L’isola di Pasqua e le statue Maoi: storie, leggende e significati

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L’isola di Pasqua è senza dubbio uno dei luoghi più affascinanti e misteriosi del nostro pianeta, nella lingua indigena chiamata Rapa Nui che letteralmente vuol dire “grande isola”. Il nome con il quale è conosciuta in tutto il mondo è quello attribuito dai primi coloni di lingua spagnola, Isla de Pascua, sul cui significato ci soffermeremo in seguito.

Geografia

L’isola di Pasqua si trova nell’Oceano Pacifico, al largo delle coste dell’America meridionale ed appartiene politicamente al Cile. Per la sua particolare posizione, è considerata uno degli insediamenti abitati più isolati del mondo, trovandosi a ben 3.601 chilometri dalle coste della sua madrepatria. Anche la sua forma è straordinariamente suggestiva, presentandosi come una specie di triangolo rettangolo leggermente allungato ed evidenziando nel suo territorio una lunghezza massima di 24 chilometri ed una larghezza estesa fino a 13 chilometri. La sua morfologia di origine vulcanica, formatasi su base basaltica, determina una linea costiera tratteggiata, per la maggior parte, da ripide scogliere e da poche spiagge.

Adagiata sulla dorsale pacifica, l’isola di Pasqua è ricca di attività sismica, potendo contare sulla presenza di quattro vulcani ancora attivi, il Poike, il Rano Kau, il Rano Raraku e il Teveraka. Le alture principali, tuttavia, sono costituite da tre vulcani spenti, di cui il più alto è il Maunga Terevaka che raggiunge i 510 metri.

Nei dintorni dell’isola di Pasqua, gli abissi dell’Oceano Pacifico possono raggiungere anche i tremila metri di profondità, in un mondo sotterraneo forse a noi sconosciuto ancora più dello spazio siderale. Per questa enorme profondità delle acque, anche una navigazione verso le tre isole minori Motu Itu, Motu Kau Kau e Motu Nui, che si trovano oltre il limite meridionale dell’isola di Pasqua, può nascondere delle insidie.

Forse questo è uno dei motivi per il quale queste tre isolette sono rimaste disabitate.

Il clima subtropicale è gradevole, aggirandosi su una media annuale di 22/23 gradi centigradi, senza alcuna significativa escursione tra una stagione e l’altra, se non per l’esposizione all’aliseo che, per alcuni mesi dell’anno, soffia verso nord-est.

Dal punto di vista geologico, l’isola vulcanica di Pasqua, insieme alle già menzionate isolette minori, forma una specie di cappello appoggiato su uno spettacolare cono vulcanico che emerge dalle profondità dell’oceano. La conformazione attuale del piccolo arcipelago “pasquale” risale soltanto a 750.000 anni fa che, in termini geologici, è un periodo decisamente breve.

Anche lo sviluppo della flora e della fauna ha risentito del notevole isolamento dalla terraferma, presentando una varietà limitata soprattutto alle specie native.

La maggior parte dei vegetali, secondo alcune leggende locali, sarebbe stata importata da insediamenti umani giunti da molto lontano. Alcuni diari di bordo dell’epoca della prima colonizzazione europea attestano che la popolazione indigena già coltivava piante di banano all’interno di alcuni contenitori.

Per quanto riguarda la presenza di mammiferi, come cavalli, pecore, maiali e mucche, essi furono importati dalla colonizzazione europea, mentre sull’isola insistevano alcune specie di uccelli marini e pochissime di uccelli terrestri.

La fauna marina è abbastanza povera, per la mancanza di una barriera corallina, ma al largo dell’isola di Pasqua vive una gran quantità di esemplari di capodogli.

Secondo gli studiosi, la presenza così notevole di capodogli sarebbe giustificata dalla presenza di molteplici sorgenti sottomarine che, con la loro acqua relativamente calda, provocherebbero una grande proliferazione di calamari, di cui i capodogli sono ghiotti.

Nome e storia

L’isola deve il suo nome al fatto che fu scoperta ufficialmente dagli Europei la domenica di Pasqua del 1722 e precisamente dall’esploratore olandese Jacob Roggeven.

Ben presto, però, l’isola passò sotto il controllo della corona spagnola, quando nel 1770 fu conquistata da Don Felipe Gonzales de Haedo, su mandato del governatore del Cile e vicerè del Perù, Manuel de Amat y Junient.

