I contributi italiani alla storia della musica

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La nostra Penisola ha fatto nascere e crescere eccellenze in molti ambiti musicali: dalla liuteria all’innovazione tecnologia. La storia della musica ci deve molto, dati i numerosi primati raggiunti.

Iniziamo con il dire che abbiamo dato i natali al primo rocker della storia. Nato nel capriccioso intrigo di vicoli tortuosi e ripidi della parte vecchia di Genova, la sua vita non ha nulla da invidiare a quella delle moderne rock star. Paganini ha anticipato i tempi su tanti aspetti oltre chiaramente a quelli strettamente musicali ed esecutivi. Fu un grande agente di sé stesso. Prima di un concerto preparava il violino segando parzialmente tre delle quattro corde dello strumento. Durante l’esecuzione le corde si rompevano, inevitabilmente, ma lui continuava a suonare, concludendo il pezzo con una sola corda con lo stupore di tutti. A volte chiedeva di abbassare le luci per creare un’atmosfera suggestiva capace di catturare l’attenzione e il cuore delle ascoltatrici. Si racconta che quando le luci si rialzavano, si trovava un vero e proprio campo di battaglia con ragazze svenute a terra, altre in preda a pianti angosciati, vere scene da isteria collettiva con svenimenti che al confronto la Beatlesmania, come fenomeno sociologico, fa sorridere. Giocava con il suo talento, con l’immagine che anche le dicerie avevano creato, attribuendogli un patto con il Demonio. Paganini non si preoccupò mai di negare o mettere a tacere queste illazioni, anzi, fece di tutto per incoraggiare la percezione del suo lato oscuro, per non dire faustiano. Commercialmente, la sua immagine fu sfruttata in ogni modo, basti pensare alla vendita delle “caramelle Paganini”.

Poco distante da Genova, in quel di Torino, nella verdeggiante Val Susa, si può raggiungere un paesino di nome Villar Dora. Dal paese, si può arrivare a una villa immersa fra i vigneti. In quel paesaggio che rimanda a un piccolo mondo antico abita un uomo, l’ingegner Leonardo Chiariglione, che ha rivoluzionato il mondo moderno: è l’inventore dell’Mp3, un formato che ha consentito per la prima volta di trasmettere audio su Internet, nonché di masterizzare e leggere file musicali, con una qualità pari a quella di un cd, se non migliore.

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Poco distante c’è Galliate con una storia incredibile da raccontare. Pochi sanno che la chitarra elettrica non fu inventata da Leo Fender nel 1948 come tutti, appassionati e non, abbiamo letto su libri e riviste ma da Valentino Airoldi. Avete letto bene. Era un tecnico della Stipel (Società telefonica interregionale piemontese e lombarda) che nel tempo libero amava suonare con gli amici e che, proprio come i suoi colleghi americani, aveva il problema di far sentire la sua chitarra in mezzo agli altri strumenti. Decise così di applicare alla musica la sua competenza in fatto di telefonia e trasmissione del suono. Usando dei comuni ricevitori telefonici costruì un meccanismo fatto da due calamite e due bobine, poi lo sistemò sul manico di una chitarra alla quale aveva tolto la cassa armonica e allacciò il tutto alla presa “phono” della radio. Il suono delle corde usciva forte e chiaro dall’altoparlante. Era nata la chitarra elettrica.

Un’invenzione semplice e geniale come solo le grandi invenzioni sanno essere. Airoldi, però, non aveva alle spalle un’azienda produttrice di strumenti musicali, né, tantomeno, la scaltrezza e spregiudicatezza affaristica che oltreoceano evidentemente possedevano. Per farla breve, Airoldi non brevettò la sua invenzione e non prese contatti con i fabbricanti di strumenti musicali, così la sua chitarra rimase una curiosità da condividere con gli amici, un passatempo al quale dedicarsi nel tempo libero. E così, mentre il nome di Fender ascendeva all’Olimpo della musica, quello di Airoldi fu consegnato all’oblio. Pensate… se la storia avesse reso giustizia all’ingegnere piemontese, oggi parleremmo della Airoldi bianca di Hendrix o della Airoldi Sunburst di Jimmy Page.

A Milano possono rintracciarsi, invece, le origini del rap. Nel 1972, Adriano Celentano, su una sua traccia musicale basata su un solo accordo, il Mi bemolle, e i fiati che ripetevano un refrain di dieci note, segnò un punto di rottura con la tradizione musicale melodica italiana dell’epoca, ma anche con altre tendenze del tempo, come quelle incarnate dalle star italiane del rock progressivo, che proprio in quegli anni raggiungevano una gloria nazionale e internazionale. Il Molleggiato in quel pezzo improvvisava frasi che riproducevano il suono della lingua inglese nell’accento americano. Con una particolarità: dell’inglese c’era solo il suono, ma non il significato (se non in poche parole sparse). Sto parlando di Prisencolinensinainciusol, un brano che  divenne quasi leggendario da quando ne parlò un importante blog statunitense: Boing Boing.

