Maria Callas e Renata Tebaldi: la storica rivalità della musica lirica

Che senso ha oggi parlare ancora di queste due straordinarie interpreti? Di una rivalità che attirò l’attenzione mondiale sull’Italia postbellica?

Ebbene, il senso sta nel suo rappresentare perfettamente un modello, un archetipo eterno dell’arte: Carisma contro Purezza.

Sfida eterna in cui possiamo capire come ciò che è “umano” possa essere dosato all’interno del ricettario artistico. Da una parte l’arte che incarna tutto il carico esistenziale, rappresentandolo persino nelle più oscure pieghe, e dall’altra l’arte come trascendenza, come salto nel sublime.

La purezza tonale, la lucidità formale della Tebaldi, “contro” il genio inafferrabile e il richiamo evocativo della Callas. Due sirene, incantatrici: mistica contro evocazione.

Insomma la “Voce d’Angelo” e il “Daimon”. Candore e ardore.

La storia, soprattutto quella musicale, ha continuato imperterrita a riproporre questo dualismo, senza mezzi termini. Il rigore di Bach e le esplosioni melodiche di Mozart, Liszt che si concedeva a Wagner fino alla destrutturazione emotiva e tonale di Satie. Una battaglia eterna, fino ai nostri giorni, per cui ancora nel 1972 ci si struggeva per il Lou Reed di A Perfect Day o si veniva affascinati dalle precise geometrie del Prog: senza posizioni di mezzo.

Nemmeno il glitter anni ’80 ne fu risparmiato: era il 1985, e radio e tv ci vendevano il fascino metropolitano di Madonna con Into the Groove o la trasparenza efebica di Annie Lennox, novella Tebaldi, con There must be an Angel. Il Rap che sgomita con la patina del pop, il trash dalla Bay Area o il rock da Fm…

Da Milano a New York: destini opposti. Nemo profeta in patria.

La Callas newyorkese di nascita, dopo numerose disavventure in patria approda in Italia e conquista la Scala soffiandola proprio alla pesarese “costretta” a fuggire nella Big Apple, della quale divenne subito Regina. Il Metropolitan di New York ai suoi piedi per un decennio: era il 1955 e ce lo testimonia una Desdemona pressoché inarrivabile, vertice della sua carriera: un “Già nella notte densa”, con quel “te ne rammenti…” in cui si tocca il cielo con un dito.

Un tipo di emozione lontana dalle corde della cantante greca, la cui presenza carismatica unita al timbro ipnotico, conferivano una rinnovata verità alle eroine dell’Opera: dalla Traviata di Verdi al lirismo di Puccini, acquistavano una dignità femminile inusitata e al contempo mai così aderente ai disegni autorali. Era quel binomio di “miseria e nobiltà” umana, vissuto in prima persona e poi sempre portato in scena.

Maria Callas - Si. Mi chiamano Mimi

Prendiamo la Bohème: la Mimì forgiata dalla Callas è una perfetta eroina moderna, drammaticamente reale. Mentre per la rivale l’identificazione coincideva con l’apertura e la chiusura delle quinte; conducendo una vita poco attraente per i rotocalchi, la Mimì tebaldiana è un gioiello di purezza, incastonato in un mondo crudele, dal quale si affranca asceticamente.

Si Mi chiamano Mimì - Renata Tebaldi

Maria Callas era sempre “se stessa” a prescindere dalle opere e dall’autore: una personalità prevaricatrice e una presenza scenica minimale e densissima, non riproducibile in vinile. Delizia per i detrattori nella loro costante difesa della “sacralità” della partitura, ma sicuramente non una Croce per chi vedeva in lei il rinnovarsi della tradizione operistica.

Un vento di modernità vivificante capace di portare l’Opera nel secolo nuovo e soprattutto di rivelarne la psiche sepolta dall’ortodossia predicata nei conservatòri. Tramite ideale per attirare un pubblico sempre più vasto e “pop”. E così fu.

