Analizziamo la sequenza finale de Il Conformista di Bertolucci

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Per il cinema italiano è stato sempre molto difficile confrontarsi col ventennio fascista, con quella “infanzia della nazione” (come amava definirlo Fellini) verso cui prova sentimenti contrastanti: paura, rabbia, vergogna, imbarazzo, attrazione. Ad essere ritratta è stata quasi sempre la lotta partigiana, come per collegare con un sottile filo rosso di sangue e di socialismo un noi passato a un noi presente, per affermare così la bontà degli italiani brava gente, che il fascismo l’hanno subito, non certamente appoggiato. Le rappresentazioni della società civile italiana durante il fascismo sono davvero ben poche e il motivo appare abbastanza evidente: si prova lo stringente bisogno di recidere in qualche modo la continuità con quel passato così ingombrante, autoconvincendosi dell’identità totalmente altra dell’italiano fascista rispetto a quello democratico, liberale, democristiano prima e berlusconiano poi, della strettissima contemporaneità.

Non è sicuramente un caso poi che due tra i pochissimi ritratti della società civile dell’epoca siano stati realizzati da due dei nostri migliori registi: Federico Fellini e Bernardo Bertolucci. Fellini con Amarcord (1973) dipinge davvero l’affresco (o meglio, il fumetto, dato il particolarissimo modo di filmare con la macchina da presa immobile e la deformazione grottesca dei personaggi attraverso la luce e altri accorgimenti adoperati sul profilmico che danno davvero l’effetto della banda fumettistica) dell’infanzia di una nazione, e lo fa in maniera grottesca e imparziale, facendo emergere le solite  (e per questo ancor più pesanti) caratteristiche folcloristiche dell’italiano (piacione, sottomesso e dedito al divertimento): lo fa assimilando l’italiano degli anni ’70 con quello del fascismo, non recidendo la continuità tra passato e presente (e i futuri risvolti politici gli daranno incredibilmente ragione e mostreranno la sua onirica lungimiranza).

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Il ballo in maschera del fascismo.

Bertolucci con il suo Il Conformista (1970) addirittura precede temporalmente Fellini nella rappresentazione dell’Italia fascista. La storia è quella di Marcello, un uomo conformatosi completamente al governo fascista, che lavora per l’Ovra (la polizia segreta fascista) e ha il compito di uccidere il suo vecchio professore di filosofia, un antifascista emigrato a Parigi. Il protagonista viene seguito nella capitale francese dalla moglie Giulia, una piccola borghese sempliciotta e totalmente sottomessa al compagno (la classica donna borghese fascista, casa e chiesa, insomma, anche questo è simbolo di conformazione). Nonostante delle progressive titubanze, generate anche a causa dell’invaghimento da parte di Marcello verso la moglie del professore, il protagonista porterà al termine il proprio compito, anche se non direttamente: saranno i suoi colleghi a uccidere la coppia antifascista.

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L’architettura fascista che racchiude la follia.

Davvero esplicativa di tutto il senso del film (che è un’elaborata operazione di calco semantico dell’amato -da parte di Bertolucci- cinema classico hollywoodiano anni ’30, che si fonde in maniera dialettica con l’architettura fascista che con le sue rigide simmetrie diventa la vera protagonista del film), è la sequenza finale.

25 luglio 1943: cinque anni dopo i fatti di Parigi, Marcello è a Roma durante la caduta del fascismo. Il protagonista si appresta a uscire di casa ma la moglie lo frena riportando alla memoria l’uccisione di professore e consorte: Bertolucci riprende in figura intera, usando le mura della casa per esprimere nel profilmico la distanza emotiva tra  i due coniugi (abbiamo accennato all’importanza che Bertolucci dà all’architettura nel film). Giulia fa capire al compagno che lei è a conoscenza del suo lavoro per la polizia segreta fascista, e che sa che è stato lui il responsabile dell’omicidio, ma che non ci sono problemi in quanto evidentemente era “importante per la sua carriera“.

Marcello difendendosi dalle accuse diventa il simbolo di una nazione: afferma di aver soltanto portato a termine un ordine calato dall’alto, calato dallo Stato, e di essere dunque innocente. Il nazismo è forse stato maggiormente assorbito criticamente dalla popolazione tedesca anche grazie al caso Eichmann, che portò alla decisione di processare una persona nonostante avesse solo eseguito degli ordini, dando un peso capitale al libero arbitrio; l’Italia non ha mai avuto il proprio caso Eichmann, forse proprio per questo mancato confronto maturo col nostro passato è sempre mancato un rapporto critico col regime totalitario, che andasse oltre la totale demonizzazione o la cieca esaltazione.

