Il Macbeth di Roman Polanski come metafora del male assoluto

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L’intera opera di Shakespeare può essere considerata come la proiezione storica della nostra contemporaneità, non a caso molti saggi a riguardo (come Shakespeare nostro contemporaneo di Jan Kott) rafforzano tale concetto elevandolo alla base di ciò che rende Shakespeare ideologicamente vicino a noi. L’esempio più evidente è l’avvicinamento di Nelson Mandela al pensiero Shakeasperiano durante gli anni di prigionia a Robben Island, che influì moltissimo sulla rivoluzione Sudafricana.

Allo stesso modo di Mandela – seppur con maggior libertà – Orson Welles e Akira Kurosawa ebbero un approccio personale ai drammi shakespeariani realizzando due adattamenti del Macbeth: il primo nel 1948 girò un Macbeth molto vicino alla tradizione teatrale classica, il secondo nel 1957 realizzò Il trono di sangue (conosciuto anche come Il castello della ragnatela) ambientandolo nell’epoca giapponese classica e avvicinandolo ai dettami del teatro Nō.

Questi due lungometraggi, nonostante le idee registiche di Welles e Kurosawa, sono ancora legati agli stilemi teatrali ed è quindi conseguente una sorta di distacco tra l’opera ed il regista. Nel 1971 a riscrivere la storia di Shakespeare sul grande schermo ci penserà Roman Polanski, mettendo in scena la versione più cruenta del Macbeth. Lavorando per analogie tra l’opera, i personaggi e la vita del regista potremmo azzardare che Polanski non si limitò a rappresentare solamente un dramma shakespeariano, ma rispetto a Welles e Kurosawa riuscì ad annullare quella distanza che intercorre tra il regista e l’opera d’arte, così da rendere il suo Macbeth un’opera autobiografica.

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Il Macbeth di Roman Polanski

Nel 1968 Roman Polanski dirige Rosemary’s Baby, un dramma umano dalle tinte esoteriche che molto si avvicina alle opere di Shakespeare: un uomo assetato di fama vende il grembo della propria moglie ad una setta satanica costringendola a partorire il figlio del diavolo in cambio del successo che tanto bramava. Un anno più tardi – precisamente il 9 agosto 1969 – proprio nella villa di Polanski si consumò, per mano della setta di Charles Manson, uno dei delitti più brutali di Hollywood: a farne le spese sono Sharon Tate, moglie di Roman Polanski, che portava in grembo il figlio del regista e altre quattro persone amiche della coppia.

Questo evento non solo segna tragicamente la vita del regista – già segnata profondamente in tenera età durante la seconda guerra mondiale – ma diventa anche cesura di un’epoca. Sul finire degli anni sessanta che saranno ricordati per le rivolte libertine e per i figli dei fiori, Rosemary’s Baby diviene il film di rottura che anticipa la genesi del male e Charles Manson – come la più macabra rappresentazione terrena del maligno – ne raccoglie i frutti marci mostrando al mondo l’orrore e la crudeltà.

Arriviamo dunque al 1971 quando Polanski sente la necessità di tornare dietro la macchina da presa per esorcizzare il male che ha vissuto – il film come catarsi – e lo fa scegliendo il Macbeth di Shakespeare dove sono presenti tutti quegli elementi familiari sia alla poetica del regista: l’esoterismo, la crudeltà e infine la vendetta.

Ciò che compie Polanski è modellare Macbeth come metafora del male assoluto, cosa che metterà in secondo piano anche la figura di Lady Macbeth, fulcro centrale in altre rappresentazioni dell’opera. Ma come modifica questi elementi il regista? Innanzitutto mette in scena – mantenendosi fedele a Shakespeare – il passaggio dal Medioevo all’Età Moderna accentuando il carattere barbarico di questo passaggio storico e ricollegandosi perfettamente al passaggio sociale descritto prima che intercorre tra il decennio degli hippie e l’omicidio di Sharon Tate; successivamente elimina la prima parte della scena III dell’atto IV che vede Malcolm – figlio del re usurpato – discutere con Macduff, la cui famiglia è stata da poco uccisa brutalmente dai sicari di Macbeth. In quella scena traspare la profonda lucidità con cui il principe si prepara ad affrontare la guerra al tiranno, incarnando così i valori nuovi del suo tempo (la fede e la pazienza), operando nel presente e non lasciandosi soggiogare dell’entità esterna (cosa che fa Macbeth dando ascolto alle streghe che si prendono gioco di lui portandolo a modificare liberamente il proprio destino). L’esclusione di questa scena, attuata anche da Welles e Kurosawa, risulta fondamentale nell’economia del dramma shakespeariano, trattato socio-politico della propria epoca, e ci restituisce un’opera cinematografica che diventa metafora di un male tout court. 

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La violenza sanguinaria che ci mostra il regista polacco trova il suo apice nell’omicidio del Re Duncan per mano di Macbeth. Le differenze con Shakespeare sono notevoli e piene di significati: il drammaturgo inglese non descrive l’omicidio, non lo mostra; Polanski effettua un movimento contrario, partendo dall’insicurezza di Macbeth rivela la sua vera natura sanguinaria mostrandolo accoltellare nove volte il re, per poi tagliarli la gola mentre quest’ultimo giace a terra. Polanski caratterizza il periodo storico con un realismo fedele, in più trasmette ai propri personaggi una rabbia vendicativa figlia del proprio malessere interiore.

La scena più cruenta del dramma è tuttavia un’altra, che racchiude un doppio legame con la vita del regista: l’omicidio per mano dei sicari di Macbeth ai danni di Lady Macduff e della sua progenie. Polanski dissemina continuamente degli elementi che rimandano al proprio vissuto e in questo caso si immedesima con la figura di Macduff che – scappato in Inghilterra – lascia involontariamente la propria famiglia alla mercé del tiranno. Questa scena è racchiude due chiavi di lettura differenti: da un lato abbiamo l’assenza di Polanski e l’estremo rimorso del regista per non aver evitato la tragedia di Cielo Drive, dall’altro esce fuori un altro vissuto dello stesso che ha ispirato il cruento vandalismo dei sicari di Macbeth nella residenza di Macduff, ovvero quando durante la seconda guerra mondiale un ufficiale delle SS attuò una brutale perquisizione nella sua casa al ghetto di Varsavia.

Poco improntato alla speranza nella fede e nell’umanesimo, Polanski decide di far terminare l’opera con un tocco di genio: proprio come nell’originale, Macduff riesce a vendicarsi di Macbeth dopo un sanguinolento corpo a corpo e Malcolm riconquista il trono che gli spetta. Ma la convinzione del regista è che il male assoluto e la corruzione dell’uomo non avranno mai fine e – mentre una nebbia consistente pervade l’aria del paesaggio scozzese – Donaldbain, fratello di Malcolm, si accinge ad entrare nel covo delle streghe.

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Così Polanski fattosi doppio – regista e protagonista – vomita letteralmente le proprie emozioni sullo schermo per vendicarsi di Manson; fonde la violenza delle immagini e la violenza della parola ricostruendo uno critica sociale di quegli anni bui attraverso un parallelismo tra l’epoca medievale e il presente, tra il dramma e il suo vissuto, riuscendo a rinnovare il rapporto universale che abbiamo con Shakespeare.

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