Icarus: una parabola sul controllo della realtà

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In un tempo come il nostro, dove i principali poteri, le istituzioni e le maggiori forze economiche e politiche detengono un potere di controllo sui media e su ciò che viene pubblicato nelle prime pagine dei quotidiani, sembra a volte fantasiosa e di natura complottistica l’idea che uno Stato possa deformare volontariamente la realtà a suo gradimento, per compiacere i propri scopi e i propri interessi. Agendo per vie traverse che appoggiano la loro mano invisibile in differenti settori, come anche lo sport, ci sembra di rivivere la profetizzante storia di George Orwell in 1984, una storia che sarà lo scheletro di questo documentario premio Oscar, Icarus, diretto dal regista statunitense Bryan Fogel (Jewtopia, 2012).

Icarus, documentario distribuito su Netflix e vincitore del premio Oscar come miglior documentario, è il resoconto completo dello storico scandalo del doping che colpì la Russia nel 2015, con la sua conseguente esclusione dalle Olimpiadi di Rio de Janeiro del 2016 e quelle invernali di Pyeongchang del 2018. Inizialmente non doveva essere il punto focale del documentario, ma una serie di fortuite circostanze e incontri tra i personaggi di questo scandalo ha fatto si che si potesse delineare e costruire man mano l’inchiesta che svelò i raggiri, la corruzione e i tentativi di insabbiamento di una potenza mondiale come la Russia riguardo al doping e ai propri atleti compromessi dallo scoop.

Bryan Fogel non è solo un cineasta ma anche un ciclista amatoriale che nel 2014 aveva un sogno, partecipare alla grande “Houte Route”, una delle più toste e importanti gare per ciclisti amatoriali del mondo. Ci partecipò e corse più che poteva, dando il massimo nelle varie tappe della gara, tra strade che portavano a vette altissime e a luoghi spettacolari. Il suo obiettivo era arrivare tra i primi cento. Si piazzò quattordicesimo quell’anno. Fogel in seguito, anche per quanto capitato a Lance Armstrong negli anni precedenti, pone la sua attenzione su quello che sarà il nucleo fondamentale del suo film: indagare sul sistema antidoping mondiale e sulle modalità di falsificazione dei test a favore di quegli atleti che fanno largo uso di sostanze potenzianti.

In seguito alle dichiarazioni dello scienziato Don Catlin, creatore e sviluppatore di alcuni test antidoping nel Laboratorio Antidoping dell’Università della California a Los Angeles (UCLA Olympic LAB), in cui dichiara che “con certi accorgimenti si può falsare il risultato del test”, “è facile alterarli” e che “tutti si dopano”, Fogel capisce che perché questo meccanismo di falsificazione dei dati potesse funzionare era necessario che qualcuno mettesse le mani tra questi affari, qualcuno di straordinariamente potente. Decide quindi di provare che il sistema è corrotto e che questo genere di imbrogli capitano più spesso di quanto se ne parli attualmente. Per dimostrare un’accusa di questo livello è quindi necessario mettere a disposizione anima e corpo nel suo piano, ovvero quello di affrontare un programma di doping su sé stesso, per poi dimostrare di poter riuscire a risultare negativo ai test.

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Bryan Fogel in Icarus

È qui che si incrocia la vita del regista con quella del Dr. Grigory Rodchenkov, l’allora direttore responsabile del laboratorio antidoping di Mosca, che tramite una serie di chiamate via Skype forniva dettagliate istruzioni sul programma che Fogel doveva seguire, indicando i medicinali da utilizzare (quali somatropina e testosterone) e la quantità di iniezioni da effettuare per potersi potenziare il fisico. Il documentario procede con la nuova routine che il ciclista deve seguire, tra chiamate con Rodchenkov e campioni di urine posti nel frigorifero. Il rapporto tra i due diventa sempre più amichevole e l’attenzione si sposta sempre più al lavoro di Rodchenkov fino quando nel film prende una posizione ingombrante l’inchiesta della WADA (World Anti-Doping Agency) che segue le vicende riguardanti la Federazione russa e la criminalità nell’ambito dello sport, della quale Rodchenkov sembra essere uno dei principali sospettati e che butta una un’ombra sulla nazione Russa e sui suoi capi.

