Questo articolo racconta il film Belfast di Kenneth Branagh in un formato che intende essere più di una semplice recensione: lo scopo è andare oltre il significato del film e fornire una analisi e una spiegazione delle idee e delle dinamiche che gli hanno dato vita.
Nella riscoperta di chi siamo, che prima chiamavamo crisi di mezza età ed ora visti tempi le analisi della propria esistenza si sono trasformate in un susseguirsi che può partire anche dai trent’anni, abbiamo la tendenza ad addolcire i ricordi di gioventù, oppure in questo caso fanciullezza, edulcorando gli eventi e trasformandoli in qualcosa di mitologico, anche nella loro semplicità. Fondamentalmente con Belfast il regista irlandese mette in luce alla sua maniera un “Amarcord” in salsa britannica, provando a strizzare l’occhio al neorealismo italiano. L’anno degli eventi è di quelli significativi: il 1969. È proprio in quell’anno che inizieranno i “Troubles” in Irlanda del nord, che causarono la morte di migliaia di persone durante i trent’anni di conflitto: Formalmente i disordini si sono conclusi con gli accordi del Venerdì Santo nel 1998, ma in realtà proseguirono a bassa intensità in molte delle sei contee che dopo la proclamazione dello stato libero d’Irlanda nel 1922 rimasero sotto il giogo inglese.
Le sei contee nel nord del Paese con capitale Belfast, come tutta l’isola sono sempre state a maggioranza di religione Cattolica, a differenza dei coloni inglesi Protestanti, che attraversato il Mare d’Irlanda si riversarono in blocco nel Nord dell’Isola, soprattutto per i lavori nelle acciaierie e nei cantieri navali. Non crediate però che sia soltanto un banale conflitto di religione, perché la popolazione irlandese autoctona subì sin da subito l’emarginazione in casa propria, avendo ad esempio notevoli difficoltà nel trovare lavoro e subendo un vero e proprio apartheid da parte degli occupanti. Questo chiaramente sfociò nella formazione di organi paramilitari nati per respingere gli oppressori, creando da entrambe le fazioni perdite umane e coinvolgendo in seguito anche la Repubblica d’Irlanda e l’Inghilterra.
In un’epoca dove si fatica a prendere le parti di qualsivoglia causa, chiunque darebbe la colpa ad entrambe le fazioni, ma la realtà è che il principale colpevole di questa lacerazione tra i due popoli risiedeva e risiede tutt’ora nel Governo di Westminster. I Governi inglesi che si sono succeduti con in testa la persona che di più ha dato filo da torcere alla causa irlandese Margharet Tatcher non hanno mai voluto tenere in considerazione l’idea di far riunificare il Nord del Paese con il resto dell’Isola, non soltanto per convenienza economica, ma anche per quel malsano colonialismo britannico che ha dominato una buona parte del Pianeta, sfruttando popolazioni per arricchirsi e che ha trasmesso molto bene a quelli che in molti considerano i loro cugini scemi: gli americani.
Branagh, seppur protestante ha sempre conosciuto le concause del conflitto, riconoscendo le dinamiche che portarono alla guerra civile e che costrinsero lui e la sua famiglia ad emigrare in Inghilterra proprio nel 69’. C’è da dire che il regista chiaramente all’epoca “novenne” approfondisce sulle sue dinamiche casalinghe e sulle vite dei suoi cari, ma anche sul suo sogno di diventare un calciatore come George Best e la cotta per la compagna di classe “cattolica” Catherine. L’omaggio che il cineasta dedica alla sua città è commovente, condito dalle note di Van Morrison, conterraneo che ha portato in ogni angolo del mondo il suo Rock grezzo, ma anche il Blues ed il Soul, che avrebbero fatto invidia a Jimmy Rabbitte e a quei quattro scalmanati di Dublino in “The Commitments” di Alan Parker. Il rocker irlandese si consacrò completamente al rock’and roll già nel 1970, quando con il suo terzo album “Moondance” compose quella che per molti ascoltatori e per la rivista Rolling Stones risulterà come il Lato A più bello dell’intera storia del Rock.
La pellicola, girata quasi interamente in bianco e nero, ma con sprazzi di colore ben calibrati, (Come non pensare ai riflessi colorati sugli occhiali della nonna del piccolo Buddy durante la visione di uno spettacolo teatrale: quell’Amleto tanto caro a Branagh) è condita da un cast che ha fatto del suo meglio per far trasparire il sentimentalismo del regista, variando da una grandissima figura del cinema internazionale come Judi Dench ma anche di un attore con alle spalle innumerevoli pellicole internazionali come Ciarán Hinds. Il cast viene completato nei suoi elementi di spicco da Caitríona Balfe e Jamie Dornan, madre e padre del piccolo Buddy/Kenneth, sicuramente bravi e credibili nei rispettivi ruoli, ma certamente “oscurati” dall’immensa bravura del duo di “nonni” Dench/Hinds. Da non dimenticare il ruolo del piccolo protagonista Jude Hill, che tra i vicoli della capitale Nordirlandese può ricordarci anche per via della sua grande passione per il cinema il nostro Salvatore Cascio di “Tornatoriana” memoria. La narrazione di un intero popolo, vissuta e percepita grazie a pochi scorci della Città che vanno dalla strada in cui i Branagh vivevano, al tragitto casa/scuola, colpiscono molto e provano a farci comprendere la grande diaspora irlandese che a detta della simpatica zia di Buddy è assolutamente necessaria, altrimenti il resto del mondo non avrebbe buoni pub.
La fotografia di Haris Zambarloukos condita dalle riprese magistralmente eseguite dal basso, creano quella vivacità utile ad una regia pregna di attimi sentimentali, ma anche da dialoghi vividi. Il film ha diverse chiavi di lettura, per quanto non sia così impegnato come potrebbe sembrare, cosa sicuramente voluta dal regista dell’ “Enrico V”, anche grazie a quell’umorismo cinico tipicamente british che noi europei mediterranei spesso stentiamo a comprendere appieno, ricordando a Branagh che è pur sempre uomo di teatro e proprio non riesce a sfuggire a quelle battute tipiche del palco. La nostalgia che pervade l’intera opera può anche non piacere, anche se conquista un Oscar come migliore sceneggiatura, ma quello che rimane di questa pellicola è sicuramente la voglia di riscoprire un piccolo mondo incantato che soprattutto da ragazzini ognuno di noi costruisce e che ci segna indissolubilmente, su questo il regista ci prende appieno e conferma il suo amore per il cinema d’essai dopo qualche mega-produzione fatta solo per racimolare quattrini.