Perché oggi è importante riscoprire Bertolt Brecht e il suo Madre Coraggio

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“La pace è solo disordine; non c’è che la guerra a metter ordine. In tempo di pace l’umanità cresce in modo incontrollato”.

De-politicizzazione. Diamo un fugace sguardo al nostro caro adorato Occidente: Trump, Brexit, Marine Le Pen arrivata a un passo dal governo francese (così come l’estrema destra in Germania). Poi ci siamo noi e la strana allenza Lega-M5S, il movimento di estrema destra Alba Dorata in Grecia, gruppi neonazisti in perenne ascesa in Svezia e in Austria. Tutte queste esperienze politiche hanno un chiaro minimo comune denominatore: il populismo, populismo che attecchisce in maniera sempre maggiore su una società preoccupantemente de-politicizzata, in particolar modo nelle sue fasce giovanili.

Apparente benessere, mancanza di guerre sul proprio territorio, de-mitizzazione del comunismo: questi sono con ogni probabilità i macro-fattori che hanno generato un sostanziale disinteresse verso i fatti politici della maggioranza dei giovani occidentali, che si è tradotta in un semi-collasso dei movimenti politici universitari (vedi i fatti di Bologna del 2017) e più in generale nella morte definitiva di una stagione dell’impegno che sembra ormai davvero lontana ere geologiche, nella ferrea convinzione di un “innegabile progresso sotto gli occhi di tutti” che porta ad apprezzare l’attuale mediocrità come una conquista. E invece le sacche di povertà stanno ritornando ad aumentare vertiginosamente (causa basilare del populismo dilagante), la guerra non è combattuta sul nostro territorio ma appena a qualche miglio di mare più a Sud e forse il comunismo a livello ideologico può essere ancora interpretato in maniera utile.

Mancano punti fermi, è inutile negarlo. Soprattutto in Italia sembra davvero ormai tramontata la figura dell’intellettuale “impegnato”, dell’artista che attraverso le proprie opere cerca di gettare le basi per un mondo migliore. È per questo che mai come oggi può essere utile riscoprire Bertolt Brecht. Intellettuale, drammaturgo, saggista, regista: Brecht dopo il ritorno in Germania coincidente con la caduta del nazismo è stato una figura cardinale della cultura novecentesca, tramite il suo rivoluzionario teatro epico.

Siamo abituati a giudicare un buon film o una buona opera teatrale dalle emozioni che provoca dentro di noi: se quello che vediamo e ascoltiamo ci entra dentro, ci fa immergere totalmente nella realtà altra dello spettacolo, ci fa dimenticare del mondo in cui viviamo per un paio d’ore di svago; se quello che vediamo e ascoltiamo ci fa piangere, ridere, soffrire, amare, allora siamo portati a pensare che siamo di fronte ad un’ottima opera d’arte. Per Brecht non è così. Siamo chiari, il regista tedesco non respinge l’emozione nella sua totalità, ma l’emozione immotivata. È per questo che al teatro drammatico egli oppone il suo teatro epico e un nuovo tipo di interpretazione drammatica: lo straniamento.

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Bertolt Brecht e “il sigaro in bocca”

Facciamoci spiegare dallo stesso Brecht in cosa consiste questa nuova tecnica:

“Il testimone oculare di un incidente stradale mostra a un assembramento di gente com’è capitata la disgrazia. […]. Ciò che conta è che il dimostratore rappresenti il comportamento dell’autista o del pedone investito in modo tale che gli stanti possano farsi una propria opinione sull’accaduto. […]. Egli non deve ammaliare nessuno. […]. L’elemento distintivo è che nella nostra scena di strada manca una delle caratteristiche di base del teatro corrente: l’illusione. Il Teatro non nasconde più la propria natura di teatro, così come la dimostrazione per la strada non nasconde la propria natura dimostrativa (cioè non pretende di essere l’evento).”

