Questo articolo racconta il film 2046 di Wong Kar – wai in un formato che intende essere più di una semplice recensione: lo scopo è andare oltre il significato del film e fornire una analisi e una spiegazione delle idee e delle dinamiche che gli hanno dato vita.
Se per Sir Conan Doyle e la sua creatura letteraria Sherlock Holmes il “Palazzo della memoria” era oltre che un luogo di deduzione e ricordi utili alle indagini, anche un posto dell’animo dove rifugiarsi nei momenti bui, il regista cinese Wong Kar – wai accarezza lo stesso identico concetto trasformandolo in un antro profondamente malinconico, ma anche affascinante e dagli umori mutevoli. È proprio nel seguito dell’acclamatissimo In the mood for love, 2046, che riassaporiamo le avventure di Chow Mo – Wan, uomo tenace ma affranto profondamente da mancanze, culminate nella perdita dell’amante di un amore però vissuto solo in modo platonico, ma che comunque influisce profondamente sul suo modo di essere proprio dalla mancanza dello stesso. I ricordi, che spingono il giornalista/scrittore interpretato ancora una volta dall’attore feticcio del regista, Tony Leung, a plasmare un futuro dove sarà possibile recuperare tutti gli attimi di felicità vissuti.
Il numero che dona l’origine al titolo, 2046 oltre ad essere il futuro narrato negli scritti del protagonista, rappresenta la stanza d’albergo dove i due amanti si incontravano durante le assenze dei propri coniugi, ed infine una data ancor più rappresentativa per il regista: l’anno in cui la città che lo ha accolto da proscritto, Hong Kong, ritornerà definitivamente sotto il controllo di Pechino. Chow Mo – Wan però questa volta, deciderà di rifugiarsi nella camera di fianco a quella che ha rappresentato così tanto per lui, percependo il mondo da esule della vita, dedicandosi alla scrittura ed agli incontri facili, ma emotivamente provanti. Un altro aspetto della sua vena comportamentale si rivelerà quella da amante della vita mondana e dei piaceri che ne possono concernere, così da accarezzare l’idea di una rivelazione improvvisa che gli consenta di evadere dalla indolenza in cui si è rifugiato.
La fotografia che ha contribuito in modo determinante alle fortune del cineasta, sono ancora una volta affidate a Christopher Doyle, collega di sicura rendita con le sue luci calde ed a volte acide, così come l’umore del protagonista. La mutevolezza degli umori dell’uomo, che combaciano perfettamente con gli sbalzi temporali adottati dal regista e che rappresentano i capitoli del libro, sono tutti escamotage per colmare la Waterloo emotiva lasciata in dote a Chow Mo – Wan. Le donne frequentate per svago rievocheranno sempre per forza di cose Su Li-zhen/Maggie Cheung, che compare in un breve fotogramma. L’ossessione morbosa per il passato e di conseguenza l’irripetibile, è fonte profonda di inquietudine che devia nel desiderio di riprodurre minuziosamente le azioni vissute con soggetti differenti e che molto spesso lascia insoddisfatti.
Di fondo però è questa una delle maggiori pulsioni umane: l’insoddisfazione, che può portarci alla distruzione, oppure essere alimentata positivamente come stimolo per cercare di cambiare il nostro destino. La mole di materiale narrativo, che non si ferma al semplice dramma emotivo, e che trova sollievo nei piaceri del corpo, abbraccia addirittura la fantascienza, tema che ad alcuni potrebbe sembrare monco, non essendo supportato dalle ossessive vene di effetti speciali asfissianti e per certi argomenti inutili, ma che fa benissimo intuire allo spettatore il posto “immaginario” dove lo scrittore si reca. La frammentazione voluta da Wong Kar – wai che strizza l’occhio già dal titolo al simbolismo, forse si dipana un po’ troppo all’inseguimento della precedente pellicola, cardine assoluto del cinema mondiale.
Il trattato sull’amore perduto condito da una colonna sonora che incita la fiamma della malinconico: dalla The Christmas song di Nat King Cole a Dean Martin e la sua Sway, riesce ad omaggiare anche famosissimi temi musicali che riguardano il gotha del cinema europeo come Truffaut e Kieślowski. L’opera, presentata al Festival di Cannes nel 2004 ancora con un montaggio non definitivo: per via di Wong ed il suo manierismo eccessivo, aveva in precedenza già affrontato ardue prove anche per l’epidemia di SARS che era scoppiata in Cina nel periodo di lavorazione e che ne causò lo stop per quasi un anno, rispecchia esattamente sia il suo ideatore che il suo protagonista: così legata al passato e completamente immersa nei meandri di alcune personalità uniche nel suo genere. Così facendo 2046 si conferma come degno finale di una storia iniziata in maniera semplice e con il tempo inerpicatasi sino a raggiungere mondi che certamente ci affliggono, ma di cui possiamo trarre lezioni importanti.