Hemingway, Addio alle Armi: l’iperrealismo e la prosa antifascista

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Addio alle armi, pubblicato nel 1929, è il romanzo dello scrittore statunitense Ernest Hemingway che ha più avuto impatto in Italia a partire dal ventennio fascista, soprattutto grazie alla sua scoperta da parte di autori come Cesare Pavese ed Elio Vittorini, che vedevano nel modo di scrittura di Hemingway e della Lost generation il vero antifascismo, la rottura di ogni gerarchia, la massima aderenza al corpo della realtà. Hemingway diventa per questi scrittori un dio, un vero e proprio mito.

Per capire appieno il suo mito, è innanzitutto necessario contestualizzarlo: durante il ventennio fascista la pubblicazione in traduzione delle opere di Hemingway venne ostacolata dal regime, complici vari aspetti: prima di tutto sicuramente la presunta immoralità degli scritti dell’artista americano, in cui si parla senza censure di alcool e sesso e in cui la famiglia, la gerarchia, la chiesa, la scuola, lo stato, insomma l’incasellamento nella società, non vengono certo esaltati come valori positivi (il fascismo dopo una prima imposizione violenta e squadrista come partito eversivo, a-politico, contrario alla società borghese, si era imposto come un regime totalitario, trovando il proprio consenso soprattutto nella classe media, non povera, cattolica e con una certa voglia di rivalsa sociale nei confronti dell’estero).

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Ernest Hemingway fotografato da Yussuf Khan.

Certo non aiutarono un articolo di Hemingway apertamente contro Mussolini e il modo in cui in Addio alle Armi lo scrittore narra la disfatta di Caporetto: ci troviamo di fronte a italiani non certo fieri camerati pronti a tutto per la patria, ma a uomini stanchi della guerra, che disertano e vengono assassinati senza ritegno dalla stessa polizia militare italiana, che giustiziava sul momento i disertori. Il fascismo aveva propugnato una ben altra immagine della guerra (perché proprio sugli ex militari tornati a una insopportabile monotonia fondava il proprio consenso), sotto il segno della vittoria mutilata e dell’eroismo del piccolo popolo  contadino italiano da una parte, e dell’esorcizzazione della figura del generale Cadorna come unico grande responsabile della disfatta.

L’italiano rappresentato da Hemingway invece di certo non è impaziente di morire per la propria patria, anzi è totalmente disinteressato. Certo bisogna però porre l’accento su quanto quella guerra non fosse combattuta da italiani, ma da popoli di diverse regioni d’Italia che non si erano mai conosciuti prima. Perché se come afferma Pier Paolo Pasolini l’unificazione della lingua italiana si è avuta solamente con l’avvento della televisione, allora è innegabile che un primo germe di unificazione si abbia avuto in quel primo incontro tra siciliani e lombardi, tra piemontesi e campani.

Per quale patria avrebbero dovuto combattere i soldati, quando una vera patria esisteva soltanto burocraticamente? Non viene dunque difficile non biasimare i disertori, che oltre a una ovvia stanchezza dettata da svilenti mesi passati in trincea, conditi tra l’altro dalla esageratamente rigida amministrazione Cadorna (si parla di soldati fucilati perché fumavano sigarette durante la marcia), pativano anche una mancanza di spinta ideale per motivare una già immotivabile guerra.


La trama

Nel romanzo, scritto in prima persona, lo scrittore crea un proprio alter ego nel giovane volontario di guerra americano Frederic Henry. Henry sul fronte italiano svolge l’attività di conducente di ambulanza, il giovane si è spinto in una tale avventura per spinte idealistiche, e forse anche per un sano vitalismo.                                    Il protagonista però si accorge presto che la guerra non è quella che si immaginava: davanti ai suoi occhi non vi è certo un’emozionante e romantica lotta tra fanti e cavalieri, ma una moderna, logorante guerra di trincea. Il conflitto è di posizione, nessuno sembra morire veramente tra i suoi compagni, il conflitto si trasferisce in sede mentale.

Hemingway descrive la noia della guerra, ma anche la vita “mondana” se così si può chiamare, il tanto alcool ingurgitato (forse per dimenticare, per esorcizzare una morte che sembra sempre più incombente) col commilitone Rinaldi, le chiacchierate e gli scherzi in mensa col cappellano, e poi, ovviamente, l’amore. Henry si invaghisce dell’infermiera britannica Catherine Barkley, che ha perso durante il conflitto il proprio fidanzato, con cui si sarebbe dovuta sposare alla fine della guerra. Inizia dunque la storia d’amore tra i due, sotto il segno dell’ambiguità e della menzogna (Henry confessa al lettore di non amare la donna nelle primissime pagine del romanzo), ma anche e forse soprattutto sotto il segno della necessità, della necessità di qualcuno a cui aggrapparsi: di uno scopo per continuare a vivere.

