce a interpretare anche nella stessa gara più ruoli, passando da mediano a interno, da ala a centravanti (addirittura in una partita sarebbe finito in porta, sostituendo il portiere espulso) e impone la sua prestanza fisica sugli avversari.

Il palleggio raffinato con entrambi i piedi, la grande capacità di muoversi negli spazi stretti e un baricentro basso ne fanno un temibile avversario per chiunque gli si opponga quando è lanciato in corsa, mentre, nonostante una statura non eccelsa, il suo fisico massiccio e prestante lo rendono formidabile nei colpi di testa e pericoloso nei tiri in acrobazia.

Quello che già così appare come un indiscutibile fuoriclasse ha tra le sue skills anche un’incredibile carisma, che lo rende in pochi anni l’uomo di punta del calcio italiano e della Nazionale, arrivando a ottenere anche una certa celebrità oltre i confini: in Brasile un giovanissimo Josè Altafini viene soprannominato Mazzola proprio in suo onore.

Mazzola diventa in pochi anni il simbolo di quel Torino, talmente forte da schiacciare chiunque tra le mura amiche del Filadelfia, dove, assieme al trombettiere Oreste Bolmida, il capitano dà spesso vita a un siparietto divenuto leggendario, conosciuto come il “quarto d’ora granata”: quando la squadra è in difficoltà o semplicemente quando la partita sembra ormai addormentata, Mazzola lancia un cenno agli spalti, dove invita la tromba a suonare la carica. A quel punto Valentino si arrotola le maniche e dà così segno ai suoi compagni e alla folla che è arrivato il momento di fare sul serio: la furia granata si scatena e in pochi minuti investe gli avversari, condannandoli a sconfitta certa.

Con l’innesto delle due mezzali Kuttik (poi sostituito durante il campionato dalla bandiera Antonio Janni) ha a disposizione per la stagione 42/43 la squadra che tutti considerano la maggiore candidata alla vittoria finale: solo un ostico Livorno si oppone alla corsa del Torino, che torna a cucirsi lo scudetto dopo il 1928 e realizza anche il primo double della storia, strappando la Coppa Italia al Venezia.

La fine della guerra

La guerra intanto aveva ormai invaso la quotidianità degli italiani: durante l’estate cade il Regime e a settembre viene firmato l’armistizio con gli Alleati. L’Italia è in preda al caos, travolta al nord dai nazisti, che insediano Mussolini a capo della neonata Repubblica Sociale Italiana, organismo collaborazionista tedesco.

Le società, per salvare i propri tesserati dalla leva, si associano alle industrie belliche, facendo passare i giocatori come operai indispensabili alla produzione. Novo si accorda con gli Agnelli e grazie a questo stratagemma nasce il Torino FIAT, che partecipa senza successo al torneo organizzato dall’RSI nel 1944.

Terminato il conflitto e ristabilita la normalità, nell’ottobre 1945 riparte il campionato italiano e il Torino si affaccia alla competizione con lo scudetto ancora sulle maglie. Novo, di nuovo libero d’investire nella squadra, aggiunge nuovi volti e qualità, acquistando il difensore Mario Rigamonti dal Brescia, il mediano Eusebio Castigliano dallo Spezia, il portiere Valerio Bacigalupo dal Savona e Aldo Ballarin dal Venezia: i granata, allenati da Luigi Ferrero, conquistano il secondo campionato di fila e iniziano a scrivere la propria leggenda.

La stagione successiva risulta abbastanza tranquilla dal punto di vista dei nuovi innesti e un Torino ancora sotto la guida di Ferrero vince in scioltezza il suo terzo campionato, in cui segna 104 goal complessivi e Mazzola si laurea capocannoniere con 29 reti: nasce definitamente il Grande Torino.

Gli italiani, alle prese con le difficoltà del dopoguerra, si appassionano volentieri alla formazione granata: come Fausto Coppi e Gino Bartali, il Torino diventa un patrimonio sportivo che lenisce le ferite e fa sentire vincente un popolo sopraffatto da troppe sconfitte.

Il Torino poi rappresenta anche il punto di riferimento della Nazionale, anzi è praticamente la Nazionale, arrivando ad avere anche dieci undicesimi granata come titolari: l’obiettivo di vincere i Mondiali brasiliani del 1950 non appare poi così difficile da raggiungere potendo schierare il Grande Torino vestito d’azzurro.

