Alla ricerca delle sette meraviglie del mondo antico

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Quando si parla delle “sette meraviglie del mondo”, è facile commettere errori riguardo all’ambito di trattazione ed ai criteri di riferimento. Prima di tutto, è necessario distinguere le “sette meraviglie del mondo antico” da quelle “del mondo moderno”.

Per quanto riguarda le “sette meraviglie del mondo antico”, si tratta delle strutture ed opere architettoniche ed artistiche che i Greci ed i Romani considerarono le più straordinarie per l’intera umanità. Anche se probabilmente erano stati compilati elenchi più antichi, la lista canonica dovrebbe risalire al III sec. a.C., in quanto comprende il Faro di Alessandria, costruito tra il 300 e il 280 a.C. ed il Colosso di Rodi, crollato per un violento terremoto nel 226 a.C.. Pertanto, le “sette meraviglie del mondo antico” furono contemporaneamente visibili soltanto nel periodo tra il 280 e il 226 a.C., poi andarono progressivamente distrutte per cause diverse, tranne l’opera più antica e misteriosa, la piramide di Cheope, che tuttora permane. Un altro importante indizio che la lista canonica risalga la terzo secolo a.C., è il fatto che tutte le sette meraviglie fossero situate in territori conquistati da Alessandro Magno, che, nonostante la breve durata del suo impero politico, contribuì alla formazione di una sorta di “koine’” culturale ellenistica nel Mediterraneo orientale.

Il testo più antico a noi pervenuto, riguardante le sette meraviglie del mondo antico, è una poesia di Antipatro di Sidone scritta intorno al 140 a.C.. Nei secoli successivi sono state elaborate numerose varianti alla lista, al punto che l’archeologo francese Jean Pierre Adam ne annovera ben 19, scritte fra il II e il XIV secolo. Da segnalare l’opera De septem orbis spectaculis, attribuita in maniera pseudoepigrafica a Filone di Alessandria, ma decisamente più tarda, forse risalente al V secolo, che concorda con la lista stilata da Antipatro: la piramide di Cheope a Giza (Egitto); i giardini pensili di Babilonia (Mesopotamia-attuale Iraq); la statua di Zeus ad Olimpia (Grecia); il tempio di Artemide ad Efeso (Asia Minore-attuale Turchia); il colosso di Rodi (Grecia); il Mausoleo di Alicarnasso (Asia Minore-attuale Turchia); il faro di Alessandria (Egitto). Cercheremo di elaborare una breve ricostruzione di ciascuna delle precitate mirabili opere.   


La piramide di Cheope

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Come ho accennato prima, la piramide di Cheope, nella valle di Giza, in Egitto, è l’opera architettonica più antica, annoverata tra le sette meraviglie del mondo antico, ed anche l’unica ad essere rimasta intatta. Essa è la più grande delle tre piramidi principali della necropoli di Giza, secondo l’egittologia tradizionale, costruita come tomba per il faraone Cheope. Si pensa che sia stata realizzata dall’architetto reale Hemiunu e che avesse un’altezza iniziale di 146,6 metri. Originariamente la Grande Piramide era rivestita da pietra liscia, come si nota ancor oggi nella struttura di base sottostante.

Sono state elaborate molteplici teorie sulle tecniche di costruzione della piramide, anche se quella più accreditata ritiene che sia stata edificata, mediante lo spostamento di enormi blocchi da alcune cave. Questi blocchi, dopo esser stati spostati con immane sacrificio, sarebbero stati sollevati e messi in posizione con modalità tuttora oscure e difficili da concepire anche con gli ausili della moderna tecnologia. Questo ha fatto supporre ad alcuni studiosi che la Grande Piramide sia stata edificata in tempi molto più antichi, forse da una civiltà superiore, anche osservando il particolare allineamento astronomico dell’intero complesso piramidale

All’interno della Grande Piramide sono state rinvenute tre camere: la camera più bassa, o camera ipogea, che risulta scolpita nella roccia, sulla quale la piramide è fondata, rimasta incompiuta; le cosiddette “camera del re” e “camera della regina” che si trovano più in alto, all’interno della vera e propria struttura piramidale. All’interno non è stato trovato né il feretro, né alcun arredo funerario riconducibile al faraone Cheope, e non è passata inosservata la mancanza di decorazioni o geroglifici sul tema dell’oltretomba. Ciò ha fatto nascere molti dubbi sull’effettiva funzione delle Piramidi, da alcuni indicate come “mappa celeste” per una fantomatica civiltà extraterrestre, ma la comunità scientifica tradizionale ha spiegato il fenomeno con il timore degli Egizi che la tomba fosse profanata da razzie straniere, come spesso accadeva in quel tempo. Pertanto il vero sarcofago, contenente la mummia del faraone, sarebbe custodito in una stanza segreta, per lasciare il sovrano ad un riposo eterno tranquillo, mentre quello che oggi viene riconosciuto come tale (la piramide), forse sarebbe soltanto un “cenotafio” in memoria del grande re, per ingannare i visitatori.