Inizialmente la sua “singolarità” faticò ad affermarsi; nel 1951 il suo particolare timbro, definito “metallico”, imbarazzò critici e addetti ai lavori. Gli stessi, però, ben presto riconobbero il potenziale impatto, anche sul botteghino, di quella ragazza dal Peloponneso. Tanto da costringere l’italiana, toccata nell’orgoglio, a valicare l’oceano: uno scontro “perso” che fu l’origine della sua fortuna; di quel connubio artistico con Del Monaco, che le fece conquistare per oltre un decennio, il cuore lirico della capitale americana.

Quello scambio Milano-New York fu l’origine della loro rivalità costantemente e sapientemente alimentata dai rotocalchi, a servizio di un business dello spettacolo operistico che a quei tempi visse la propria “epoca d’oro”. La personale acredine a dire il vero cessò molto prima con un gesto, una visita riconciliatrice della Callas nei camerini del Metropolitan tebaldiano, espressione di sincera (reciproca) ammirazione.

Maria infatti non ebbe inizialmente egual fortuna nel suo paese di nascita. Una questione di stile: la sua bellissima tecnica al servizio di una emissione oscillante e la mimica asciutta, essenziale, erano più idonee alla mentalità europea che cercava un definitivo affrancamento dal Barocco. Gli Stati Uniti erano al contrario in piena smania futuristica, quelli di “what a beautiful world this will be” (I.G.Y., The Nightfly, Donald Fagen, 1982).

Insomma alla fine degli anni ‘50 non era certo la sobrietà la cifra stilistica in voga e la Divina all’inizio non fece scattare la scintilla: al suo debutto al Metropolitan nel 1956 volarono ortaggi. Letteralmente.

Ed era la stessa Norma che un anno prima fece trasalire la Scala in un incredibile acuto e diminuendo dall’assoluto controllo, quello sul cantabile “Sola furtiva al Tempio”; molti dicono la miglior Norma mai interpretata. Inarrivabile, il suo Casta Diva è rimasto emblema lirico; lei sacerdotessa carismatica, vibrante ed evocativa.


Chi era più adatta a Verdi?

Renata aveva una rara forza, caratteriale e comunicativa, che addomesticava nel portamento della voce, sublimandola. Ed ecco che invece la sua, di Norma, sarebbe veramente riuscita ad ammansire gli animi dei Galli, ribelli al giogo romano.

Non facciamo quindi l’errore di immaginare la langhiranese come fredda perfezionista, immersa nel soliloquio tecnico.

E di certo nella Madama Butterfly, suo “pièce de résistance”, avrebbe persuaso ogni marinaio a tornare: “un bel dì vedremo”.

Provata nel fisico a 3 anni dalla poliomielite, ne uscì dopo anni di cure così come uscì dalla provincia: lavorando duramente e meticolosamente, la mentalità contadina. Era la classica “acqua cheta che annega”, cresciuta forte senza un padre, nutrita a prosciutto crudo dall’amorevole madre e dalla preziosa Tina.

Era consapevole di quella profondità, del calibro adamantino in tutti i registri, della padronanza unica negli acuti. Toscanini stesso la battezzò, ribattezzando la Scala, con il nome che l’accompagnò durante tutta la carriera: Voce d’Angelo.

I puristi verdiani la preferiscono, ma il tempo e la modernità hanno completamente sdoganato le interpretazioni della Callas anche tra i critici e i melomani. Di recente è stata proclamata dalla rivista Classic Voice, migliore interprete del Cigno di Busseto. Questione di popolarità certo, e dell’esperienza sempre irripetibile che l’incontro con tale “fenomeno” (phainòmenon) ha suscitato: unica a diventare lei stessa icona, mito.

Amami Alfredo

Addolora che la sua travagliata e breve vita non le abbia dato l’opportunità di vedere appieno il solco tracciato indelebilmente nella storia: musa di tanti artisti dalla tormentata umanità a cui ne ha insegnato l’uso. La vita nell’arte e l’arte come panacea, come grazia salvifica. Quella Grazia che scorreva piena nella voce della sua eterna rivale: e ci piace saperle così, eterne.

Dedicato ad Ercolino Scaccaglia

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