La Parte degli Angeli: i significati politici del film di Ken Loach

Se c’è qualcosa di maledettamente piacevole nel cinema di Ken Loach è proprio la sua propensione alle seconde chances. Abbandonata occasionalmente la denuncia sociale a tutti costi, nonostante riesca sempre ad includere una buona dose di problemi che caratterizzano le classi subalterne, riesce ad intavolare dei piccoli capolavori di commedie, con attori che potremmo certamente definire degli illustri sconosciuti. Perché, come accade sempre più spesso anche nel nostro Paese, con l’ascensore sociale fermo, conta soltanto l’appartenenza della tua famiglia e chi conosci (arrivò a confermarlo un ministro della Repubblica Italiana, intimandoci di andare a giocare a calcetto con le persone “giuste”, piuttosto che inviare curriculum).

Così accade anche in Scozia, dove si avvicendano le malaugurate avventure di quattro ragazzi di Glasgow. I giovani però, grazie alla loro vaporosità umorale, provano a non perdersi d’animo. Questo per merito del solito “volontario”, che li supervisiona in quelli che noi chiameremmo lavori socialmente utili. Uno stato sociale malandato e retto, come avrebbe detto la Fallaci, dai pochi volenterosi che non si arrendono allo stato delle cose, provando a cambiarle. Robbie (interpretato dal convincente Paul Brannigan), con un passato violento ma sorprendentemente ingegnoso, capisce di possedere un olfatto ed un gusto molto sviluppati, tanto da farsi coinvolgere nella passione di Harry, quel John Henshaw già diretto da Loach ne Il mio amico Eric, che da uomo scozzese di mezza età ha una passione per i whisky ricercati: in questo modo, facendogliene assaggiare uno, John comprende subito la predisposizione del suo assistito e lo incoraggia ulteriormente.

La durezza, che molto spesso sia il regista britannico che il suo sceneggiatore di fiducia Paul Laverty utilizzano senza mezze misure, questa volta lascia ampio spazio al divertimento, rappresentato soprattutto dallo scemo del gruppo, Albert, anche lui però consapevole nel profondo della situazione in cui vive e della società che lo ripudia. Il titolo, così divinatorio e romantico, si riferisce a quella piccola parte (circa il 2%) di whisky che si disperde in vapore durante la maturazione, rendendo ancora di più poetica la storia di questi quattro disgraziati. Il gruppo si recherà ad Edimburgo ad un evento degustativo, dove in un piccolo cameo è presente una delle autorità maggiori in ambito di distillati, Charles MacLean, per apprendere i segreti della più nobile delle bevande.

Non si stenta ad immaginare che il whisky sia la perfetta metafora, nel suo processo di maturazione dell’esistenza: quel 2% che riesce a mettere in ordine la propria vita, nonostante una partenza che definiremmo non esattamente eccelsa, un messaggio di speranza per tutti quei giovani che si trovano per qualsiasi ragione in difficoltà, e allo stesso tempo un attacco alle cosiddette democrazie il-liberali, figlie di quel colonialismo Nord-Americano che troppo in fretta ha la necessità di etichettare le persone definendole non utili alla società.

Potrebbe sorprendere l’accostamento, ma poi neanche così tanto, a I soliti ignoti di Mario Monicelli, ovviamente in salsa britannica, perché che sia la fine degli anni Cinquanta in Italia, o gli albori del secondo decennio del Duemila in Scozia, le soluzioni per sbarcare il lunario e soprattutto i problemi degli “ultimi” rimangono tali. Questo dovrebbe farci interrogare molto sullo sviluppo delle società occidentali e su che cosa ha rappresentato per molti l’epidemia di delocalizzazioni e privatizzazioni che i Paesi anglosassoni hanno affrontato più di trent’anni fa. Nonostante tutto l’esempio è servito a poco, consegnando anche i Paesi mediterranei alla mercé della Finanza e del potente di turno.

La parte degli angeli - Trailer Italiano

L’opera fu accolta con entusiasmo al Festival di Cannes, portandosi a casa nel 2012 il Premio della giuria, che forse divertita da questo trittico di Socialismo, esproprio proletario e buon whisky decise di non far tornare a mani vuote a casa Loach & compagnia. La brillantezza e la delicatezza di questa favola moderna ha ulteriormente confermato l’abilità di un uomo con le radici ben salde nelle dinamiche popolari e che – all’epoca settantaseienne – ha dimostrato una freschezza di intenti oggi difficilmente riscontrabile in molti suoi colleghi, anche decisamente più giovani.

Maneggiando l’amicizia come un sentimento nobile, il regista ha dimostrato ancora una volta di essere pienamente a suo agio con la commedia, cogliendo anche degli aspetti psicologici importanti e di grande interesse. Coerente con il suo credo, Loach rifiutò anche il Gran Premio Torino nella città piemontese, per solidarietà con i lavoratori del Museo Nazionale del Cinema, che si erano opposti al taglio salariale e ad alcune esternalizzazioni dei servizi a scapito dei lavoratori con gli stipendi più bassi. Circostanza che tra l’altro ricordava in modo incredibile la sua pellicola del Duemila Bread and Roses che riportava addirittura alla mente, per chi volesse approfondire, gli scioperi del 1912.

Ovviamente criticato in un Paese come il nostro, oramai più attento a dinamiche inutili che ai diritti, la cosa passò subito in sordina, e come spesso accade inspiegabilmente, le ingiurie se le prese chi ebbe il coraggio di prendere una posizione concreta. Anche per questo il film merita di essere visto, per comprendere le dinamiche interiori di un uomo oramai ottuagenario che non si è mai arreso, denunciando le ingiustizie a modo suo.

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