Dylan Dog, lo Sherlock Holmes dell’impossibile: affinità e divergenze fra i due personaggi

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Dylan Dog non ha bisogno di presentazioni: è il protagonista dell’omonima serie di fumetti mensile ideata da Tiziano Sclavi e pubblicata da Sergio Bonelli Editore a partire dal 1986. Fra le più vendute in Italia, con un catalogo ormai di oltre 400 album regolari a cui vanno sommati speciali, storie a colori, ristampe, spin-off, cross-over, viene classificata dallo stesso sito dell’editore come “serie horror, anche se horror è una definizione limitativa”. Diversificati sono infatti i registri che attraversano le storie dell’indagatore dell’incubo, dalla gag comica alla riflessione filosofica, dal dramma alla detection story. Proprio l’appartenenza di Dylan Dog (per come concepito da Sclavi) a quest’ultimo filone vogliamo indagare, prendendo come termine di paragone il personaggio fondativo del genere: Sherlock Holmes, creato da Arthur Conan Doyle. Analizzando affinità e divergenze fra i due, scopriremo diversi modi di intendere la crime fiction, il suo legame con la società e con la stessa pratica della scrittura.

Il detective dell’incubo e il detective per antonomasia

L’universo di Dylan Dog si costituisce come esplicita parodia di quello di Holmes: numerosi infatti sono gli elementi holmesiani ripresi e ribaltati dall’ironia di Sclavi. Ciò è sicuramente dovuto al diverso contesto storico-letterario e al pubblico di riferimento: da un lato troviamo un giovane appassionato di cinema horror e musica rock (gusti affini al lettore di fumetti seriali degli ultimi anni ’80), eterno adolescente disordinato e idealista, vegetariano e antimilitarista. Si rivolge a una platea che ha fatto in tempo a vivere gli anni di piombo e sta vivendo le controverse politiche reaganiane e thatcheriane, ma del Sessantotto ha vissuto giusto il mito. Lettori, in breve, che incarnano le contraddizioni del postmodernismo fra aspirazione a fuggire e diffidenza per le autorità, per le grandi narrazioni ideologiche, per le «magnifiche sorti e progressive». Dall’altro lato, invece, un uomo adulto, razionale, austero, che parla al pubblico medio nell’Era della piena modernità: vera incarnazione del positivismo, del puritanesimo, della fede nella ragione come strumento di risoluzione dei misteri.

Entrambi i personaggi sono detective privati, indipendenti da Scotland Yard per quanto in costante contatto: laddove però il primo, ex agente del corpo di polizia licenziato, si serve indebitamente degli archivi criminali e dei risultati della scientifica per condurre le proprie indagini senza l’obiettivo di condividerne i risultati, il secondo viene reclamato come collaboratore esterno dal Metropolitan Police Service e, investigando in parallelo, fornisce il proprio contributo fondamentale alle forze dell’ordine. Da ciò derivano, peraltro, le opposte considerazioni presso l’opinione pubblica: Holmes è riconosciuto come la mente più brillante del proprio tempo, Dog invece è additato dalla stampa come ciarlatano. Sempre riguardo al rapporto con la Giustizia ufficiale, entrambi hanno delle figure di riferimento: in tal caso però, siccome l’ispettore Lestrade negli intenti di Conan Doyle doveva già essere una figura parodistica, per nulla stimata da Holmes, l’ispettore Bloch sclaviano è un personaggio di forte spessore morale, nonché mentore e miglior amico di Dylan.

A proposito di altri personaggi comprimari, il misurato dottor Watson, emblema perfetto dell’uomo medio vittoriano, trova un complementare comico in Groucho, originale e anacronistico assistente di Dog. Quanto all’antagonista primario e ricorrente, il professor Moriarty, «Napoleone del crimine», condivide con Xabaras la scaltrezza e la sconfinata cultura, ma a differenziarli è il piano di realtà nel quale operano rispettivamente: il primo tesse attorno a sé una concreta rete criminale, il secondo esplora territori paranormali e si serve di una scienza al servizio della magia. Al gioco di specchi che la parodia instaura con il proprio originale non sfuggono nemmeno i particolari a prima vista più corollari: se Holmes è un eccellente violinista, Dog è un pessimo clarinettista (da notare come l’unica aria da lui suonata sia Il trillo del Diavolo, composta nel 1713 da Giuseppe Tartini proprio per violino solista); infine, se Holmes abita a Londra nella reale Baker Street, al fittizio 221B, Dog risiede nella medesima città presso l’inesistente Craven Road 7 (omaggio al regista Wes Craven).

