L’eclisse di Michelangelo Antonioni sulle note dei Joy Division

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Il cinema, con la forza delle sue immagini, entra dentro di noi: il regista cerca di comunicarci qualcosa, attraverso dialoghi, attraverso il montaggio, molto spesso “solo” attraverso la composizione delle inquadrature; poi siamo noi, noi spettatori, a dover essere capaci di recepire quel messaggio, a rielaborarlo, a farlo nostro: noi entriamo dentro il cinema. Scatta un processo di recupero della memoria, di emozioni, di sensazioni, di profumi, di sapori, di libri letti, di saggi studiati, di quadri analizzati, di canzoni ascoltate: e allora si sovrappongono piani, tutto si mischia e si unisce e si scontra e assume un nuovo senso dentro di noi, per ognuno di noi.

Quando guardai per la prima volta quei dieci perfetti minuti di vuoto esistenziale che costituiscono il finale de L’eclisse di Michelangelo Antonioni, sentivo dentro di me una sorta di dejà-vu: io questa emozione l’ho già provata prima, identica, con la stessa amarezza e serenità al tempo stesso. Ma non riuscivo a capire quando.

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Monica Vitti intrappolata nella vita.

Continuano a scorrere davanti ai miei occhi i palazzi dell’Eur, quella natura morta dove non ha più luogo la fredda storia d’amore tra Monica Vitti e Alain Delon, e intanto percepisco il mio cuore prendere il ritmo di un giro di basso che conosco fin troppo bene.

Una scarica di batteria.

Il bianco non contrasta col nero, tutto si mischia in un grigiore esistenziale e io sento una voce sempre più forte nella mia testa.

Walk in silence

Cerco i protagonisti della pellicola, ma trovo solo pali, asfalto, cantieri, palazzi.

Don’t walk away, in silence

pali, asfalto, cantieri, palazzi

See the danger

pali, asfalto, cantieri, palazzi

Always danger

sono loro i veri protagonisti

Endless talking

è il vuoto il vero protagonista

Life rebuilding

siamo noi i veri protagonisti

Don’t walk away.

Quella voce, quella fredda e disperata e rassegnata voce, quella voce che ha guardato il baratro negli occhi e ormai ha scelto di viverci dentro: la voce rotta e piena di Ian Curtis, a una delle sue migliori espressioni in assoluto. Non so se Antonioni fosse un fan dei Joy Division (onestamente ne dubito) né tanto meno credo che il gruppo di Manchester abbia mai visto un solo film del regista ferrarese; quello che so è che in quei dieci minuti i loro messaggi si sono sovrapposti nella mia testa, annullando ogni distanza: la nuova società è sempre più colma di beni materiali ma è sempre più estraniata da se stessa.

Il video che trovate di seguito è stato realizzato da noi di Auralcrave, unendo quella splendida sequenza finale de L’eclisse a Atmosphere dei Joy Division, il brano che dicevamo prima. Vedendolo diventa lampante che il match è perfetto.

I due protagonisti del film di Antonioni, Alain Delon e Monica Vitti, si erano dati come sempre appuntamento per quella sera al solito posto nel quartiere dell’Eur, ma nessuno dei due si presenterà. Finisce così dunque la fredda relazione sentimentale dei due: si allontanano in silenzio, sommersi dall’incapacità nel comunicare, simboli del nostro nuovo mondo, simboli della nostra solitudine. È quello che ho sentito in quel momento cantare da Ian Curtis in Atmosphere: ho visto finalmente davanti ai miei occhi quegli angoli di strada abbandonati troppo presto, la confusione, le illusioni, i tentativi di ricostruire la propria vita e i pericoli che sono sempre lì, pronti ad aggredirti. Ho visto davanti ai miei occhi la disperata ricerca dell’altro, la disperata ricerca di se stessi.

L’ho visto in quel paesaggio geometrico, schematico, che prima era una gabbia solo per i protagonisti e che ora, senza di loro, è diventata una gabbia soffocante per tutti noi: il senso di estraneità è il vero protagonista del film, dunque noi, ma allo stesso tempo il non-noi che sentiamo perennemente presente al nostro interno, che è in fondo la caratteristica principale della contemporaneità.

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La geometria vuota e alienante del nostro mondo.

Siamo soli, totalmente de-personalizzati, sommersi dalle cose, incapaci ormai di comunicare, di sentire, di vivere pienamente, separati dal nostro Io: è questa la nichilistica presa di coscienza a cui mi hanno portato quei perfetti dieci minuti di vuoto esistenziale. E stranamente, quando la luce del lampione si è spenta a sancire la fine del film, mi sono sentito sereno.

In pace col mondo.

Don’t walk away, in silence,

In pace con me stesso.

Don’t walk away.

3 comments

  1. Bravo, bravissimo Mattia. Articolo stupendo che ho apprezzato moltissimo, vedi io faccio faccio parte di quella generazione difficile cresciuta (anche) con la musica spettrale dei JD, musica in bianco e nero totalmente priva di qualsiasi forma di ottimismo, ma era proprio questo che ci faceva amare questa band unica. Io li ascolto dal loro primo disco e l’effetto al primo ascolto fu di amore assoluto. L’accostamento con le immagini del film di Antonioni è da applauso, siete stati veramente molto bravi. Complimenti. C.

  2. È legittimo pensare di trovare la musica giusta per una sequenza filmica. Ma non è necessario condire questa operazione con una narrazione così pomposa: in definitiva il risultato non è epifanico.
    Forse siamo davvero troppo abituati agli spot e alle clip.
    L’accostamento audio/video deborda: immagini e testo che dicono la stessa cosa sono pleonastici

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