Quell’impiccione di David Foster Wallace

Immagino di sedermi al tavolo di un bowling bar, ordino qualcosa. Aspetto e magari tremo un po’ per l’ansia, inizio a contare tutto, i numeri sugli schermi, i numeri sulle scarpe bianche dei dilettanti, paganti, di mezza età. Guarderei una ad una le chips ordinate prima di mangiarle. E inizierei a soffiarmi il naso innumerevoli volte.

Questo credo potrebbe essere sufficiente per entrare in un racconto di David Foster Wallace. Sì, perché non è difficile entrare nel suo universo, nel suo cosmo; e poi io amo le caramelle, i film, la letteratura, e me la cavo con le donne. Il problema, invece, sarebbe piuttosto rimanere nelle sue storie. E per quello mi servirebbe di più, mi servirebbe un dolore. Nulla, nemmeno la sua bandana, può considerarsi in DFW una cosa simpatica. Bensì, è giusto, glielo si deve, una cosa ironica. Wallace è un tipo alto, con gli occhiali, i capelli lunghi. Veste comodo, casual, quasi eccessivamente casual da far credere che non sia vestito casual ma abbia ragionato ore per apparire così (e magari ci ha davvero pensato, e ha pensato persino che noi avremmo pensato questo vedendolo vestito casual e lui effettivamente avrebbe voluto che noi credessimo che lui volesse vestire casual pur ragionandoci sopra). Una passione smisurata per lo sport, in particolare per il football e il tennis.

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DFW è il più grande scrittore americano dalla seconda metà del Novecento ai giorni nostri. Morto suicida nel 2008. Personaggio isolato, anonimo, goffo quasi. “Scandalosamente acculturato”, intelligente, geniale. Confusionario! Wallace si fa amico di tutti, è una persona normale, niente cotonatura o cera, niente occhiale particolarmente marcato. Un uomo, un uomo normale che compra al discount, gioca con i cani e lava i piatti sempre il giorno dopo. Un uomo del postmoderno e oltre, un uomo del post-postmoderno, cioè del futuro. Ecco, DFW è un uomo del futuro. Il suo grande capolavoro (opera enorme da più di mille pagine con note messe apposta per interrompere la lettura e infastidire) è Infinite Jest, più che un libro, più che un ritratto dell’America del suo tempo. Troppo facilmente è stato celebrato per essere stato il grande interprete di quel presente che tanto lo ha soffocato. Troppo facilmente è stato fatto ministro del tempo. Ma il Wallace di Infinite Jest è oltre: egli fa la foto dell’America di oggi, dell’America appena futura, senza profezia, solo con profondissima ironia. Aveva visto già la pornografia delle buste di plastica e delle lattine in serie e in sconto. Dei cellulari ultramoderni che si esauriscono nel giro di pochi mesi. Aveva compreso il delirio.

DFW, più grande di tanti grandi, è stato il Bosch del post-moderno, il folle, l’artista vero; dotato di una tecnica incredibile, di uno sguardo nudo, angosciato, profondamente toccato dal reale. Ma soprattutto DFW non è mai esistito. David Foster Wallace è un personaggio dei suoi libri, inghiottito dalla sua storia per diventare ancora più storia. Ha raccontato, anche nella raccolta di racconti La ragazza con i capelli strani, se stesso, in maniera dilaniante, verissima, autentica, spesso disordinata (come si addice all’arte), spesso dettagliata quasi fosse una menzogna. E alla fine è ricaduto nella sua stessa vita che era trama: Wallace è nella meta-esistenza, nell’inazione, alla fine di ogni vicenda, più dentro di chiunque altro.

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DFW è il Samsa di Kafka, il Leopold Bloom di Joyce. È anche un po’ uno dei diavoletti di Ade nell’Hercules della Walt Disney e, che rimanga da noi, un’attrice porno di prima classe. Un impiccione autentico, di quelli che non sai come prendere; persino impertinenti, fin troppo sfacciati, ma allo stesso tempo discreti, come se oscillassero tra stati diversi di umori, come se soffrissero di personalità doppia. Un autentico pazzo, un uomo bianco annoiato, fin troppo voglioso di desiderare, ma senza sapere cosa. Fin troppo alle prese con gli evergreen letterari del Novecento (dalle “bukowskiane” scopate alle “pasoliniane” analisi della società, dondolandosi tra Allen Ginsberg e Hemingway).

David Foster Wallace era tutti noi e leggere le sue opere è guardarsi dentro, riderci su, e magari cambiare. Cambiare davvero.

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