Adriano Celentano - Prisencolinensinainciusol

Passiamo a Cremona, universalmente conosciuta come centro mondiale della liuteria vide la nascita del violino più antico esistente risalente al 1564 e realizzato da Andrea Amati.  Oltre alla famiglia Amati, c’erano Giuseppe Guarneri Bartolomeo detto “del Gesu” per l’abitudine di firmare i suoi strumenti all’interno della cassa armonica con la sigla IHS – Jesus Hominu Salvator (Gesù redentore degli uomini), ma soprattutto il leggendario Antonio Stradivari. La vita e le opere di questo maestro liutaio sono avvolte nel mistero. Non conosciamo con certezza né il luogo né la data della sua nascita. Nessuno è, inoltre, mai riuscito a capire cosa renda i suoi strumenti così unici; come sia stato possibile per il liutaio ottenere un suono potente, corposo e poetico al tempo stesso dai suoi violini. Da quel poco che si è scoperto, sembra che il maestro utilizzasse una vernice particolare la cui formula, però, rimane ancora oggi sconosciuta. Alcuni ricercatori l’hanno analizzata e ritengono che un ruolo di primo piano fosse giocato dalle ceneri vulcaniche tipiche dell’area cremonese. Le analisi hanno rilevato come la vernice usata da Stradivari fosse arricchita con cristalli minerali microscopici. Su questa veniva applicato un isolante a base di albume e miele. Ma non c’è solo la vernice alla base del suono straordinario di un violino Stradivari (oggi se ne sono conservati solo 50 esemplari). Un insieme di fattori concorre a renderlo unico. Il legno per prima cosa. Quello usato era scelto con molta cura: acero dei Balcani per il fondo, le fasce e il manico e abete rosso della Val di Fiemme per la tavola. La leggenda racconta come Stradivari facesse rotolare i tronchi e ne ascoltasse il suono per decidere su quali lavorare.

Parliamo ora del creatore della disco music. Compositore, produttore discografico e dj più tra i più geniali e influenti della scena contemporanea, Giorgio Moroder è stato capace di cambiare il modo di produrre e ascoltare musica. Le sue numerose hit e le colonne sonore gli hanno consentito di aggiudicarsi tre premi Oscar. Nato in territorio ladino, a Ortisei, comune della provincia autonoma di Bolzano in Trentino-Alto Adige, il 26 aprile 1940, in una famiglia della media borghesia, Giovanni Giorgio Moroder iniziò la sua esperienza nel mondo della musica imparando a suonare la chitarra da adolescente e poi girando l’Europa. Il primo brano tutto al sintetizzatore fu I Feel Love del 1977 di Donna Summer, altro mix di sensualità e sonorità tecnologiche, ancora oggi considerato tra i più influenti di sempre per lo sviluppo della musica da discoteca. “Ho sentito il suono del futuro”, esclamò Brian Eno a David Bowie nello studio di registrazione Hansa Tonstudio a Berlino.

Grazie a un altro italiano, di Padova, è stato ideato il pianoforte. Bartolomeo Cristòfori, cembalaro e liutaio, offrì al musicista la possibilità di imprimere espressività alle note suonate. Un’espressività che il clavicembalo di quel tempo non permetteva (non era possibile, infatti, dosare la forza giacché le corde dello strumento erano letteralmente pizzicate). Per raggiungere lo scopo che si era prefissato, pensò che la corda non dovesse essere pizzicata bensì percossa da un martelletto. Un’invenzione che trasformò il clavicembalo in “clavicembalo col piano e col forte“, un precursore cioè dell’odierno pianoforte.

Abbiamo dato un nome alle note musicali. A causa della crescente difficoltà nel memorizzare melodie sempre più lunghe e articolate, nel Medioevo nacque l’esigenza di “notare”, sopra il testo da intonare, alcuni segni (detti neumi) che aiutassero i cantanti dell’epoca a ricordare quantomeno la direzione (ascendente o discendente) della linea melodica. Aiuti, quindi, principalmente mnemonici dai quali prese avvio la moderna notazione musicale. Aiutare la memoria non era sufficiente. I cantori andavano supportati con altri strumenti. Ci pensò nel XII secolo Guido d’Arezzo, noto anche col nome di Guido Monaco. Nato ad Arezzo, fra il 1025 e il 1035, insegnò la musica e il canto. Proprio per aiutare i suoi allievi, prese le iniziali dei versi dell’inno a San Giovanni Battista (Ut queant laxis) e le utilizzò per comporre la scala musicale.

Un’altra storia affascinante riguarda un ciabattino di Salaparuta, in provincia di Trapani. Girolamo La Rocca, insieme a tanti altri suoi compaesani, emigrò a New Orleans. A quel tempo l’America, dopo aver comprato la Louisiana dai francesi, regalava la terra ai contadini disposti a coltivarla. Girolamo aveva sempre fatto parte della banda del paese, suonando un cornetto. Giunto negli USA, andò a vivere a Crescent City. Il figlio, James Dominick, un giorno prese il cornetto al padre e iniziò a esercitarsi. Lo fece per lunghe ore, per giorni e mesi. Dovette scontrarsi però con un ostacolo: il suo stesso padre. Girolamo, infatti, era contrario alle aspirazioni musicali del giovane Dominick. Aspirava a una carriera di medico per il figlio… chissà se vivendo sarebbe stato comunque felice saperlo come l’inventore del jazz. Il mondo, però, non tardò ad accorgersi di lui. Di “Nick La Rocca”, come chiamavano James Dominick La Rocca, ci parla nientemeno che Louis Armstrong, facendoci una rivelazione sensazionale: “Appena quattro anni prima che imparassi a suonare la tromba nella Waif’s Home, ovvero nel 1909, a New Orleans un cornettista di nome James Dominick La Rocca formò la prima orchestra jazz”. La Rocca e la Original Dixieland Jass Band, questo il nome iniziale della sua formazione poi divenuta Original Dixiland Jazz Band, ebbero un enorme successo.

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