Moby Dick racconta il mare e la vita meglio di qualsiasi altro libro

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Chiamatemi Ismaele. Alcuni anni fa – non importa quanti esattamente – avendo pochi o punti denari in tasca e nulla di particolare che m’interessasse a terra, pensai di darmi alla navigazione e vedere la parte acquea del mondo. È un modo che ho io di cacciare la malinconia e di regolare la circolazione. 

L’incipit di “Moby Dick”, qui nella traduzione di Cesare Pavese che da molti è ritenuta insuperabile, ha un respiro epico e solenne che affonda le radici nelle pagine bibliche.

Il narratore onnisciente Ismaele è una delle voci più grandi e cristalline della letteratura di sempre: marinaio e alter ego letterario dell’autore Hermann Melville, ha nella parola il flusso delle acque e il respiro del mare.

Fin dall’incipit, Ismaele proietta il lettore nell’immensità delle acque, come a mettergli tra le mani l’assoluta centralità e il pregnante protagonismo di quest’elemento nel romanzo. Il mare è un mantra quasi ossessivo ed è l’unico rimedio per il narratore, che nel suo impeto incipitario fissa il mare come cura assoluta per lo spleen che gli punge l’anima e per l’apatia che lo porta a pensare alla morte. Quando il torpore gli avvolge l’anima, Ismaele avverte che è giunto il momento di rompere gli indugi e respirare l’odore pungente del mare aperto, in un’istintività immediata che lo lega all’esercizio della navigazione e alla vita a bordo. 

Moby Dick narra il mare sviscerandolo in ogni suo rivolo, tra potenti slanci lirici e ampie digressioni scientifiche e dedicate alla navigazione, all’anatomia della balena e all’esercizio della caccia con i ramponi: quest’opera crea una vera e propria poetica del mare, indagando scientificamente e letterariamente gli abissi delle acque e dell’animo umano, come e più di tutte le altre opere “marittime” che costellano la letteratura mondiale.  

Tra le opere che procedono a vele spiegate e che hanno le pagine intrise dell’odore della salsedine, viene naturale citare Il vecchio e il mare di Ernest Hemingway e Il Conte di Montecristo di Alexandre Dumas.

La monumentale opera di Dumas fa del mare la cornice entro cui inserire le vicissitudini di Edmond Dantés, che navigando fa il suo ingresso in scena, e tuffandosi nelle acque scure che circondano il Castello D’If  saluta la prigionia, abbracciando la libertà e una nuova identità. Certo, il mare è pregnante e delimita quasi ognuna delle più di mille pagine del romanzo, ma il vero spazio del romanzo è il perimetro delimitato dalla mente di Dantès, che organizza meticolosamente e chirurgicamente la propria vendetta e offre al lettore una summa e un campionario di tutti i guizzi dei sentimenti umani.      

Ne Il vecchio e il mare di Hemingway, la lotta affannosa e a mani nude tra il vecchio pescatore Santiago e il marlin ha l’afflato epico dello scontro tra l’uomo e la natura, tra i netti confini della morte e i tremolanti lembi della vita in mare aperto, ma Moby Dick, uscito nel 1851 (mentre invece Il vecchio e il mare è stato scritto nel 1951 e pubblicato nel 1852), ha avuto il pregio di sublimare, già cent’anni prima, questa materia “marittima” in una vera propria liturgia biblica e in scala mondiale. 

Melville ha disegnato il profilo maestoso, autoritario e quasi religioso del grande mostro marino Leviatan, e ha fatto tesoro dei quattro anni della sua giovinezza trascorsi sulle navi baleniere e da guerra, nel Pacifico e nell’Atlantico: tutta questa materia è stata sapientemente livellata e riversata nell’opera.

Moby Dick uscì in due versioni differenti nel 1851: la prima in ottobre a Londra con l’editore Bentley, dal titolo “The Whale”, epurata delle parti considerate scandalose e irrispettose della Corona britannica, e la seconda a novembre a New York con l’editore Harper & Brothers, dal titolo “Moby Dick, or the whale”, non immune ad errori. L’opera si rivelò un fallimento editoriale, e venne riscoperta solo nella prima metà del Novecento: Melville morì nel 1891 e non ebbe la possibilità di assistere alla fortuna della sua creatura. 

Moby Dick – La versione italiana tradotta da Cesare Pavese

L’America in cui in Melville si trovò a vivere, intessuta di puritanesimo e ricerca di identità e stabilità nazionale, riecheggia pesantemente nell’opera, che può essere letto come un lungo poema sacro in cui la Balena Bianca è il simulacro di un inno che canta il mare, il cielo e la terra. 