Nel campionato 47/48 il Torino raggiunge l’apice: stacca di sedici punti le seconde e vince lo scudetto con 65 punti, mettendo a segno anche un clamoroso 10 a 0 con l’Alessandria. Vengono superate le formidabili statistiche dell’anno precedente: i granata mettono a segno 125 goal con i contributi fondamentali del solito Mazzola con 25 reti e di Gabetto con 23, vantando anche la miglior difesa della competizione, con soli 33 goal subiti.

Sul finire della stagione sembrano però nascere i primi screzi tra Mazzola e la società: il meraviglioso giocattolo sembra rompersi quando il capitano salta da ingiustificato una partita e dà adito a diverse voci che lo vedono scontento dell’ingaggio e desideroso di cambiare aria.

Lo stesso Valentino, interpellato dai giornalisti, non smentisce, ma conferma la propria volontà di trasferirsi altrove, magari all’Inter, dove potrebbe guadagnare maggiormente.

Intanto Novo, fermo nel non cedere alle richieste economiche di Mazzola, considerate eccessive e lesive dell’armonia dello spogliatoio, comincia a guardarsi attorno in cerca di sostituti.

Da separato in casa Mazzola spinge per accasarsi al club nerazzurro, ma quando ormai la rottura appare insanabile e il campionato è alle porte, le parti si riconciliano e Valentino ottiene finalmente dal presidente l’auspicato aumento. Novo viene alla fine convinto a cedere dai senatori della squadra, che gli assicurano che non ci saranno ripercussioni per la disparità di trattamento economico: Valentino è il leader generoso, il genio illuminante, il trascinatore indistruttibile ed è giusto che prenda il doppio degli altri, che ne riconoscono la superiorità.

L’ultima stagione

Il campionato 48/49 vede un Torino meno dominante (ma pur sempre grandissimo) lottare fino alla fine con l’Inter, che si dimostra un avversario ostico: gli acciacchi iniziano a farsi sentire e qualcosa sembra scricchiolare dopo anni di predominio assoluto, ma l’orgoglio e il desiderio di fare ancora la storia hanno il sopravvento sul logorio che avanza e così il Torino arriva a fine aprile con cinque punti di vantaggio sui nerazzurri.

A quattro giornate dal termine del campionato e con lo Scudetto ormai virtualmente assicurato la squadra decide di compiere il viaggio a Lisbona, dove è attesa dal Benfica di Francisco Ferreira, che durante un incontro tra Italia e Portogallo aveva strappato la promessa a Valentino di giocare in un’amichevole: chi meglio della squadra europea più celebrata per la sua partita d’addio?

Così il due di maggio la comitiva parte con un volo charter per Lisbona, dove il giorno successivo i granata avrebbero reso onore alla carriera del capitano lusitano per ripartire poi il quattro, andando incontro al proprio destino sulla via del ritorno.

4 maggio 1949: La tragedia di Superga e la leggenda del Grande Torino

Alla fine sono trentuno le vittime dell’incidente: ventisette passeggeri, tra cui giocatori, accompagnatori e dirigenti della squadra, tre giornalisti e quattro membri dell’equipaggio.

Dalle indagini si scoprirà che invece di dirigersi a Milano come stabilito, l’equipaggio (forse su richiesta dei passeggeri) devia la rotta verso Torino, dove il tempo è in continuo peggioramento: il forte vento di libeccio, la mancanza di un radar orizzontale e di un radioaltimetro probabilmente  ingannano i piloti, convincendoli di essere a 2000 metri e non a 600, dove la scarsa visibilità non 1permette loro di evitare l’impatto con la basilica.

Ferreira, che poi non si ritirerà più, ma continuerà a giocare per qualche altro anno, rimase schiacciato dai sensi di colpa, che provò a lenire inviando denaro ai parenti delle vittime.

La FIGC deciderà di assegnare al Torino quello scudetto ormai vinto e le ultime giornate vedranno la formazione giovanile granata affrontare in campionato i pari età delle altre squadre.

L’intera Italia è in lutto e ai funerali partecipano un milione di persone, che rappresentano il dolore di una perdita violenta, improvvisa e difficile da accettare per un popolo che solo da poco ha provato a risollevarsi e a sperare, a guardare al calcio come un veicolo per la tanto agognata normalità.

L’imbattibile Grande Torino sparisce così, inghiottito in un giorno qualunque di una primavera che quell’anno non sarebbe mai più sbocciata. Durante le esequie, in un silenzio assordante, Oreste Bolmida suona per l’ultima volta la sua tromba: stavolta il suono che esce non vuole incoraggiare Valentino e i suoi a far goal, ma li saluta mestamente, mentre loro entrano definitivamente nel mito.