In epoca recente, nel 1888, l’isola di Pasqua è stata integrata nello stato cileno, divenendo nei decenni successivi teatro di violenti scontri tra la popolazione indigena e quella di origine europea. Di grande importanza fu l’arrivo nell’isola nel 1935 del frate cappuccino Sebastian Englert, che vi rimase fino al 1969, anno della sua morte.

Englert fu uno dei pochi che si fece portavoce delle vessazioni che subìva la popolazione indigena, proveniente probabilmente dalle isole polinesiane, da parte degli sfruttatori europei, ormai naturalizzati sud-americani.

Inoltre, allo stesso Englert la comunità internazionale è debitrice dei numerosi reperti archeologici e botanici ritrovati sull’isola di Pasqua, che permisero l’apertura del museo di Hanga Roa. Sulla scia degli scavi guidati da Englert, altri archeologi illustri, come il francese Alfred Metraux o l’inglese Katherine Routledge, si recarono sull’isola per studiarne gli aspetti più misteriosi.

E, come vedremo in seguito, la storia più antica di Rapa Nui ed alcune sculture che ivi sorgono sono ancora avvolte nelle nebbie del mistero.

Secondo approfondite applicazioni, che hanno tenuto conto dei reperti archeologici, nonché delle analisi genetiche sugli scheletri degli abitanti dell’isola in epoca remota, gli studiosi hanno stabilito che i primi colonizzatori fossero di origine polinesiana.

Sul periodo di effettiva colonizzazione vi sono tesi discordanti: la più accreditata sostiene che essa sia avvenuta suddivisa in più ondate di diversa consistenza, in un lungo periodo di tempo, compreso tra il dodicesimo ed il diciassettesimo secolo; la seconda tesi, invece, ritiene che il lungo viaggio dei primi polinesiani, magari su zattere di fortuna, sia avvenuto in un’unica fase tra il decimo ed il dodicesimo secolo.

Considerando i ritrovamenti botanici, è verosimile pensare che ai primi coloni l’isola di Pasqua si mostrasse come una grande foresta di palme e che il numero di abitanti sia rimasto modesto, a causa della scarsità delle risorse naturali trovate.

Dopo qualche secolo, però, si procedette ad un’intensa opera di disboscamento per costruire le famose statue Moai che, per poter essere trasportate, richiedevano una notevolissima quantità di legname. Per spiegare la rapida perdita di alberi e, nel contempo, l’estinzione di gran parte della fauna autoctona, alcuni scienziati ne attribuiscono la responsabilità ai giganteschi ratti di tipo polinesiano che avrebbero raggiunto l’isola, al seguito dei primi colonizzatori. L’assenza di predatori naturali avrebbe consentito a questi piccoli mammiferi di riprodursi in maniera esponenziale, scegliendo come principale nutrimento proprio i semi di palma e, pertanto, contribuendo in maniera significativa all’erosione della vegetazione dell’isola.

Le statue Moai

I cosiddetti Moai sono, senza ombra di dubbio, gli elementi più famosi dell’isola di Pasqua, costituendone il suo simbolo più conosciuto nell’intero pianeta. La loro origine e funzione, tuttavia, rappresenta ancora un enigma a cui sono state date varie interpretazioni.

Un gran numero di studiosi si è chiesto quale ruolo avessero quelle enormi teste di pietra, che guardano verso il mare, nella solare e variopinta società polinesiana.

Si tratta di oltre novecento monoliti sparsi sull’isola, ammirati da circa centomila turisti ogni anno.

Partendo dagli studi più recenti, sembrerebbe che gli indigeni di Rapa Nui abbiano collocato gli enormi Moai non in maniera casuale, ma in corrispondenza delle fonti di acqua dolce, indispensabili per il sostentamento della vita. In quest’ottica, pertanto, i Moai disegnerebbero una mappa delle risorse naturali dell’isola, così sperduta rispetto al resto del mondo. Anche seguendo questa plausibile ricostruzione, rimangono vive alcune perplessità: perchè i Polinesiani avrebbero dovuto sprecare tanta energia per segnalare le fonti d’acqua, quando invece sarebbero bastate opere decisamente meno impegnative? I fautori dell’ipotesi delle “fonti d’acqua” tendono a risolvere il dilemma, spiegando che probabilmente le sculture volevano celebrare gli “antenati divinizzati” che li proteggevano con la condivisione del bene più prezioso per sopravvivere, l’acqua.

