I fantasmi di Francis Bacon: l’uomo, la religione, la deformazione

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“Penso che l’arte sia un’ossessione per la vita, e dato che siamo esseri umani, la nostra più grande ossessione è quella per noi stessi.”

Francis Bacon

Partendo dalla definizione di figura da vocabolario va notato che s’intende per “l’aspetto esteriore in quanto definibile mediante descrizione o riferimento, o anche, in fisica, il particolare aspetto con cui si manifestano certi fenomeni”. Figura va intesa nel suo senso originario della finzione, sagoma e modellamento; nello specifico si affianca all’essere umano come corpo di carne e psiche insieme ma che ne è riproduzione, più o meno fedele, così come lo è un’immagine stampata, un disegno, una fotocopia digitale, una duplicazione bidimensionale o multidimensionale (la scultura in generale). Una figura non è quindi l’uomo ma un qualcosa creato dall’uomo a sua immagine e somiglianza, che sia essa interiore o esteriore o la fusione di queste insieme. Un artificio che distingue la realtà dalla non realtà, il possibile dall’impossibile, un’apparizione concreta che strizza l’occhio a una verità diversa che può essere rappresentazione simbolica o allegorica.

Bacon dal canto suo condanna a morte i caratteri canonici che si collegano all’idea della figura, quindi l’illustrazione e la narrazione, avvertendo i fruitori delle sue tele che ciò che hanno modo di osservare non solo non ha nulla a che vedere con l’illustrazione ma rappresenta l’esatto contrario, precisando puntigliosamente che “la forma illustrativa rivela immediatamente, attraverso l’intelletto, che cosa rappresenta, mentre la forma non illustrativa passa prima per la sensazione e solo in un secondo momento, lentamente, riporta alla realtà”. Contro la strenua ricerca dei pittori ottocenteschi o a lui contemporanei riguardo il bisogno di basarsi su un sistema narrativo, asserisce di voler evitare ad ogni costo che guardando un suo quadro si pensi all’esistenza di un qualche tipo di racconto narrato, addirittura ritenuto dal pittore come un modo edulcorato ma violento per uccidere il senso di un dipinto.

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Francis Bacon, Due figure, 1953

Spiegarsi come mai Bacon non approdi mai all’astrattismo è piuttosto semplice se si considera il sistema tra materia e soggetto come un rapporto di tensioni e conflitti: gli astrattisti avevano operato scegliendo una via tendenzialmente facilitata, eliminando il problema recidendo con ogni mezzo le immagini dalle loro tele prive di ogni rimando figurativo e privilegiando soltanto la materia, elevata a potenza a imporre se stessa come unica costituente della realtà. Ma per Bacon l’uomo, o la sua rappresentazione, la sua figura, dev’essere presente in modo equilibrato pur nel conflitto con la materia, e la tensione dev’essere necessariamente percepibile attraverso un sistema teso di forze, muscoli, intenzioni e leggi. La realtà si costituisce di due poli avversari che coabitano e coesistono nello scontro perpetuo tra materia e soggetto, e nella tela queste due entità dirompenti lottano e gridano, si squarciano e soffrono, si affrontano e i loro tessuti si compenetrano.

La lotta senza sosta pone l’uomo di fronte a ostacoli che tendono verso una sua insistente e ansiogena trasformazione che mai lo rende uguale a se stesso, un genere di metamorfosi a tutto tondo che non è solo fisica coi cambiamenti nel tempo e nello spazio, ma anche psicologica attraverso una serie di micro-rotture interne che crettano dall’interno il volubile animo umano in modo incontrovertibile.

Seguendo la scia del lavoro delueziano che in Logica della sensazione radica il suo discorso sui principi di contrapposizione tra potere e desiderio, la poetica di Bacon agisce sulla sottrazione venendo meno alla completa figuratività delle forme in un moto oscillatorio tra egemonia e brama.

Tutto si traduce in contrazioni e rilassamenti che hanno delle affinità con la sistole e la diastole della  pompa muscolare cardiaca, movimenti che strizzano e rilasciano le figure quasi imbottigliate in campiture piatte di colore come se queste volessero suggellare con le altre un rapporto simbiotico eterno e i corpi tendessero invece all’aspirazione contraria, cercando con tutte le forze di sfuggire alla prigionia.

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Francis Bacon, Studi per il Corpo Umano, 1975

L’ossessione, la dannazione della vita, immanente condizione umana imprescindibile ed eterna galleggia sulla superficie delle eteree rappresentazioni fantasmatiche delle tele baconiane, aprendoci uno sguardo sulla consapevolezza di una realtà concreta nella sua disperazione e nel tormento, e pure comunque effimera, intangibile, senza speranza.