I giardini pensili di Babilonia

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I giardini pensili di Babilonia, costruiti vicini all’attuale Baghdad, furono costruiti intorno al 590 a.C. dal sovrano Nabucodonosor II, ma la leggenda li attribuisce alla mitica regina Semiramide. Grande suggestione ha creato il celebre quadro di Degas, Semiramide alla costruzione di Babilonia, dal quale è stata originata la leggenda, secondo la quale la regina trovasse in quei giardini rose fresche ogni giorno, nonostante il clima arido e torrido della zona geografica.

È necessario sottolineare che molti studiosi non sono certi della reale esistenza dei giardini pensili di Babilonia, la cui esatta localizzazione è frutto di molte speculazioni ed ancora del tutto irrisolta. Una prima teoria fu delineata dal tedesco Robert Koldewey che fu il primo a condurre scavi “in loco” tra il 1889 ed il 1917. Secondo l’archeologo i mitici giardini si trovavano nell’angolo nord-orientale del Palazzo meridionale, avendo ivi scoperto un’ampia struttura coperta da volte e composta da quindici stanze, delimitata da un muro di cinta ed un pozzo provvisto di fori che faceva pensare all’approvvigionamento idrico. Ma tale teoria incontrò il limite della lontananza dal fiume Eufrate, dal quale avrebbe dovuto attingere l’acqua. Inoltre successivi scavi dimostrarono più plausibile il collegamento del sito ad un locale di immagazzinamento di merci. Richiamando la necessità del collegamento con il fiume Eufrate, D.J. Wilseman ipotizzò che i giardini si trovassero “sopra e a settentrione della grande muratura” a ovest del Palazzo sud, fino a lambire le rive dell’Eufrate. Inoltre, sopra la “porta di Isthar”, che consente l’accesso a Babilonia, sono state rinvenute alcune strutture a volta che sembrano costituire la base di sostegno dei sovrastanti giardini  sopraelevati e terrazzati.

Babilonia era una città bellissima, conosciuta in tutto il mondo antico, era circondata da una doppia cinta di mura, con al centro la porta di Isthar, dalla quale si accedeva alla strada principale, rivestita di mattonelle smaltate azzurre ed ornata con le statue di oltre 120 leoni con le fauci spalancate. Erodoto racconta che i terrazzamenti per ottenere i giardini furono costruiti interamente in pietra, con un orto botanico comprendente tipi di flora provenienti da tutto il mondo allora conosciuto e con un sistema idraulico in grado di assicurare l’acqua di irrigazione con la quantità e la frequenza necessarie. Da recenti studi, sostenuti soprattutto da Stephanie Dalley, risulterebbe, invece, che i giardini fossero stati edificati a Ninive, e non a Babilonia. Secondo tale ricostruzione, le fonti classiche avrebbero confuso le due città, in quanto il passaggio dal potere assiro a quello babilonese era stato percepito senza soluzione di continuità, e pertanto gli autori si riferivano ad un generico “regno di Assiria” che aveva solo cambiato capitale. Ciò sarebbe avvalorato dal fatto che, mentre le fonti babilonesi tacciono riguardo ai giardini in questione, quelle assire narrano di importanti lavori idrici a Ninive sotto il re Sennacherib, nonchè dal ritrovamento di giardini presso le rive del Khors.


La statua di Zeus ad Olimpia

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La statua di Zeus ad Olimpia era una scultura che si può definire “crisoelefantina”, alta ben dodici metri, realizzata dal celeberrimo scultore ateniese Fidia nel 436 a.C. Essa era stata collocata nella navata centrale del tempio di Zeus nella città di Olimpia. Sembra che i sacerdoti di Olimpia avessero scelto di affidare la scultura a Fidia per la grande fama di cui godeva lo scultore, che l’avrebbe compiuta adoperando avorio, ceramica, pasta vitrea e ossidiana.