Le statue sconcertano con il loro aspetto antropomorfo, dal volto squadrato, con un ampio naso ed uno sguardo fisso e severo, come nell’atto di ammonire i visitatori.

L’altezza dei Moai è molto variabile: si passa dai due metri e mezzo ad un massimo di 10 metri, anche se la più gigantesca, seppure non completata, misura addirittura 21 metri. Anche con il peso non si scherza: si può arrivare perfino a circa 90 tonnellate.

Un’altra particolarità è costituita dalla struttura delle stesse statue che, in alcuni casi, mostrano soltanto il volto del personaggio rappresentato, mentre il corpo risulta “interrato” o sostenuto da piedistalli di pietra, chiamati “ahus”. Su alcuni Moai è visibile il cosiddetto pukao, un cilindro ricavato da una roccia vulcanica di colore rosso che serviva ad indicare una sorta di acconciatura maschile oppure un particolare copricapo dei soggetti che erano a capo delle tribù.

Le leggende dell’isola di Pasqua

Vi è una suggestiva leggenda diffusa sull’isola. Essa narra che dal cielo atterrarono i cosiddetti uomini-uccello, i Tangata manu, chiamati così per la loro straordinaria capacità di volare. Questa razza celeste era guidata da Makemake che, secondo la mitologia locale, si identificava con il creatore dell’umanità ed il dio della fertilità.

La sua immagine, infatti, è delineata su numerose rocce sparse sull’isola.

Seguendo questo racconto, gli uomini uccello avrebbero insegnato agli abitanti di Rapa Nui le tecniche adeguate a muovere i colossi di pietra, utilizzando una forza misteriosa. Soltanto due sacerdoti, però, erano in grado di controllare l’eccezionale dono ricevuto. Nel bel mezzo dell’opera i due sacerdoti sarebbero scomparsi per motivi imprecisati, lasciando la costruzione delle statue, come ancora oggi si può notare, incompiuta.

Gli esegeti ritengono che quest’evento si sia verificato all’inizio del sedicesimo secolo e mitizzato nella leggenda sopra citata. In realtà, secondo l’etnologo Thomas Barthel dell’università di Tubinga, la lavorazione delle statue sarebbe stata interrotta bruscamente a causa di una guerra civile o di un cambio repentino del potere costituito. Questo stato di confusione avrebbe comportato una violazione degli accordi riguardanti la distribuzione del cibo tra artigiani e fornitori, determinando la paralisi delle attività manuali.

Anche nel contesto pacifico di Rapa Nui, non mancano i fautori dell’intervento di messaggeri provenienti dallo spazio profondo nella civilizzazione dell’isola.

In particolare, lo scrittore Erich von Daniken sosteneva che un gruppo imprecisato di extraterrestri avesse scelto, chissà per quale motivo, proprio l’isola di Pasqua per atterrare sulla Terra. Qui gli alieni avrebbero istruito gli indigeni, impartendo loro i rudimenti di una super tecnologia che li mettesse in grado di spostare gli enormi monoliti e di procedere alla collocazione dei Moai, secondo uno schema planetario.E’ superfluo ribadire che von Daniken non adduce alcuna prova scientifica per spiegare la propria ipotesi e che, anzi, evidenzia un pregiudizio di fondo nei confronti della comunità polinesiana autoctona, non ritenendola capace di compiere una simile opera, seppure foriera di enormi sforzi.

Nel bel libro Collasso. Come le società scelgono di morire o vivere, l’esperto divulgatore e geografo Jared Diamond, proprio riferendosi a quanto prospettato da von Daniken, osserva come statue del genere siano facilmente rinvenibili nella maggior parte delle isole polinesiane e come nelle cave di Rapa Nui siano stati ritrovati utensili adoperati per la lavorazione dei monoliti.

Tra i luoghi più affascinanti dell’isola, non si può dimenticare l’Ahu Tongariki, che si trova più meno nella zona centrale. Qui sono posizionati in fila ben 15 Moai, tra cui quello che vanta il peso maggiore (circa 90 tonnellate).