Dylan Dog si configura davvero come “Sherlock Holmes imperfetto”: riflessivo, astemio e pigro di contro all’uomo attivo, amante dell’alcol, del tabacco e della cocaina. Soprattutto, Dylan è un grande romantico. Se l’unica figura femminile di rilievo nella saga di Holmes è Irene Adler, apprezzata unicamente per le proprie doti intellettuali (sottese all’idea esclusiva di uomo vittoriano), e l’innamoramento è riservato all’assistente e sottoposto Watson, Dog vive costantemente di attrazione verso l’altro sesso: il personaggio di Morgana, amore più profondo del detective dell’incubo, colei che egli ricerca in qualsiasi donna a venire, si rivela anzi essere la reincarnazione di sua madre, in una complessa trama di riferimenti freudiani ovviamente estranei a Conan Doyle e al proprio orizzonte culturale in cui sostanzialmente l’uomo, e i valori mascolini e utilitaristi a seguito, sono protagonisti. Fra gli album fondamentali di Dylan Dog, Il lungo addio non narra di un enigma da risolvere, bensì del primo amore adolescenziale del protagonista, a testimoniare quanto la dimensione sentimentale (leggi: esistenziale) abbia rilievo nelle storie di Sclavi. Ad un Holmes privo di emozioni si contrappone un Dog che soffre per il freak Johnny, investito di un affetto quasi paterno, di un’ empatia alla quale l’esasperato positivismo del detective di Baker Street non può concedersi.

Metodi investigativi a confronto

Un’altra differenza, ancora più macroscopica, intercorre fra Holmes e Dog: uno è il detective del possibile, l’altro dell’impossibile. Figlio di una cultura che si basa sull’osservazione di segni corrispettivi a dati della realtà, Sherlock ritiene che «quando hai eliminato l’impossibile, quello che resta, per quanto improbabile, deve essere la verità». Dylan, invece, ricerca nello scarto rispetto al realistico, nell’impensabile, la soluzione agli enigmi che gli si pongono. Come il quasi coevo agente Cooper di Twin Peaks ricorre a tecniche trascendentali, mistiche, zen, per la soluzione del mistero, così Dog si affida ad un ormai proverbiale «quinto senso e mezzo», capacità intuitiva mai compiutamente definita, scientificamente non dimostrabile e di matrice irrazionale.

Nulla di più differente dal metodo deduttivo di Holmes, che consiste in una sistematica ricerca di particolari minimi ordinati secondo logica e conoscenze pregresse. Holmes ha una vasta conoscenza in materia di discipline applicabili al proprio mestiere: dal celebre elenco di Watson sulle competenze del proprio neo-coinquilino, nel primo romanzo a vederlo protagonista, emerge uno Sherlock profondamente esperto di chimica e sufficiente conoscitore di anatomia, botanica, geologia, ma totalmente ignorante in materie umanistiche e speculative, fatta eccezione per il diritto e la cronaca nera. Vi si riscontra quel rifiuto delle scienze opache e prossime alla metafisica tipiche del pensiero positivista fin dalla gerarchizzazione delle conoscenze del filosofo Auguste Comte. Al contrario, Dog non si dimostra mai particolarmente interessato al sapere scientifico: gli unici manuali che consulta e l’unico campo in cui si dimostra esperto è anzi quello dell’occulto, della pseudo-scienza. Per lui il parere della scientifica di Scotland Yard o dell’indovina madama Trelkovski, anziana medium gli episodi nei quali è presente sfociano sempre in viaggi extra-dimensionali, storie di stregoneria, incantesimi, hanno la stessa attendibilità. Il soprannaturale è la chiave di volta degli enigmi di Dog, laddove Sherlock lo rifiuta a propri. È Dylan stesso a mostrarsi consapevole fin da subito della propria peculiarità:

«Voglio che vi rendiate conto che state parlando a… beh, diciamo “uno strano tipo”… l’unico investigatore al mondo, per quanto ne so, che si interessi a fenomeni come fantasmi, licantropi o vampiri… Il fatto che io creda o meno all’autenticità di tali fenomeni è del tutto irrilevante. Ciò che conta è che non mi rifiuto a priori di crederci, come fa la maggior parte della gente “seria”»

Trattandosi di un investigatore, ovviamente, Dog non è estraneo al metodo deduttivo e all’analisi logica. Il procedimento di problem solving de Il castello della paura/La dama in nero, fra le poche storie di Dylan a non sfociare nel paranormale, vede il protagonista destreggiarsi nella risoluzione di classico “enigma della camera chiusa” il cui schema ricorda lo Sherlock di Uno studio in rosso o la narrazione di Agatha Christie: spazio e numero di sospetti limitati, interrogatori indiziari, spiegazione del crimine. Si tratta però di un’eccezione rispetto alla norma. Si potrebbe sintetizzare affermando che Conan Doyle si rifà all’Edgar Allan Poe de I Delitti della Rue Morgue, Sclavi ai Racconti dell’orrore del medesimo: entrambi hanno come lontane antenate comuni le prime pubblicazioni mistery di metà Settecento sulla scia dei Newgate Calendars, spogliate però nei racconti di Sherlock Holmes degli elementi gotici e sensazionalisti.

