Midsommar: la spiegazione filosofica del film

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Questo articolo rivela elementi importanti della trama e della spiegazione di Midsommar di Ari Aster, svelandone il significato, gli eventi e le prospettive migliori per apprezzarne i pregi. Se ne suggerisce dunque la lettura solo ed esclusivamente dopo aver visto il film, e non prima, per evitare di perdervi il gusto della prima visione.

Nonostante Ari Aster avesse già alzato, nell’ambiente, l’asticella con Hereditary, dopo una seria e consistente riflessione estetica, ha partorito questo visionario prodotto del terrore che è Midsommar, un film che affronta la paura come un daltonico affronta i colori. O almeno, accetta il suo modo di vederli; o di non vederli. Più esattamente di non distinguerli.

Non li distingue, finché non ne accetta la natura deviata. Che viene da lui, ma che è comunque natura. Un sottile compromesso tra la realtà e la sua irreale e soggettiva manifestazione; ed anche il suo paradossale modo di essere accettata.

Inconsapevole, ma viscerale. Quasi una sintesi di ciò che non può essere associato alla realtà. Il substrato di coscienza che prende piede in tutto il girato è di uno spessore che conferisce alle forme ed ai colori una tale consistenza di opposizione, che diventa un odore.

Guardando il film, la sensazione a pelle è quella dell’odore fuori contesto: come stare dentro un lebbrosario, e sentire odore di gelsomino e mandorle tostate. Rende lo spettatore perplesso; cosa che, di norma, rischia di confondere il pubblico in maniera poco costruttiva, perché marina la bistecca nel vino, però senza mai cuocerla. Questo è deviante se il punto focale della questione è la cottura; qui il centro, è proprio la bistecca “cruda”. L’effetto è d’impatto, quasi disgustoso; soltanto che, a fine servizio, il piatto viene accettato, mangiato e digerito esattamente così com’è. Viene cotto il cliente, non la pietanza.

MIDSOMMAR | Official Trailer HD | A24

L’anima del film vive dentro le scelte cromatiche e muore nella trama, compiendo così una perfetta trasformazione, entro i parametri dell’assurdo, ma non avendo assolutamente niente di surreale.

Aprire il film, ponendo la distanza dei due personaggi dentro lo stesso compromesso, ma in due condizioni tanto uguali quanto opposte, mette un punto fondamentale sull’idea di empatia che il regista vuole raccontare. Un conflitto inesistente, che sembra solo un vizio di forma, perché chiude i personaggi in un solipsismo tossico, necessariamente imprigionato in una relazione cuscinetto.

La dimensione del viaggio come fuga inefficace da un centro entro il quale si ruota, senza riuscire ad allontanarsene: scena del bagno, che vede lei entrare dalla porta del bagno della casa, e guardarsi nello specchio del bagno, ma dell’aereo. Risoluzione possibile è l’abbandono al vertice, che sia in basso o in alto: perché tra i dannati, se ne si accetta la natura, il male, non ci si può sentire soli: mal comune mezzo gaudio. Il male è coscienza comune, che pareggia qualsiasi principio di giustizia che viene rivendicato nei nostri confronti, pareggiando ciò che ci pesa perché ci schiaccia. E’ primitivo, è intelligente, è onesto; è geniale. (è ironico)

Una progressione emotiva disarmante, coerente e distesa nei limiti dell’ordine, che sotto una tagliente orchestrazione estetica, produce una delle riflessioni più sconcertanti sul tema dell’emozione come misura reale e del male come misura spirituale.

Il villaggio definisce il “Testo sacro” al quale fanno riferimento, uno spartito emotivo.

Un climax rovesciato, che ribalta i piani dell’emotività soggettiva, nella misura di quella collettiva, come manifestazione del singolo e come catarsi della coscienza comune. I dannati che fanno i conti con una idea rinnegata di se stessi, che trova espressione nell’empatia collettiva, al fine di sacralizzarsi in quanto uomini, e demonizzare ciò che non “empatisce” (la figura del ragazzo di lei) perché estraneo.

Accompagnato da inquadrature simmetriche, con una fotografia che ne completa il senso, ribaltando personaggi, punti di vista e colori (pregnanti contrasti cromatici), il senso di ciò che si guarda accompagna per mano lo spettatore, dentro una logica che è tutta emotiva, e si giustifica solo se ne si accetta la forma. Lo sviluppo traumatico ha tre nodi: il primo con la morte della sorella e genitori, il secondo appena arrivati al villaggio (i due suicidi), e il terzo solo alla fine, nel sorriso di lei, che chiude il cerchio, tendendo la storia ad un istinto umano, che emotivamente viene appagato e logicamente confuso.

Ciò che crea disordine nella trama, ordina invece lo stato d’animo dello spettatore che, senza alcun tipo di remora, si lascia immedesimare in questa empatia di fondo, che non spiega niente, ma si mostra e basta.

La storia trova un senso nel suo contenuto, traspirando una forma che dire inquietante è poco. Un ordine di felicità paradossale, che sottende uno degli horror meglio riusciti sino ad ora. Nessun jumpscare, nessun elemento esplicitamente magico: tutto reale quanto lo è l’ansia che scaturisce da quel contesto felice, e la violenza che caratterizza tutti; come le emozioni dentro la logica umana. Sembrano emisferi in contrapposizione netta, quando alla fine risultano una diade imprescindibile, perché folle, quindi surreale, nella sua sconcertante realtà.

Nel precedente film, l’elemento traumatico era nell’estrema forza di immedesimazione dentro le situazioni, entro dinamiche asfittiche, oscure e nere come la disperazione.

Qui lo spettatore resta estraneo tutto il tempo, ed è questo che lo trascina dentro la storia: se fosse stato lì, sarebbe stato comunque sacrificato, perché estraneo, come i quattro americani, verso quella realtà assolutamente in equilibrio con quel male che l’ha scolpita.

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