Quando Kurt Cobain incontrò William Burroughs: “The Priest they called him”

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Venticinque anni fa il mio amico immaginario si chiamava Kurt. L’amico immaginario di Kurt, all’inizio degli anni ’70, si chiamava Boddah. Fu a lui che indirizzò la lettera che scrisse poco prima di morire suicida (?) il 5 aprile del 1994. Non avevo ancora compiuto dieci anni, ma ricordo perfettamente il tg di Video Music che in tarda mattinata annunciò la morte di Cobain. Appresa la notizia mi guardai attorno spaesato, quel mattino m’ero svegliato con la febbre ed ero stato a casa a giocare con Kurt. Ma il mio amico immaginario, ora, era sparito, e dalla tele una lancinante Heart-shaped box faceva da sottofondo alla voce di un tale che ripercorreva lacrimoso la biografia di Kurt, dall’infanzia ad Aberdeen fino all’ineluttabile tragica fine in quel di Seattle. Piansi e mi trovai solo, nel bel mezzo di quei superbi ’90. Divenni grande quel giorno. “Sun shines in the bedroom when we play/ the raining always starts when you go away”.

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Qualche anno dopo, credo in terza liceo, lessi per la prima volta On the Road di Kerouac, avvicinandomi così al movimento della beat generation. Ginsberg, Corso, Ferlinghetti e infine Burroughs. Lo chiamavano “il Prete”, Burroughs, per via del vestire classico, sempre di nero, in redingote e cappello, elegante e “pulito”. Apparteneva alla generazione precedente a quella della maggior parte degli esponenti della beat generation, movimento piuttosto eterogeneo per contenuto e stile, ma in qualche modo accomunato da un certo menefreghismo nei confronti del dress code. Anche se la parvenza in qualche modo lo negava, dunque, fu probabilmente l’autore più estremo di quell’orda di letterati fuori dagli schemi, per stile di vita e di penna. Visse mezzo secolo ai margini dell’esistenza, nomade per il mondo, tra abissi di degrado morale e fisico, riservato al limite della paranoia, schivo più di Kerouac e più tossico di tutta la beat generation messa assieme: un lupo solitario in continua e poliartistica sperimentazione creativa, al soldo di nessuno. Di famiglia aristocratica e ricca si era laureato alla Harvard University, per poi iniziare un’esistenza totalmente al di fuori degli schemi, il cui evento più tragico fu senz’altro l’omicidio della moglie, avvenuto il 6 settembre del 1951, in un gioco alla Guglielmo Tell riuscito male.

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Ora, se vi state chiedendo il motivo per cui io abbia introdotto -senza un apparente filo logico- questi due mostri sacri, vi dirò che in verità è molto semplice: le loro esistenze si incrociarono nell’autunno del 1992. O meglio, si potrebbe affermare che in quell’occasione ad incontrarsi furono esclusivamente le loro creatività da underdogs, visto che di persona si sarebbe conosciuti solamente un anno dopo. Nel 1992 collaborarono infatti a distanza alla realizzazione del singolo The priest they called him, un brano registrato in luoghi e tempi differenti, in cui Cobain offre alla voce spigolosa di Burroughs un folle tappeto sonoro, fatto di chitarre rugginose e imprevedibili, accompagnate da giungle di furia ovattata e dissonante. Qua e là spunta qualche melodia nota, parodiata, scheletri di canzoni natalizie rese sinistre da lancinanti distorsioni. La chitarra di Cobain si aggrappa moribonda e sghemba alla voce di Burroughs, apparentemente senza senso o direzione alcuna. Rumore, direbbe qualcuno. Eppure un senso c’è, perché il reading di Burroughs sembra non chiedere altro che questo: paura e delirio. Era stato Kurt, fan di Burroughs da che avesse memoria, a richiedere al vecchio quella collaborazione, certo spinto dal sentore di una qualche affinità elettiva tra i due.

Il rapporto, nato con la registrazione di questo brano e proseguito in pratica fino alla morte di Cobain, culmina nell’ottobre del 1993, con l’incontro tra i due a Kansas Lawrence, dove Burroughs viveva in ritiro dal 1981. Quattro foto ritraggono quei momenti (foto perse per lungo tempo e ritrovate poi da Courtney Love): Burroughs ha quasi ottant’anni, si poggia ad una canna per camminare, è visibilmente debilitato, sfibrato. Cobain gli cammina accanto, in jeans, t-shirt e camiciona grunge. Un’altra foto li ritrae invece all’interno dell’abitazione del vecchio, intenti alla lettura di qualcosa di non meglio definibile. È questo un incontro tra due icone maledette, tra il grunge di Seattle -onda intramontabile- e la beat generation delle sterminate lande americane, suggellato in qualche modo da un certo approccio esistenziale, filtrato e raffinato dalla droga che circola nel corpo dei due artisti (Burroughs sarà sotto metadone fino alla morte). I Nirvana, in tour per presentare l’album In Utero, uscito per la Geffen poche settimane prima, si trovano a passare dal Kansas, e Kurt non può non sfruttare un’occasione tanto ghiotta. Burroughs, dal canto suo, dopo aver rifiutato la proposta di Cobain di partecipare al video di Heart-Shaped box (avrebbe dovuto essere lui, nell’immaginazione di Kurt, il vecchio inchiodato alla croce all’inizio del brano), acconsente ad incontrare il giovane leader dei Nirvana. Kurt riesce così finalmente a coronare il suo sogno, pochi mesi prima di capitolare tragicamente ai piedi della vita, nella sua abitazione sul lago Washington.

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E quando ciò accadrà -o meglio, quando Cobain sarà trovato cadavere e il mondo messo a parte della sua morte- Burroughs si dirà molto colpito dall’accaduto. Dichiarerà infatti a un suo assistente, non senza una qualche sorprendente e coscienziosa dolcezza senile: “Con quel ragazzo ho sbagliato qualcosa. Era triste tutto il tempo, ma per nessun motivo apparente. Come se stesse combattendo una battaglia segreta. La sua feroce e spietata guerra interiore”. In un ‘altra occasione, poi, ricorderà Cobain in questi termini: “Ciò che ricordo di lui è l’incarnato mortalmente grigio delle sue guance. Per Kurt non è stato un atto di volontà uccidersi. Per quel che potevo vedere, era già morto“. E ancora: “Cobain era molto timido, molto gentile, e ovviamente apprezzava il fatto che non fossi per nulla reticente ad incontrarlo. C’era qualcosa in lui di fragile e accattivante e perso”.

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Burroughs morirà il 2 agosto del 1997, nella sua casa di Lawrence, in Kansas, a 83 anni. Le ultime parole che scrive sul suo diario, poco prima di morire, disincantate e vinte, avrebbero potuto tranquillamente essere il testo di una canzone di Cobain:

“Non c’è niente. Non c’è una saggezza finale, non c’è un’esperienza rivelatrice. Non c’è un santo Graal, una soluzione definitiva. C’è solo conflitto. E l’unica cosa che può risolverlo è l’amore. Il puro amore. Quello che sento ora e ho sempre sentito per i miei gatti”.

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