Quante storie sono state ispirate dai Beatles? Forse milioni, e anche questo denota l’importanza della band. I quattro di Liverpool infatti sono stati precursori non soltanto in ambito musicale, ma nella sfera della cultura di massa. Ancora oggi esiste una vera e propria venerazione non soltanto per loro, ma per quello che hanno rappresentato, ed incredibilmente il nuovo Millennio è riuscito a rendergli omaggio con un’opera onirica, un trip sotto acido colorato e mirabolante che ci fa letteralmente respirare quegli anni affascinanti e splendidamente tumultuosi.
Across the Universe di Julie Taymor è un omaggio grandioso ai fab four, ideato da una regista famosissima a teatro, anche se con alcuni film all’attivo veramente interessanti (come Frida, la storia della pittrice messicana con Salma Hayek e Alfred Molina). Grazie alla regista americana, e soprattutto all’impagabile contributo di Elliot Goldenthal che ha avuto l’enorme responsabilità di riarrangiare i brani del quartetto, è stata creata una magia dal sapore dolce e psichedelico, con colori saturi e coreografie tipiche dei musical.
Potrebbe trattarsi di un’opera su argomenti dove l’industria cinematografica ha colto a piene mani, (movimenti giovanili e turbamenti sociopolitici di un’America arenata in Vietnam), solo che il bello è che questo film riesce a trarre nuova linfa grazie alle canzoni dei Beatles. Ci sono alcuni rimandi a varie opere, non per nulla alla sceneggiatura hanno partecipato Dick Clement e Ian La Frenais, collaboratori di Alan Parker in The Commitments. Un esempio è la scena in cui Max viene reclutato nell’esercito, con i soldati marcianti in mutande che calpestano il suolo vietnamita portando la Statua della libertà, e il pensiero volge subito a The Wall, sceneggiato appunto dal regista britannico.
Il cast, attentamente scelto per quest’opera, sembra nato per interpretare anche “canormente” i trentatré brani scelti per il musical: dal sorprendente Jim Sturgess, anch’egli partito dal teatro e con all’attivo svariati film indipendenti e che veste a pennello i panni dell’operaio nei sobborghi di Liverpool, a Joe Anderson, attore dallo spiccato senso dell’humor che rappresenta appieno quegli anni di rifiuto per una vita canonica e borghese. Plauso speciale va ad Evan Rachel Wood, strappata da Jim/Jude Feeny ad una vita ordinaria di provincia con spiccate doti canore: è lei la più combattiva del gruppo di amici. Il cast include anche veri musicisti come Martin Luther McCoy (che ricorda vagamente Hendrix e colpisce per una versione di Don’t Let Me Down) e Dana Fuchs (cantante molto conosciuta nell’ambiente underground newyorkese che infervora gli animi con Helter Skelter di Paul).
I Beatles non appaiono mai, ma accompagnano le vite dei personaggi, come accade per molte persone comuni anche oggi. L’idea di provare a riconsiderarli sotto quest’ottica è stata una faccenda alquanto rischiosa, anche perché in questi casi si rischia sempre e comunque di fare pomposo nozionismo che andrebbe a sporcare l’idea di base. Una storia d’amore, quella tra Jude e Lucy, che da Liverpool attraversa le sponde inglesi dell’Atlantico, per giungere alla scoperta non solo di un padre mai conosciuto, ma anche prospettive di vita migliori, dove soddisfare i suoi appetiti artistici.
Lo spettatore potrà ritrovarsi disorientato da tutto questo continuo movimento. E non mancano camei di un certo spessore, come Joe Cocker (con una interpretazione grandiosa di Come Together) o Bono Vox (con la Lennoniana I am the Walrus, all’epoca accreditata al duo Lennon/McCartney, ma che rappresenta forse il maggior picco compositivo dei Beatles). L’opera fluisce grazie alle canzoni, che amplificano la resa visiva e la rendono incisiva, ed ha come origine proprio la canzone Across The Universe, con una storia che nasce anni, se non decenni prima.
“Le parole scivolano via come pioggia infinita in una tazza di carta”: è questo che pensa John della prima moglie Cynthia, che a suo parere si dilungava troppo parlando di qualcosa. In seguito, dopo che quest’ultima andò a dormire, John descrisse le sue emozioni in un turbinio di parole, influenzata fortemente dalla passione condivisa con gli altri, (soprattutto da George), per la cultura indiana e la meditazione trascendentale. Grazie a questo trasporto associò al testo il mantra “Jai guru deva om”, che fa partire il ritornello. La frase in sanscrito significa “grazie ti saluto maestro divino”, e rappresenta una forma di gratitudine al Maharishi Mahesh Yogi di cui i Beatles furono discepoli, con in aggiunta la sillaba sacra dell’induismo Om (ॐ), saluto che viene impiegato dai praticanti della meditazione trascendentale.
In tutte le sue contraddizioni, come i disegni di Jude, con la fragola che può rappresentare un cuore palpitante o una bomba pronta a detonare, Across the Universe ci dona un biglietto di pace schietto. Alla fine tutto ciò di quello che abbiamo bisogno è amore, ed i Beatles e questo film ci provano ancora oggi, donarci quella piacevole sensazione di farfalle nello stomaco, quindi ben vengano pellicole così.