Marcello dunque esce di casa perché vuole vedere coi propri occhi “come cade una dittatura“: la luce contrastata e dinamica (siamo in piena notte) dietegizzata attraverso i lampioni di un ponte e i fari di una macchina (che danno l’effetto di una sorta di ricerca e caccia nei confronti di Marcello), insieme al ronzio in sottofondo, rende bene la situazione psicologica del protagonista, rendendo il paesaggio della Roma fascista un paesaggio dell’animo, e connotando dunque il profilmico in maniera impressionista. Marcello sul ponte incontra Italo, anch’egli fascista ma cieco, e dunque gli dà aiuto e compagnia nella notte in cui tutto sta cambiando.

Passeggiando i due si fermano per ascoltare il dialogo di due ragazzi: uno dei due sta offrendo una cena al più giovane, probabilmente per portarlo a letto. Qui Marcello ha un vero e proprio flash: nella voce dell’adescatore riconosce l’autista che l’ha violentato da giovane, autista che però era convinto di aver ucciso (è proprio questa esperienza, unita allo strano rapporto col padre pazzo, che lo porterà a diventare un ingranaggio del fascismo). Allora il protagonista si scaglia su di lui e inizia a gridare:

“Cosa facevi il 25 marzo 1917?! Dov’eri il 15 ottobre 1938?!”

Il giorno della violenza sessuale subita e del (falso) omicidio, l’inizio della vita del protagonista (25 marzo 1917); la data dell’attentato omicida verso i due coniugi antifascisti (15 ottobre 1938): vedendo davanti ai propri occhi il fantasma del proprio passato, Marcello cerca di esorcizzare i propri delitti, cerca di purificare se stesso accusando il proprio passato di fascismo e pederastia. Quel “dov’eri il 15 ottobre 1938 (un giorno qualsiasi all’interno del ventennio fascista), pronunciato nella notte della caduta del regime, sembra poi più un generale una domanda rivolta a tutti gli italiani: dove eravamo in quel giorno? Abbiamo assecondato o ci siamo opposti al regime? Abbiamo combattuto dalla parte dei partigiani o dei fascisti? Perché prima della discesa degli americani abbiamo accettato di fatto la dittatura? Dove eravamo durante l’abrogazione delle leggi razziali contro gli ebrei (e contro omosessuali, zingari, praticamente qualsiasi entità non maschia, borghese e italiana)? Dov’eravamo dopo il delitto Matteotti? E durante la compagnia colonizzatrice ai danni dell’Eritrea, dove eravamo?

Bertolucci fa una domanda pesante a ogni italiano, Bertolucci obbliga ogni italiano a guardare dentro di sé e a riconoscere quell’altro non troppo diverso da sé: perché Mussolini non è morto, è ancora dentro di noi, e ci rimarrà finché non saremo capaci di guardare criticamente il nostro passato.

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L’indifferenza del fascismo.

Dopo le accuse di Marcello il violentatore scappa. Marcello non ha ancora finito di purificarsi però, e quindi accusa di fascismo Italo, il suo amico cieco; qui forse arriva uno dei più alti momenti del cinema di Bertolucci: una folla coi tricolori sguainati orgogliosamente, canta l’Inno di Mameli e travolge Italo, prima di sparire dietro l’angolo. La metafora è evidente: l’Italia nata dopo la caduta del fascismo ha portato dentro di sé il vecchio regime, incarnato dal cieco Italo (il cieco è simbolo del non saper vedere la realtà, ma solo delle immagini-simulacro totalmente soggettive, è simbolo dell’essere trasportati passivamente dagli eventi).

La catarsi di Marcello a questo punto è completa, dunque nella scena conclusiva egli può guardare da dietro delle sbarre il corpo nudo del ragazzo che stava per essere adescato dal molestatore: qui abbiamo forse l’accettazione di una latente omosessualità, ma soprattutto il ricongiungimento circolare col proprio passato, in un certo senso un ritorno all’inizio, suggellato da una canzonetta diegetica (proveniente da un giradischi) da cafè chantant, tipica della musica pop (inteso come popolare) nostrana.

Nella sequenza finale de Il Conformista (1970) Bertolucci ha la forza di guardare criticamente al proprio passato, anche se non diretto (il regista è nato nel 1941), e per questo l’operazione ha ancora più importanza: la generazione nata sotto il fascismo affronta criticamente i propri padri demistificandoli, perché affrontare il passato è l’unico modo per avere un vero futuro.

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