La statua rimase nel tempio circa ottocento anni, anche se molti potenti cercarono di impadronirsene. Secondo la tradizione, all’inizio del V secolo, quando ormai il tempio di Olimpia era in uno stato di abbandono, la statua entrò a far parte della collezione di opere d’arte di Lauso, che la collocò nel suo palazzo di Costantinopoli. Nel 475 la statua e l’intero palazzo andarono distrutti in un tremendo incendio. Fino al 1955, le uniche testimonianze della grande statua di Zeus, erano state alcune monete romane e materiali preziosi incisi, ma in quell’anno, nei pressi della bottega identificata come quella di Fidia, furono ritrovate le matrici di terracotta che erano state adoperate per la lavorazione del manto della statua.

Molti furono gli autori antichi che decantarono la bellezza e l’imponenza della statua, come Strabone. Ma la descrizione più esauriente è forse quella di Pausania, che descrive Zeus che reggeva nella mano destra una “Nike”, simbolo di vittoria, d’oro e d’avorio, mentre nella sinistra impugnava uno scettro su cui poggiava l’aquila d’oro, simbolo della divinità. Zeus calzava i sandali ed indossava un mantello di lamina d’oro, decorato con fiori di giglio in pietra dura e pasta vitrea ed era assiso su un trono ornato di ebano e pietre preziose.


Il tempio di Artemide ad Efeso

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Il tempio dedicato ad Artemide, nella città di Efeso, a circa 50 km dalla città di Smirne, nell’attuale Turchia, è ricordato per le sue enormi dimensioni e per la ricchezza delle decorazioni. Attualmente ne rimangono soltanto pochissimi resti. L’edifico fu costruito, attraverso varie vicende, a partire dall’VIII sec. a.C., anche se alcuni resti in ceramica ritrovati nell’area circostante, fanno supporre l’esistenza di un culto all’aperto, risalente al IX sec. a.C. Si narra che l’assetto più o meno definitivo del tempio di Artemide fosse stato raggiunto al tempo di Creso, re della Lidia, intorno al 560 a.C. Il tempio fu poi bruciato da Erostrato, che con quella triste impresa ambiva a passare alla storia.

Alessandro Magno trovò il tempio in rovina e propose ai cittadini di finanziare la ricostruzione, che poi fu completata nella prima metà del terzo secolo a.C. Il tempio riuscì a superare indenne un incendio ai tempi di Augusto, ma fu distrutto dall’invasione dei Goti del 263 d.C., ed i suoi marmi furono utilizzati per la costruzione della chiesa di san Giovanni ad Efeso e della basilica di santa Sofia a Costantinopoli. Il poeta Pindaro fa risalire il primo nucleo del tempio di Artemide al mitico popolo delle Amazzoni, mentre Pausania parla di un culto molto più antico, antecedente alla migrazione ionica. Plinio il Vecchio racconta che le dimensioni del tempio erano davvero imponenti, 425 per 225 piedi (125,8 x 66,6 m), e che le colonne erano davvero impressionanti, con un’altezza di 60 piedi (17,76 m), di cui 36 erano addirittura finemente scolpite. L’individuazione della posizione del mitico edificio si deve a John Turtle Wood, che lo scoprì alla fine del 1864, effettuando scavi fino al 1874.


Il Colosso di Rodi

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Passando al Colosso di Rodi, si narra che esso fosse una gigantesca statua dedicata al dio Helios, situata nel porto dell’isola di Rodi, in Grecia. Anche se la tradizione la collocava all’ingresso del porto, recenti studi sono orientati a considerare plausibile, invece, l’ipotesi che si trovasse all’interno della città vecchia o acropoli, sulla collinetta sovrastante il porto, in modo che fungesse anche da faro e non solo con funzioni ornamentali.

Si narra che il colosso fosse stato eretto dai Rodesi per celebrare la vittoria contro Demetrio I Poliorcete nel 304 a.C. La costruzione sarebbe terminata nel 293 a.C., ben 11 anni dopo l’inizio, ma sarebbe rimasta in piedi solo 67 anni, fino al 226 a.C., quando un terribile terremoto fece crollare la statua nel mare. Plinio il Vecchio narra che, pur inabissato, il colosso destava una grande impressione, al punto che molti pellegrini si recavano a Rodi per ammirarlo sul fondale del mare. La statua era alta circa 32 metri e la struttura era formata da colonne di pietra unite a putrelle di ferro, a cui erano agganciate le piastre di bronzo del rivestimento esterno. Ma, dopo circa 800 anni in cui era rimasto sommerso, nel 653, quando Rodi fu invasa dagli Arabi, il Colosso fu portato via e diviso in un numero considerevole di blocchi, che poi furono rivenduti in Siria.

