Songs of Faith and Devotion, il capolavoro oscuro dei Depeche Mode

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Dopo aver salutato gli anni 80 con l’eccellente Music For The Masses ed essere entrati a gamba tesa nel nuovo decennio con Violator, i Depeche Mode sembravano destinati a non incontrare più ostacoli nel loro cammino: d’altra parte cosa poteva accadere loro, ormai star assolute delle scena pop?

Dopo diciotto mesi di separazione, i Depeche Mode che si riunirono nel 1992 per le incisioni di Songs Of Faith And Devotion erano attraversati da tensioni e problemi che sarebbero deflagrati di lì a poco: mentre Martin Gore, Alan Wilder e Andrew Fletcher erano più o meno tornati alle loro vite da comuni mortali, Dave Gahan era entrato nella spirale dell’eroina, che pian piano l’aveva completamente avvinghiato. L’incontro con il cantante sconvolse gli altri membri della band, che si trovarono di fronte un uomo profondamente cambiato sia dentro che fuori, magro, pieno di tatuaggi e più fragile.

L’idea di ricreare un ambiente “familiare” e di far vivere assieme il gruppo durante le sessioni di registrazione non si rivelò felice, esasperando una situazione che evidenziò i problemi di relazione e rese i rapporti tra i Depeche Mode più tesi di quanto ci si potesse aspettare.

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I Depeche Mode nel 1993

Alan Wilder, da sempre direttore musicale del gruppo, era il più frustrato di tutti, soprattutto perché avvertiva meglio degli altri quanto certi atteggiamenti minassero la serenità e la produttività della band: Gahan, seppellito nel suo delirio tossico, era deluso dal sentirsi giudicato dai suoi compagni; Gore, schiacciato dalla responsabilità di scrivere brani all’altezza di Violator, stava scivolando nell’alcolismo e si mostrava passivo in studio; Fletcher subiva la situazione e lo stress di dover tenere in piedi i sempre più freddi rapporti tra Wilder e Gore.

Anche Flood, chiamato a produrre Songs Of Faith And Devotion, rimase segnato dall’esperienza in studio con i Depeche Mode (ingabbiati in uno stallo comunicativo e fin troppo divisi), tanto da non voler più lavorare in seguito con loro: ma intanto l’album doveva essere inciso e in qualche modo scoccò la scintilla che mise in moto il processo creativo.

Le differenti influenze che Gahan, Gore e Wilder avevano immagazzinato negli ultimi mesi li avevano portati ad avere visioni sostanzialmente diverse e poco organiche di come dovesse svilupparsi Songs Of Faith And Devotion: la prima canzone a venire registrata fu la dolorosa e straniante Walking In My Shoes, in cui fu impresso l’estetismo pop di Gore, la voglia di rock di Gahan e la cupa solennità di Wilder, confluiti poi nel sound che marchiò il disco.

Il graffiante e acido riff della blueseggiante I Feel You apre l’album e mette subito in chiaro quanto sia diverso e contaminato il discorso musicale dei Depeche Mode, che svariano anche dal gospel con Condemnation, all’industrial rock con Rush e Mercy In You, fino all’evocazione orchestrale con One Caress.

L’inquietudine tragica di Higher Love e di In Your Room (due splendide perle del disco) innalzano ulteriormente il tasso lugubre di questo album che, per quanto Gore abbia sempre negato, sembra scolpito addosso all’emaciata e sconvolta figura di Gahan, caricatura della star autodistruttiva e sempre più vicina al punto di non ritorno.

Gli unici punti deboli di Songs Of Faith And Devotion sono la fiacca Judas e la scontata Get Right With Me, che suona come una b-side, se paragonata agli altri brani: ma il miracolo realizzato dai Depeche Mode sta proprio nell’aver ridotto al minimo questo tipo di brani, riuscendo a realizzare forse il loro lavoro migliore.

Il tour organizzato per promuovere l’album mostrò la band in gran forma (e il video Devotional resta un prezioso documento di questo periodo), ma nonostante il successo dell’album i mesi in viaggio (e gli eccessi collaterali) inasprirono ancora di più problemi e tensioni: Fletcher a un certo punto abbandonò il gruppo per curare un esaurimento nervoso, mentre il suo rapporto con Wilder, sempre meno accomodante nei suoi confronti, era ai minimi storici; Gore sembrava non rendersi conto di quanto l’alcol stesse diventando un problema; Wilder era deluso e insoddisfatto, sentendo poco riconosciuto il reale valore del suo contributo all’interno del gruppo; Gahan accellerò la sua caduta nella tossicodipendenza.

Nel giugno del 1995 Alan Wilder lasciò ufficialmente la band, non riconoscendo più nei Depeche Mode lo stesso entusiasmo degli inizi e la comunione d’intenti tra i componenti: soprattutto il pessimo stato di Gahan (che ricevette la notizia via fax, non essendo reperibile per l’annuncio dell’ormai ex tastierista) e i logorati rapporti con Gore e Fletcher lo convinsero che la parabola del gruppo fosse ormai giunta al termine.

Martin Gore non fece molto per fermarlo, avallando la sensazione che ormai l’avventura dei Depeche Mode fosse compromessa: se se ne andava l’elemento che più di tutti si era speso per l’unità della band (di cui era anche l’anima musicale), cosa gli restava da fare  con un cantante tossico dalle manie suicide e un comprimario spesso incapace di gestire lo stress?

Le risposte non sarebbero tardate ad arrivare e i Depeche Mode sarebbero tornati con Ultra, mettendosi alle spalle il loro periodo peggiore e quel capolavoro cupo e doloroso che fu Songs Of Faith and Devotion.

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Luca Divelti scrive storie di musica, cinema e tv su Rock’n’Blog e Auralcrave. Seguilo su Facebook, Twitter e Telegram.

 

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