Il corpo è una macchina complessa di muscoli, nervi, arterie e sensazioni multiple e stratificate, un meccanismo di ingranaggi mai statici (se non alla morte) che pompano e si contraggono, che schizzano e rintoccano, che aprono e chiudono in un’isteria di fluttuazioni e spostamenti incessanti. Così le figure di Bacon diventano spasmodiche, irrefrenabili, inadattabili e quasi schizofreniche: non riescono a darsi un contengo e non trovano pace in nessuna posizione spaziale, diventano acrobate e ginnaste, percorrono lo spazio con avida ricerca di stabilità e non trovandola si riducono a fasci di muscoli in tensione, teste che scattano come molle e bocche spalancate in preda a delle grida che non emettono alcun suono.

L’irrefrenabilità dei corpi e il loro continuo tormento nel non saper collocarsi nello spazio, che sia esso percorribile o psicologico, è trasposta nel migliore dei modi nelle serie dei trittici, che riescono a costituire una continuità emotiva e una maggiore esplorazione di intenti. Sono trittici non narrativi, non vogliono raccontare alcuna storia, eppure si legano tra loro con nessi di senso e una veduta d’insieme che inevitabilmente parla molto di se stessi, più di quanto non lo facciano i singoli ritratti. Questi rappresentano soggetti per lo più isolati e immobili (se non per le distorsioni facciali o le grida sorde che guardano non poco all’ Urlo di Edvard Munch), auto-emarginati o meglio alienati, con particolare attenzione alle figure religiose in termini esistenzialistici a sottolineare l’irriducibile isolamento e solitudine dell’individuo, paradossalmente anche quello legato alla comunità religiosa. È il caso del celeberrimo Studio dal Ritratto di Innocenzo X di Velasquez del 1953, un omaggio sinistro e angoscioso che Bacon offre al mito di Velasquez restituendo sulla tela una versione del Papa con sembianze di un uomo-fantasma terrorizzato e inchiodato alla sua poltrona come una sedia elettrica. L’evanescenza delle pennellate, tutt’altro che eteree, lo rende quasi trasparente e compenentrato all’ambiente e alla sensazione orrorifica che sta vivendo, affettato dall’alto da una fitta pioggia affilata di pennellate parallele questi spalanca la bocca del teschio facciale in un raccapricciante effetto di agonizzante disperazione.

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Francis Bacon, Studio dal Ritratto di Innocenzo X di Velasquez, 1953

L’immagine ci risulta ancor più potente e suggestiva per il soggetto preso in esame; chiuso in questa sorta di scheletrica gabbia psicologica il Papa sconcerta per la sua drammatica condizione che mai ci immagineremmo associata ad un’eminenza religiosa. Bacon rovescia gli antichi presupposti che vedono le figure di Chiesa come persone autoritarie e di grande forza spirituale e ce le pone adesso svuotate del loro ruolo d’investitura per mostrarle nell’essenza intima, quella che poi è tipica di ogni uomo imbevuto di autentica, disperante solitudine. Così Innocenzo X non è più l’austero uomo di fede e rappresentazione di Cristo sceso in terra che dipinge Velasquez, diviene un uomo tra gli uomini e uguale agli altri, con le stesse angosce, con quella profonda afflizione e immanente isteria. Bacon ha il potere di fustigare anche l’immagine di chi a sua volta in un certo qual modo fustiga la sua natura omosessuale e la sua libertà, rendendolo una creatura putrescente e decarnificata, priva di qualsiasi tono di purezza, ardore, aulica spiritualità. Perché la distruzione, per dirla alla Oscar Wilde, è un processo naturale e non condannabile quando si ama qualcosa, e la deformazione baconiana torna sempre nelle sue pitture come vessillo dello svelamento a una maggiore intensità delle immagini, a cui non viene recato un vero danno ma che piuttosto acquisisce un valore diverso

“So che per le persone religiose, per i Cristiani la Crocifissione riveste un significato totalmente diverso. Ma per me, non credente, è solo un atto del comportamento umano, un modo di comportarsi nei confronti di un altro”

Religione e alterazione dei corpi lo coinvolgono ancora nel suggestivo trittico di Tre Studi per Figure ai piedi della Croce del 1944, quando colloca tre figure fortemente deformate sino a renderle mostruose e quasi surrealiste su una campitura di sfondo arancione.