Dal primo estratto di citazione: “E Dio creò grandi balene” fino all’epilogo, di Giobbe: “E io sono solo scampato a raccontarvela”, aleggia un’atmosfera da Vecchio Testamento, in cui il mare assurge a divinità capace di spadroneggiare e inglobare il minuscolo puntino dell’uomo, servendosi del suo figlio Moby Dick, la Balena Bianca, come se fosse il messaggero di un’Apocalisse temuta in un delirio da orrore puritano.

Melville ha sviscerato il mare senza risparmiarsi e con una dedizione quasi inquietante: ogni capitolo è una vera e propria esplorazione della divinità del mare, a volte benevola e a volte matrigna. L’autore si serve di tutto il suo sapere per compiere quest’esplorazione, passando da capitoli in cui fa sfoggio di minuzie descrittive sulla caccia e la navigazione (“La costa a sottovento”, “Cetologia”, “La tavola della cabina”, “La testa d’albero”, “La cabina alle finestre di poppa”, “La sfinge”) ad altri in cui si abbandona a digressioni di ogni tipo, da quelle scientifiche a quelle etnologiche, artistiche e culinarie (“La balena come piatto”, “Stufato di pesce”, “Delle balene in dipinto, in denti, in legno, in lastre di ferro, in pietra, in montagne e in stelle”), senza tralasciare anche momenti di narrazione pura in cui incanta il lettore con storie e leggende che celebrano il mare e la sua potenza (“Regina Mab”, “L’Albatro”, “La storia del Geroboamo”, “Il grande Tino di Aidelberga”).          

Il mare è il contenitore di questo crogiuolo di cultura, di questo scibile che non si esaurisce mai e che colpisce il lettore con una potenza eccezionale. Il segreto dell’opera è infatti l’equilibrio: Melville riesce a equilibrare il gusto del trattato oceanico, zoologico e baleniero con una liricità che eleva il mare a metafora della vita intera e maieutica del Bene e del Male. La Balena Bianca è l’ossessione del capitano Achab, che fu mutilato dal mostro marino e che non vede l’ora di avere il suo riscatto: da quando la Balena gli aveva falciato la gamba, Achab cominciò a diventare morboso e a identificare in Moby Dick non solo tutti i suoi mali fisici, ma ogni suo male intellettuale e spirituale.

“La Balena Bianca gli nuotava davanti come la monomaniaca incarnazione di tutte quelle forze malvagie da cui certi uomini profondi si sentono rodere nell’intimo, finché si riducono a vivere con mezzo cuore e mezzo polmone”

Moby Dick è il mostro che viene dal mare, il capro espiatorio di ogni frustrazione del vecchio capitano, corroso in realtà da demoni interiori e da un senso di vecchiaia, stanchezza e inutilità.

Il discorso suona pericolosamente attuale. Siamo Achab? Abbiamo paura del mare e di ciò che potrebbe far riaffiorare?  Che cosa ci fa sentire così mutili e privati della nostra identità?

Leggere Moby Dick al giorno d’oggi, significa prendere confidenza col  mare, respirare lo iodio e accettare i nostri fantasmi personali, senza demonizzare chi dal mare riemerge per salvarsi o per inseguire una vita migliore, senza trasfigurare tutto ciò nella “monomaniaca incarnazione del Male che riduce l’uomo a vivere con mezzo cuore”.

Il mare, fin dalla classicità, è uno spazio di rigenerazione e palingenesi, e Melville aveva già capito che l’uomo ha bisogno di proiettare le proprie paure su un feticcio, sia esso la Balena Bianca o lo spauracchio del migrante che viene dal mare.

Leggere Moby Dick al giorno d’oggi significa attuare una piccola rivoluzione silente che parte del mare, significa smettere di accumulare sulla gobba di un’immaginaria Balena Bianca tutta l’ira e l’odio provato dall’intera razza umana fin dai tempi di Adamo. Perché non siamo Achab, non cederemo all’impulso di ridurci a vecchi capitani mutilati e abbrutiti, siamo soltanto minuscoli sputi al cospetto del mare, della vita e delle sue leggi millenarie.

One comment

  1. Volevo scusarmi con Monica Acito,ho messo erroneamente una stella ,ma questo articolo ne vale 5.
    Ben scritto,ma soprattutto mi è tornata la.voglia di rileggere dopo mto anni , nuovamente Moby Dick.
    Grazie e complimenti

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