Si scoprì che moltissimi atleti russi, con l’aiuto delle autorità statali, avevano partecipato alle Olimpiadi di Pechino e Londra con rapporti e test antidoping falsificati. Rodchenkov in qualità di direttore del laboratorio più avanzato per questo genere di analisi a Mosca, diviene figura chiave di questa storia di spionaggio in cui l’unico problema è il sopravvivere allo smascheramento di tutte quelle falsità che si protrassero fino a quel momento. Ammette quindi di aver sostenuto questo piano di dopaggio e di manomissione dei dati con altri colleghi e con l’appoggio delle autorità russe. In seguito allo scandalo e alle dichiarazioni del dottore la vicenda diventa sempre più fitta e ansiosa, e Rodchenkov, sentendosi in pericolo in Russia, chiede ospitalità a Fogel (d’accordo con i produttori del documentario) negli Stati Uniti. Arrivato negli USA inizierà a confessare tutto al New York Times e alla WADA sul programma doping russo Sochi Resultat, rivelando le modalità di falsificazione dei risultati e i protagonisti di questo scandalo tra cui il servizio di intelligence russo FSB (l’ex KGB) e facendo nomi quali quello di Putin e del ministro dello sport russo Vitaly Mutko.

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Grigory Rodchenkov e Bryan Fogel

Rodchenkov sviluppò un mix di doping contenente alcuni farmaci e del liquore che permetteva di conseguire un esito negativo nei test. Inoltre si scoprì che durante le Olimpiadi invernali di Sochi nel 2014 la Russia attuò un sistema di scambio delle urine degli atleti con la complicità di un agente del FSB che, frequentando numerose volte il laboratorio di Rodchenkov, cercava di scoprire come aprire le bottigliette contenenti il fluido senza rompere il sigillo che ne garantiva l’autenticità. Il traffico di urina “sporca” con quella “pulita” avveniva la notte. Tramite un buco sul muro del laboratorio antidoping di Sochi venivano scambiate le boccette per ordine del ministero dello Sport, il quale forniva le liste con i nominativi degli atleti, il tutto sotto la supervisione del FSB. Le vicende proseguiranno con la paura delle conseguenze di queste dichiarazioni e del materiale raccolto da Fogel. Alla famiglia di Rodchenkov, rimasta in Russia, verranno requisiti i passaporti e Putin, negando ogni dichiarazione, definirà le parole dello scienziato come “calunnie di un traditore”.

La sanzione del Comitato Olimpico Internazionale (CIO) in seguito allo scandalo mondiale sarà esemplare per la Russia, bannandola come nazione dalle ultime olimpiadi e permettendo agli atleti russi di partecipare solo in qualità di “atleti olimpici dalla Russia” sfilando senza bandiera e senza divisa.

Rodchenkov è tutt’ora all’interno di un programma protezione testimoni e la sua famiglia è ancora confinata in Russia.

Il documentario, nella durata di due ore, ripercorre una vicenda facilmente confondibile con un film di spionaggio o d’azione, anche per la dinamicità delle riprese, il montaggio e il sonoro, ma ha l’intento di far conoscere e fa sapere a tutti noi che non siamo poi così lontani dalle storie raccontate nei libri gialli, in un tono incalzante e arricchito da infografiche essenziali alla spiegazione. Rodchenkov durante le riprese cita spesso frasi tratte dal libro 1984 evidenziandone le analogie con il governo russo, di cui lui non si fida e che ora lo perseguita. Il personaggio dello scienziato non è un eroe dei tempi moderni, ma è una persona come tante che messa alle strette ha deciso di fare la scelta giusta per un bene superiore, nonostante ciò cui poteva andare incontro. È bene ricordare allora le parole dello stesso Orwell a riferimento di quel mondo distopico che tanto sembra somigliare al nostro: “nel tempo dell’inganno universale, dire la verità è un atto rivoluzionario”.

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