“Ridi, Pagliaccio”: quando l’opera abbatte il muro tra realtà e finzione

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Signore! Signori! Scusatemi
Se da sol mi presento. Io sono il Prologo.
Poiché in iscena ancor
Le antiche maschere mette l’autore,
In parte ei vuol riprendere
Le vecchie usanze, e a voi
Di nuovo inviami.
Ma non per dirvi come pria
“Le lacrime che noi versiam son false!
Degli spasimi e dei nostri martir
Non allarmatevi!” No. No.
L’autore ha cercato invece pingervi
Uno squarcio di vita.
Egli ha per massima sol che l’artista
È un uom, e che per gli uomini
Scrivere ei deve. Ed al vero ispiravasi.
[…]
Dunque, vedrete amar sì come s’amano
Gli esseri umani, vedrete dell’odio
I tristi frutti. Del dolor gli spasimi,
Urli di rabbia, udrete, e risa ciniche!
E voi, piuttosto che le nostre povere
Gabbane d’istrioni, le nostr’anime
Considerate, poiché siam uomini
Di carne e d’ossa, e che di quest’orfano
Mondo al pari di voi spiriamo l’aere!

È così che si apre Pagliacci, l’opera di Leoncavallo divenuta una delle rappresentazioni liriche più longeve e popolari della storia. Con quello che rappresenta un vero e proprio manifesto verista: “L’opera che sta per iniziare non ha niente di finto”, intende dirci Tonio. “La vita vera, con le sue tribolazioni, i suoi amori e le sue sofferenze, è la protagonista di questa vicenda.” Uno squarcio tra il mondo della finzione e il mondo della realtà che Pagliacci effettua a più riprese: gli attori che entrano in scena attraverso l’area riservata al pubblico, la rappresentazione del teatrino del secondo atto col pubblico rivolto verso di noi, persino la presenza di Silvio tra i posti a sedere, tutto in Pagliacci sembra urlare in maniera chiara: questa è la vita, non una versione edulcorata di essa che si usava trasporre in arte e letteratura fino a quel momento.

D’altronde il verismo era qualcosa che ormai viveva di vita propria negli anni in cui Leoncavallo pubblicava la propria opera. Ai tempi della sua prima, al teatro Dal Verme di Milano nel 1892, i precedenti erano ormai numerosi: non solo nel suo diretto precedessore, la Cavalleria Rusticana di Pietro Mascagni che rappresenta il vero avvento del verismo nella lirica, ma già nelle produzioni letterarie degli anni precedenti, con Luigi Capuana che parlava già di “poetica del vero” nel 1872 e Giovanni Verga che aveva già pubblicato le sue novelle veriste, I Malavoglia e la stessa Cavalleria Rusticana che ispirò l’opera di Mascagni. Non era niente di programmatico, e raramente i protagonisti di quel movimento si identificarono col movimento stesso. Era come se la realtà stessa spingesse per far sentire la propria voce contro tutto e tutti. Erano le condizioni sociali meridionali a reclamare attenzione, ed era arrivato il momento che anche l’arte facesse da megafono.

È quel che accade all’interno delle stesse vicende di Pagliacci: Canio stesso afferma sicuro nel primo atto che “il teatro e la vita non son la stessa cosa”, ma poi sono gli stessi eventi a contraddire la sua convinzione. Alla fine il muro tra realtà e finzione cadrà di fronte ai suoi (e ai nostri) occhi e il vero inganno della vita emergerà nel momento più tragico dell’opera, in una delle arie più amate della storia dell’opera lirica, quando il pagliaccio Canio è costretto a indossare la propria maschera e recitare di fronte alle proprie disgrazie. L’attore è così allineato con l’uomo del pubblico: se realtà e funzione diventano la stessa cosa, uomo vero e uomo rappresentato acquistano lo stesso punto di vista, e il messaggio dal palco si ribalta su di noi. Recitare, indossare la nostra maschera diventa così inevitabile per la sopravvivenza.

Vesti la giubba e la faccia infarina.
La gente paga e rider vuole qua.
E se Arlecchin t’invola Colombina,
Ridi Pagliaccio, e ognun applaudirà!
Tramuta in lazzi lo spasmo ed il pianto;
In una smorfia il singhiozzo e il dolore…
Ridi Pagliaccio, sul tuo amore infranto!
Ridi del duol che t’avvelena il cor!

In anticipo così alla poetica di Pirandello che entrerà in scena qualche anno più tardi, i Pagliacci diventiamo noi: l’identificazione tra attore e uomo ci trascina direttamente sul palco, e la tragedia della vita trascende la dimensione teatrale. Quando Silvio scatta in piedi dalla sedia accanto alla nostra e si precipita sul palco a soccorrere la morente Nedda, la maschera è definitivamente tolta. Ed è nostro il cuore trapassato dal pugnale.

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