Un altro grande mistero che riguarda l’isola di Pasqua deriva dal ritrovamento di tavolette sulle quali è incisa una strana lingua ancora non decifrata, denominata “rongorongo” oppure “ko hau rongo rongo”. In realtà si tratterebbe di un insieme di glifi che, posizionati in un certo modo, darebbero vita ad un vero e proprio sistema di scrittura. Per interpretare il significato delle tavolette, comprendendone la struttura del linguaggio espresso, sono stati avviati molteplici studi applicativi, senza che nessuno di essi abbia dato esito risolutivo. Se si segue la tesi più accreditata che considera il “rongorongo” una forma di scrittura, si deve concludere che ci troviamo di fronte ad una lingua unica nel suo genere.

Il termine utilizzato per designare questo stravagante idioma deriva dalla lingua rapanui e può essere tradotto con i verbi italiani “recitare” o “declamare”.

Per noi Occidentali, abituati alla linearità delle lingue indoeuropee, soltanto poter leggere un’incisione in lingua “rongorongo” è un’operazione estremamente complicata: essa ha, infatti, un andamento “bustrofedico” inverso, dal basso in alto e da sinistra a destra. Il lettore, pertanto, deve cominciare a leggere in basso a sinistra della tavoletta, per dirigersi poi verso destra fino all’estremità opposta della riga e, poi, ruotando la tavoletta di 180 gradi, ricomincia a leggere la linea successiva.

Secondo la tradizione orale diffusa sull’isola, le tavolette venivano incise con stili di ossidiana oppure con la punta dei denti di squalo, in pratica con gli strumenti che i primi abitanti polinesiani avevano a disposizione.

I glifi non erano altro che forme stilizzate antropomorfe, di animali, di vegetali o riportanti figure geometriche di carattere simbolico. Probabilmente ogni glifo svolgeva una funzione ideo-grammatica, volendo esprimere un concetto piuttosto che una singola parola. Pur non volendo dare credito alla tradizione locale che racconta che 67 tavolette furono portare sull’isola dai mitici uomini-uccello, il “rongorongo” sembrerebbe essere nato in maniera indipendente proprio sull’isola di Pasqua, non presentando affinità con le altre lingue polinesiane e con la stessa lingua rapanui.

Per gli ammiratori di civiltà aliene, il rongorongo sarebbe stato introdotto da una civiltà extraterrestre ed inciso per lasciare un’enigmatica testimonianza agli abitanti dell’isola ed ai successivi colonizzatori. In più, alcuni sfrenati complottisti ritengono che le tavolette vergate nel misterioso idioma contengano informazioni preziosissime sull’esistenza di una civiltà aliena e sul futuro dell’umanità. Sempre secondo costoro, alcuni scienziati della NASA sarebbero riusciti a decodificare il significato nascosto nelle iscrizioni, tenendo secretati i risultati conseguiti. E’ superfluo ribadire che tali affermazioni non sono supportate da alcuna prova tangibile.

Rapa Nui è anche un famoso film del 1994 che ha avuto il merito di rendere nota l’isola al grande pubblico, facendo si che entrasse a pieno titolo nel circuito del turismo internazionale.

Come si è detto in apertura, l’isola di Pasqua è molto distante dalle coste del Cile: per questo motivo, il modo più facile per raggiungerla è prendere uno dei tanti voli che parte da Santiago, la capitale dello stato di appartenenza.

Nonostante la prevalenza di scogliere, alcune insenature sabbiose sono davvero meravigliose ed incontaminate. Tra queste, merita una menzione particolare la spiaggia di Anakena, situata nella parte centro-settentrionale dell’isola.

La baia di Anakena si presenta come una splendida insenatura a forma di mezzaluna, coperta da soffice sabbia bianca e circondata da una notevole piantagione di cocco.

I colori del mare sono quelli tipici delle aree tropicali: varie tonalità di azzurro quando il cielo è sereno, grigio verde, quando il cielo è nuvoloso o cadono le piogge, molto abbondanti nei mesi di aprile e di maggio.

Osservando il sole tramontare, mentre si staziona dietro ad una schiera di fieri ed imponenti Moai, si ottiene un effetto visivo straordinario: le statue sembrano fissare l’orizzonte, mentre la sfera infuocata si immerge nelle acque dell’Oceano, riflettendo su quei volti indomiti le luci policromatiche di un passato lontano e di un incerto futuro.