Dunque “straniare vuol dire storicizzare“, annullare l’illusione: mostrare un evento per quello che è. Il teatro epico così fa dello spettatore un osservatore “col sigaro in bocca“, costringendolo a prendere partito attraverso una narrazione (e non un’azione) al cui fondamento c’è la ratio e non il sentimento. Il teatro smette dunque di cercare di rendere l’illusione della vita reale e smaschera la propria natura: Brecht abbatte la quarta parete, spezzetta l’azione con qualsiasi tipo di intermezzo (soprattutto con canzoni che cozzano completamente con quanto rappresentato), non occulta le fonti di luce, si affida a una scenografia con pochissimi e scarni elementi, e sopratutto oppone alla struttura lineare causa-effetto il montaggio, ovvero una struttura drammaturgica a blocchi in cui ogni parte è autosignificante e si oppone dialetticamente alle altre (pesante eredità del teatro espressionista dell’ultimo Strindberg).

Tutti questi procedimenti drammaturgici raggiungono il loro apice in Madre Coraggio, scritto durante l’esilio in Svezia nel 1939 ma messo in scena dallo stesso Brecht solo nel 1949 nel suo nuovo teatro personale: il Berliner Ensamble. La pièce è ambienta durante la Guerra dei Trent’anni, che dilaniò il territorio europeo tra il 1618 e il 1648: già dall’inizio abbiamo uno scisma enorme col teatro classico e con le sue regole; il teatro aristotelico infatti si regge su unità di tempo (ventiquattro ore), di luogo e di azione, tutte leggi totalmente scardinate da Brecht, che ambienta le sue dodici scene (“Il petrolio recalcitra contro i cinque atti“) ad anni di distanza e in luoghi diversi, con due soli costanti: Madre Coraggio e il suo carro.

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La Coraggio è una vivandiera, una piccola capitalista che nella guerra ha trovato una grande e paradossale forma di guadagno; ella è un personaggio lacerato tra gli affari e il suo essere madre di tre figli, Schweizerkas, Eilif e Kattrin, tutti avuti da uomini diversi. La lacerazione è evidente quando la protagonista di fatto causa la morte di Schweizerkas trattando fino all’ultimo sul prezzo del suo riscatto, o quando porta involontariamente alla fine anche la figlia muta Kattrin, lasciandola sola durante l’invasione di una città.

Madre Coraggio è insomma un personaggio sostanzialmente negativo, nonostante lo spettatore sia portato a una naturale simpatia nei suoi confronti. Madre Coraggio è un personaggio che non impara dai propri errori e che fino alla fine pensa solo e unicamente al proprio tornaconto personale. Ma il punto è proprio che Brecht non vuole che sia il proprio personaggio a capire, ma che lo facciano gli spettatori. Per portare lo spettatore a un ragionamento, il regista adotta una quasi maniacale cura dei piccolissimi dettagli: esempio lampante ne è una singola mossa fatta ripetutamente da Helene Weigel, interprete della Coraggio, nonché moglie di Brecht. Ogni volta che Madre Coraggio porta a termine un affare, la Weigel fa sentire ben distintamente al pubblico il suono del denaro nella borsa di pelle che porta in vita: costantemente, persino quando consegna il denaro necessario per il seppellimento della figlia. Con questo semplice gesto, la Weigel fa capire allo spettatore che il suo personaggio non dimentica il calcolo neppure nel momento del dolore: in questo modo la guerra non appare un destino immutabile, ma una cosa concreta, una rete inestricabile di piccole e grandi imprese. In questo modo la Weigel fa del proprio personaggio non una semplice vittima, ma una complice della guerra:

“Se della guerra vorrà campare, qualche cosa le dovrà dare.”