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Un giovane Hemingway durante la prima guerra mondiale.

Il nido d’amore dei due protagonisti diventa la camera d’ospedale dove Henry è costretto ad alloggiare per curare la propria gamba, danneggiata dallo scoppio di una bomba. I due iniziano a sognare un’altra vita, un futuro dopo il nulla della guerra, decidono di sposarsi tra un bar e un negozio lungo i Navigli di Milano, fin quando Henry viene richiamato al fronte. Qui il protagonista diviene testimone da lontano della disfatta dell’esercito italiano a Caporetto: la strategia del generale Cadorna della perpetua offensiva sul fronte aveva creato un’incredibile distanza tra le linee, così dopo un primo sfondamento dell’esercito tedesco, la prima linea italiana si è di fatto trovata stretta in una morsa tra i nemici.

Di lì inizia la descrizione di una delle parti meno gloriose della storia recente italiana: la ritirata a testa bassa. Henry e i suoi compagni vengono però catturati dalla polizia militare, incaricata di fucilare i disertori; il protagonista si riesce rocambolescamente a salvare, e intraprende il suo lungo viaggio di ritorno verso Catherine che lo porterà a Stresa. Qui i due si ricongiungono sotto il severo sguardo di Miss Ferguson e sembrano davvero incominciare la propria vita insieme (intanto Catherine ha scoperto di essere incinta), non prima però di fuggire in Svizzera. La storia sembra ormai orientarsi verso un lieto fine con il parto di Catherine, ma l’operazione si rivela disastrosa: Henry perde prima suo figlio e dopo la stessa Catherine.                                Il romanzo finisce così, con Henry che ritorna a piedi verso l’albergo nella pioggia, il silenzio.


I protagonisti

Frederic Henry

Henry è l’alter ego dello scrittore, e forse quello che lo scrittore avrebbe voluto essere: un coraggioso combattente in terra straniera che trova l’amore e l’avventura. In realtà, ovviamente la guerra del protagonista è molto più complicata di così.

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Rock Hudson in Addio alle armi (1957)

Prima di parlare del rapporto con Miss Barkley, è giusto parlare dell’atteggiamento del protagonista nei confronti della guerra. Il suo comportamento è ambivalente, tra vitalismo e voluttà di autodistruzione. Il giovane va volontario in guerra, lo fa perché vuole aiutare, certo, ma anche evidentemente per scappare da qualcosa, per trovare un senso alla sua vita; nella guerra egli però trova la totale mancanza di senso, vede la fine dei valori borghesi ottocenteschi, della patria, del moralismo, dell’eroismo. La sua guerra, come quella di tutti gli altri, è fatta di snervanti attese e pesanti bevute, ed è proprio qui che inizia l’autodistruzione, infondo lo dice lo stesso Rinaldi: “Autodistruzione giorno per giorno. […] Rovina lo stomaco e fa tremare le mani”. È infatti vero che l’inserimento dell’alcool in un romanzo americano scritto durante il periodo del proibizionismo non può non avere un senso quasi erotico nei confronti del pubblico:

“Non ero mai andato in nessun posto di questo genere, ma nel fumo dei caffè, e in notti che la stanza gira intorno e si deve guardare la parete per fermarla, notti in un letto, ubriachi, che non c’è altro fuori di questo e la strana esaltazione di svegliarsi e non sapere chi si ha accanto, e tutto il mondo irreale nel buio e così esaltante che si deve ricominciare a non preoccuparsi della notte, certi che questo è tutto e tutto e tutto e non preoccuparsi. Ma di colpo preoccuparsi molto e dormire e a volta svegliarsi in questo stato la mattina, e tutto quello che è accaduto passato e tutto tagliente e duro e limpido e a volte una discussione sul prezzo.”

Ma è vero anche che la continua assunzione di alcool da parte del protagonista (prenderà l’itterizia, e continuerà a bere) non può non trovare un senso nella voglia di farla finita, in senso assoluto o con la guerra. Il molto macho Henry, lo statunitense che impone la propria presenza yankee, piano piano si trasforma in un sottomesso (certo, velatamente parlando), lo si vede nel rapporto con Rinaldi, che ha qualche sfumatura omosessuale e in cui sicuramente il protagonista gioca la parte del “passivo”, lo si vede nella sue continue scuse cercate per non tornare al fronte. Ecco però che nel momento più difficile, nel momento in cui davvero si trova davanti alla morte, usa il suo slancio vitalistico per sopravvivere, per scappare dalla guerra e tornare alla vita, per tornare da Catherine Barkley.

Ecco, appunto, il rapporto con Catherine Barkley è forse la vera chiave di lettura per capire appieno la personalità del protagonista. La storia con la crocerossina nasce sotto il segno dell’avventura, della scappatella per non pensare al disastro della guerra; fin da subito Frederich ammette: “Sapevo che non amavo Catherine Barkley e non avevo per niente intenzione di amarla”. Ma la storia va avanti, e la donna diviene di fatto il correlativo oggettivo della libertà: lei è l’unica cosa pura, incontaminata, che la guerra non può rovinare: è l’unico briciolo di umanità in un mondo che va allo scatafascio.