In tempi recenti sono stati intrapresi numerosi piani di ricostruzione del Colosso, anche se poi nessun progetto è stato effettivamente realizzato. Da ultimo si può considerare il progetto dell’artista tedesco Gert Hof nel 2008, che però non ha avuto seguito concreto.


Il Mausoleo di Alicarnasso

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Il Mausoleo di Alicarnasso è l’imponente tomba monumentale che Artemisia fece costruire per il marito-fratello Mausolo, satrapo della Caria, ad Alicarnasso (nell’attuale città di Bodrun in Turchia), in un periodo compreso tra il 353 ed il 350 a.C. Si narra che fosse stato costruito dal famoso architetto Pitide, in collaborazione con altri eminenti artisti dell’epoca. Anche quest’opera fu distrutta da un devastante terremoto e al giorno d’oggi ne rimangono pochissimi resti.

Il solito accurato ed attento Plinio il Vecchio ne fornisce una ricostruzione abbastanza attendibile: il Mausoleo aveva un perimetro di 440 piedi, circondato da 36 colonne (poco più di 130 metri) e un’altezza massima di 25 cubiti (circa 11 metri). Sul perimetro del colonnato, denominato “pteron”, era innalzata una piramide alta quanto la parte bassa dell’edificio, provvista di 24 scalini, che si restringeva verso la sommità, dove era scolpita una quadriga di marmo. Alcuni resti del Mausoleo, come notevoli parti dei cavalli e della quadriga, sono conservati al British Museum di Londra, dove è stata anche elaborata ed esposta una minuziosa spiegazione della maestosità del Mausoleo.


Il Faro di Alessandria

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Il Faro di Alessandria, infine, si può considerare una delle realizzazioni tecnologicamente meglio riuscite dell’architettura ellenistica, edificato negli anni compresi tra il 300 ed il 280 a.C., sull’isola di Pharos, di fronte al porto della cosmopolita città di Alessandria d’Egitto. Rispetto alle altre meraviglie, fatta eccezione per la piramide di Cheope, è l’opera che è durata più a lungo, cioè fino al XIV secolo, quando fu distrutta da due disastrosi terremoti.

Il progetto fu iniziato da Tolomeo I Sotere e completato dal figlio Tolomeo II Filadelfo, per rendere più sicura la circolazione marittima della rada antistante il porto di Alessandria, resa pericolosa da numerosi banchi di sabbia e dall’assenza di scogliere di riferimento. Il Faro riusciva a segnalare alle navi l’esatta posizione del porto, mediante particolari specchi di bronzo che riflettevano la luce del sole fino al largo, mentre di notte si provvedeva ad accendere dei fuochi. Secondo la testimonianza di Flavio Giuseppe, la torre era alta 134 metri e poteva essere avvistata fino a 48 km di distanza, in considerazione del limite consentito dalla sua altezza e dalla curvatura della superficie terrestre. Alcuni hanno considerato il Faro di Alessandria, come il primo grattacielo della storia.

Alla base vi era una larga piattaforma quadrangolare, dove vi erano le stanze degli addetti e le scale per permettere il trasporto del combustibile. Non vi sono descrizioni specifiche del funzionamento del Faro, soprattutto per il riserbo prettamente ellenistico riguardo alle scoperte scientifiche che potevano favorire i nemici, ma si suppone che il fascio luminoso provenisse da specchi parabolici, tecnica poi applicata anche in epoca moderna. Nei secoli successivi, queste tecnologie andarono per gran tempo perdute e si riprese a ricostruire fari solo nel XII secolo: la prima fu la Lanterna di Genova, realizzata tra il 1128 e il 1139, ma senza riflettori basati sulla teoria delle coniche, che saranno ripresi solo all’inizio del XVII secolo. Da notare come il termine “faro” derivi proprio dal nome dell’isola di “Pharos”, per indicare appunto “il segnalatore per antonomasia”.

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Le sette meraviglie del mondo fanno parte, ormai, del nostro inconscio collettivo, guadagnandosi, a pieno titolo, un posto tra i grandi miti dell’umanità. E, come cerco di dimostrare nel mio ultimo libro I miti – Luci e Ombre, “la lettura dei miti ci fornisce la consapevolezza che siamo noi stessi ad indicarne la sacralità, superando la barriere del tempo ed i singoli contesti spaziali narrati, con l’intento quasi catartico di proiettare in essi la nostra individualità, attribuendo spesso un significato religioso e spirituale”.

A similitudine delle sette meraviglie del mondo antico, di cui abbiamo brevemente parlato, è stato stilato un elenco delle sette meraviglie del mondo moderno. Lo trovate qui.

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