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Francis Bacon, Tre Studi per Figure ai piedi della Croce, Prima versione (1944)
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Francis Bacon, Tre Studi per Figure ai piedi della Croce, Seconda versione (1944)

Sono abomini in movimento che cercano un proprio assetto nello spazio e in attesa di una nuova, ennesima, trasformazione delle membra, tre aberrazioni molto simili nell’aspetto che si contraddistinguono per il colore emaciato e tumefatto dell’incarnato, dalle spalle pronunciate e dai colli molleggiati e oblunghi che avanzano serpenteschi spalancando voragini di fauci. La Crocifissione è un elemento di sofferenza per la comunità religiosa e questo dolore si riflette nelle tre Eumenidi che Bacon dipinge ai suoi piedi: la prima a sinistra china su se stessa sembra avvolgersi in un tormentato dolore viscerale, si raccoglie come una penitente e il suo urlo è silenzioso, interiore, la seconda al centro è resa cieca dal supplizio, grida esanime, non riesce più a vedere o si obbliga a non farlo perché ciò che ha davanti è terribile, la terza a destra ha il corpo teso in avanti in una contrazione muscolare che ne evidenzia anche il costato ed è quella che più sembra piegata dal dolore, con la bocca più che aperta e spalancata in un urlo disperato verso il cielo.

Tutte e tre malgrado l’apparente struttura amorfa e opinabile, denotano elementi appartenenti al corpo umano: l’orecchio, le fauci dentate, la chioma, le costole, il collo, la schiena, ma sono deformate in larga misura e rese mostruose, bizzarre deviazioni terrorizzanti della normale connotazione naturale dell’uomo. Ed è proprio il dolore, il patimento, a strappare via pezzi di carne e a spezzare l’assetto proporzionale delle figure; nella sofferenza e nel senso di profonda solitudine e abbandono, laddove niente sembra più rispondere a spiragli di serenità, il corpo si dimena e strepita cercando di esercitare controllo, ma fallisce e si esaspera, perde la luce, si rende cieco e non può darsi pace. La lotta col dolore diviene costante e disperante tanto da graffiare e macerare la pelle dall’interno, il corpo diviene una figura di se stesso ma una sua copia imbutita e sgraziata, eppure non per questo priva d’interesse emotivo, di senso e d’importanza. Empatia, sensibilità e sentimento sembrano essere le uniche vie salvifiche non tanto per sfuggire all’infelicità che è propria di ogni essere umano, teso nevroticamente alla ricerca di un qualsiasi barlume di piacere o benessere, quanto a collaudare la propria esistenza, a dargli un senso pratico e estetico.

Nonostante la fascinazione dell’aura tutta baconiana propria dei suoi fantasmi, il primo approccio a queste figure tanto disumanizzate da renderle aberrazioni, innesca un immediato senso di disagevole raccapriccio che evoca la suggestione di una scena violenta, spaventosa. Veniamo posti innanzi a una veemenza emotiva lontana da immagini esplicitamente crude (La morte di Marat di Munch o Saturno che divora uno dei suoi figli di Goya, per fare un paio di esempi), è una violenza interiore di fusione tra psiche e sangue impalpabile e impercepibile ma universalmente riconosciuta, condivisa, che scopre il fianco al mistero celato dietro la forma. Una forma comunque mantenuta seppur straziata e martirizzata da questa foga d’oppressione che cova ogni animo umano nella sua condizione di penosa fragilità, frutto maturo dell’eterna consapevolezza di un’atavica solitudine.

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Francis Bacon, Studio per Tre Teste, 1962

Tutta la pittura di Bacon nasce dal desiderio esistenziale ed esperienziale di recuperare la centralità dell’uomo, una sorta di Illuminismo moderno in cui l’immagine antropocentrica eleva l’ossessione per la vita, per la tenace angoscia conflittuale tra carne e spirito. Dalla tela muovono corpi sanguigni ed esangui che tirano le redini delle proprie individuali sofferenze cercando una tregua, un respiro e un riposo, si stagliano pezzi di carne smembrati, volti dilaniati, mutilati ed evanescenti sospesi in sottile limbo di corporeità materica e intangibilità fantasmatica volte ad esprimere quella inesprimibile sensazione istintuale. Le figure di Bacon sono corpi senza organi che nella loro disumana sofferenza non patiscono afflizioni corporee ma sensazioni, qualcosa che trascende i visceri e che diviene un pieno-di-tutto, un tutt’uno di niente.

Scrive Deleuze: La sensazione è un unità del senziente e del sentito; è corpo; è vibrazione. Come tali, vibrazioni e sensazioni impregnano i tessuti connettivi e rendono i corpi non più persone ma fantasmi, svuotati e diluiti nel loro far parte di una realtà comunque concreta che diviene solo campo di forze dove non esiste più alcuna forma di coercizione esterna: “È come il sorgere di un altro mondo. Poiché questi segni, questi tratti sono irrazionali, involontari, accidentali, liberi, casuali. Sono non rappresentativi, non illustrativi, non narrativi. Ma non sono né più significativi né più significanti: sono tratti asignificanti. Sono tratti di sensazione, ma di sensazioni confuse” (Deleuze, Logica della senzazione).

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Francis Bacon, Tre Studi per una Crocefissione, 1962

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