Ma l’incredibile modernità di Brecht non sta solo nella sua abilità di regista, ma (forse soprattutto) in quella di drammaturgo. Uno degli espedienti più celebri e rivisitati di Madre Coraggio (basti guardare a Dogville di Lars Von Trier) è l’inserimento di brevi didascalie all’inizio di ognuna delle scene che sintetizzano il contenuto del blocco drammaturgico. Così facendo il nativo di Augusta azzera dunque totalmente la suspence in uno spettatore che sa già quello che succederà e di conseguenza “col sigaro in bocca” può dedicarsi totalmente all’interpretazione dell’opera. Brecht fa cozzare tra di loro le dodici scene, creando un processo dialettico: valga per tutti il contrasto tra la sesta e la settima scena. Alla fine della sesta scena Madre Coraggio ha per la prima volta un momento di abbattimento malinconico dopo la morte di Schweizerkas:

“Per me il momento storico è che han ferito la mia figliuola. È già mezza rovinata, marito non lo troverà più, e va così matta per i bambini, e se è muta è anche per via della guerra, quand’era piccina un soldato le ficcò qualcosa in bocca. Schweizerkas non lo rivedrò più e dove sia Eilif, lo sa Iddio. Maledetta guerra.”

Peccato che il momento da Libro Cuore della Coraggio venga immediatamente spazzato via dalla sua prima battuta all’inizio della settima scena:

“Non permetto, io, che mi guastiate il piacere della guerra. Dicono che distrugge i deboli; ma quelli crepano anche in tempo di pace. Però la guerra, la sua gente, la nutre meglio.”

Secondo Brecht dunque le guerre non vengono combattute in nome di un Dio o di una Patria, ma sono “semplicemente” la prosecuzione di affari capitalistici e utilitaristici: la guerra insomma non abbandona mai il teatro del mondo, ma ne è un soggetto costante, così come la Coraggio ed il suo carro (sempre più distrutto, ma perennemente presente). Questo messaggio è affidato perfettamente alle parole del cuoco, uno dei personaggi che si affastellano intorno alla Madre Coraggio/umanità, ma che alla fine la lasceranno irrimediabilmente sola:

“Vorrei dire che la pace esiste anche in guerra, che la guerra ha certi suoi luoghi pacifici. Perché la guerra va incontro a tutte le esigenze, anche quelle pacifiche […]. E che cosa ti impedisce di aumentare la tua specie in mezzo a tutto questo macello, dietro un granaio o in qualche altro posto? Non possono mica impedirtelo, a lungo andare, e così la guerra avrà i tuoi rampolli e potrà continuare con loro. No, no, per carità, la guerra trova sempre una via d’uscita, figurati!”

Il teatro di Brecht ha vissuto un andamento che potremmo definire sinusoidale per quanto riguarda l’apprezzamento di critica e pubblico: i suoi picchi di popolarità sono stati inevitabilmente condizionati dall’alternanza delle stagioni di impegno politico. Nonostante ciò, il drammaturgo non ha mai amato definire il proprio teatro “politico” (termine col quale invece a ragione definiva il teatro di propaganda socialista del suo amico e collega Erwin Piscator). Brecht non ha mai opposto propaganda a propaganda. Il suo teatro epico nasce dalla stringente necessità di opporsi alla propaganda nazista hitleriana, il suo teatro epico nasce dalla stringente voglia di portare la società a pensare, a guardare criticamente la realtà: Brecht alla propaganda oppone l’interpretazione.

In un periodo in cui l’estrema pervasività dei mass media ha portato ad una ricezione sostanzialmente passiva di una omologata cultura di massa i cui limiti con la cultura alta appaiono ormai sempre più labili, il messaggio di Brecht appare dunque incredibilmente attuale, proprio perché storico, esattamente come la sua tecnica dello straniamento: qui non parliamo semplicisticamente di ideologia comunista, qui parliamo di un incredibile artista che ha cercato (e forse trovato) la chiave interpretativa per rendere davvero lo spettacolo teatrale, che è poi l’arte sociale per eccellenza, un luogo in cui formare a livello sociale, civile e politico la società. Ed è proprio perché oggi abbiamo un disperato bisogno di un’interpretazione attiva e critica della realtà che ora più che mai è importante riscoprire Bertolt Brecht e il suo Madre Coraggio.

“Ma ammucchiando montagne su montagne, s’accorsero quanto pesava anche solo un cappello di paglia.”

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