Dylan Dog senza Watson

Ultimo elemento di confronto fra Dog e Holmes è il punto di vista della narrazione. Che, nel secondo caso, è quasi sempre affidata al compagno di avventure. Watson, il «pragmatico colono britannico in giacca di tweed», invano desideroso di pace dopo l’esperienza di guerra in Afghanistan, è il contraltare perfetto per Holmes: se questi è un uomo fuori dalla norma, un übermansch dell’Inghilterra ottocentesca, il dottore è l’individuo medio e prevedibile che si meraviglia del genio del compagno. È suo compito esclusivo riportare al lettore le vicende, non solo perché questi possa facilmente identificarsi in una persona comune, ma anche perché l’esercizio della scrittura narrativa non rientra fra gli interessi di Holmes: è un’attività da letterati e umanisti, non da uomini d’azione e pragmatici. Ricordare, praticare l’autoriflessione, tenere diari, è controproducente proprio in virtù dello spirito pragmatico del detective.

Se Watson è necessario per Holmes, Dog non ha bisogno di alcuno scrivano: il carattere introverso e la tendenza all’auto-riflessione sono costituivi in Dylan, che si vede spesso al termine di un’avventura annotare i propri pensieri su un diario privato. Si tratta di lunghe postille alla storia altrimenti narrata in terza persona, in cui il protagonista tira le somme degli insegnamenti emotivi, filosofici, personali che la vicenda gli ha fornito, siano essi riguardanti la vita, la morte o sé stesso. Il personaggio macchiettistico di Groucho, diversamente da Watson, può dunque limitarsi ad alleggerire la tensione della trama con giochi di parole e battute umoristiche, in quanto la funzione di testimone viene direttamente assolta dal protagonista.

La distanza fra Holmes e Dog si fa ancora più evidente quando il focus narrativo nelle storie di Dylan è totalmente decentrato e fatto proprio dagli stessi personaggi su cui il detective indaga, procedimento assente in Conan Doyle ma prossimo a un altro innegabile modello per Sclavi: George Simenon e il suo commissario Maigret. Ad accomunare Dog e quest’ultimo, oltre al metodo investigativo asistematico e volto all’empatica curiosità più che al metodo, è infatti l’attenzione dedicata al mondo, alla storia, alla psicologia dei criminali. Così come è impensabile leggere una storia di Holmes attraverso la voce dell’assassino o di una vittima (salvo nei flashback o nelle confessioni), così non è raro che Dog si eclissi spesso dalla narrazione, cedendo il palcoscenico letterario ora a fantasmi (Storia di Nessuno), ora ad una pluralità di personaggi secondari (lo splendido affresco di relitti umani de I delitti della mantide). Proprio l’empatia è il sentimento, assente nel detective vittoriano, che percorre e caratterizza le vicende di Dylan.

Gli altri padri di Dylan Dog

Si potrebbero spendere fiumi di inchiostro a esplorare le altre fonti da cui Sclavi (ritenuto da Umberto Eco uno dei più grandi scrittori della Stori) ha attinto. La prima, e più evidente, è quella del romanzo noir di Raymond Chandler: il suo detective Marlowe è stato il primo, e più potente, atto di ribellione alla perfezione delle storie ad enigma del giallo britannico classico. Dog e Marlowe sono entrambi creature imperfette, più aduse a divagare per la giungla metropolitana che a chiudersi in laboratorio, insicure in quanto consapevoli che innocenza e colpa sono categorie labili. Per entrambi il sesso, grande assente in Holmes, è fondamentale: la figura della femme fatale è co-protagonista pervasiva nel romanzo nero che mette in scena, a là Lacan, un soggetto maschile imperfetto, castrato. Abbiamo già affermato come l’album Morgana racconti la storia di un complesso edipico che segna irrimediabilmente Dog. Lo sclaviano Il lungo addio fin dal titolo è un omaggio all’omonimo romanzo di Chandler, ai suoi personaggi maschili irrisolti, traumatizzati e riflessivi. Anche la sopra analizzata centralità dell’auto-riflessione per Dylan, come nel noir, è costitutiva: la prima persona racconta di sé, si confessa e per sé cerca l’assoluzione proprio tramite la narrazione.

La lista potrebbe continuare: al realismo di Conan Doyle, Sclavi preferisce senza dubbio la scrittura quantistica, la meta-narrazione, l’esplorazione degli universi possibili di un Jorge Louis Borges o di un Italo Calvino. La patina di autocompiacimento machista presente nel primissimo Dylan Dog, e rapidamente persa nel giro di pochi numeri, strizza invece l’occhio a James Bond. Uno 007, quello di Sclavi, che alle macchine di lusso preferisce un Maggiolino pericolante e vorrebbe davvero fare a meno di uccidere.

Sherlock Holmes, nei primordi del genere crime, aveva l’intento di rassicurare il lettore con la propria razionalità spesa a fin di giustizia, quasi come un supereroe archetipico. Ciò che il pubblico voleva da Holmes era la difesa dei valori dell’uomo medio. Dylan Dog è invece erede dei dubbi del post-modernismo, di modelli narrativi eterodossi, del cinema e dell’immaginario horror. Il suo successo nell’universo del fumetto italiano sta nell’avere intercettato la crisi di valori e di certezze del proprio bacino di lettori. Rientrando nella categoria crime e intessendo, per prossimità o per distanza, una stretta rete di riferimenti, ironiche critiche, riprese da Sherlock Holmes e dagli altri padri nobili del genere.

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