La scrittura altamente paratattica di Hemingway certo contribuisce a far innalzare il livello di ambiguità del testo: ogni parola che Fredirich dice sembra avere un doppio significato, nonostante ora lui ammetta di amare Catherine “Dio sa che non avevo voluto innamorarmi di lei. Non avevo voluto innamorarmi di nessuno. Ma Dio sa com’ero innamorato.”  E di non poter vivere senza di lei: “L’unica cosa che desideravo fare era vedere Catherine. Il resto del tempo mi accontentavo di ucciderlo”.

A rivelare forse i veri pensieri di Frederich ci pensa l’inconscio, che esonda fuori dalla bocca nel momento di massima criticità della guerra: Frederich ha una visione di Catherine:

“-Buona notte Catherine – dissi forte. – Spero che tu dorma bene. Se stai troppo scomoda, cara, voltati dall’altra parte- dissi. Avevo sempre dormito, disse. Hai parlato nel sonno. Come stai? Ma sei davvero qui? Certo che sono ancora qui. Non ho alcuna intenzione di andarmene.”.

A prescindere dai veri sentimenti del protagonista, dunque, la figura di Catherine diventa un appiglio alla vita, è la figura che lo fa andare avanti, è la figura che lo fa nuotare in un fiume tortuoso per salvarsi dalla polizia militare.

Catherine è la vita, la guerra è la morte

Nell’incredibilità del conflitto armato Catherine rappresenta la quotidianità, la normalità, la sana noia che non fa sentire l’uomo solo: “Potevamo sentirci soli mentre eravamo insieme, soli contro gli altri. […]. Ma noi non eravamo mai soli e non avevamo mai paura quando eravamo insieme”. In realtà, nella tranquillità della Svizzera, davanti alla certezza di una vita insieme, il protagonista sembra quasi barcollare: piccoli indizi ci dimostrano che qualcosa lo sta portando lontano, magari un’incertezza nei sentimenti, magari un’impossibilità di riadattarsi ala normalità. La normalità, però, viene all’improvviso spazzata via dal disastroso parto che uccide sia il futuro figlio sia la moglie del protagonista: Frederich vede passare davanti ai suoi occhi l’ultimo treno per la vita, e si lascia andare ad una disperata preghiera: “Oh Dio, per favore, non lasciarla morire. Farò tutto ciò che vuoi se non la lasci morire. Ti prego, ti prego, Dio caro, non lasciarla morire.”

L’avventuriero Frederich Henry è andato in guerra per trovare la vita autentica, ma ha trovato solo dolore e sofferenza; ha dunque imparato ad apprezzare la normalità, la stabilità, per poi perdere anch’essa e trovandosi così sordo e cieco e muto in un limbo, una condizione estremamente aperta ma senza possibilità di appigli, ben esemplificata dalla chiusa finale:

“Ma quando le ebbi fatte uscire ed ebbi chiusa la porta e spenta la luce non servì a niente. Fu come salutare una statua. Dopo un po’ me ne andai e uscii dall’ospedale e ritornai a piedi in albergo nella pioggia.”.

Catherine Barkley

Catherine Barkley è una donna traumatizzata e sconvolta dopo la perdita in guerra del ragazzo che amava e con cui avrebbe convolato presto a nozze. Forse in quest’ottica va letto il suo impegno da crocerossina: aiutare gli altri bisognosi per non pensare alla propria vita, che non sembra avere una via d’uscita luminosa e sembra andare pericolosamente alla deriva. E poi arriva Frederich Henry, questo americano spigliato e di bell’aspetto. E Catherine si sente di nuovo viva, si sente di nuovo amata.

Per quanto voglia ripeterselo, ella non è né stupida né matta: ha preso coscienza della precarietà della sua esistenza e sceglie di giocare con Frederic. Di fatto non sappiamo mai durante il romanzo quanto Catherine ami il protagonista: a ogni azione di Frederic lei risponde quasi per riflesso, non sembra volere imporsi sulla vita del compagno perché non sembra vivere appieno la sua vita. Catherine ha vissuto un dramma umano fortissimo e tutto intorno a lei dopo ciò ha iniziato a perdere di consistenza.

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Jennifer Jones, Vittorio De Sica e Rock Hudson in Addio alle armi (1957).

Hemingway non ci dice molto e ci fa capire poche cose ma non è da escludere che Catherine prolunghi la relazione con Frederic anche per la maternità; forse in un figlio può trovare quello cerca: aiuto del prossimo con annesso totale annullamento di sé.

Ambigue sono certo alcune pagine del terzo libro di Addio alle armi, dove Catherine, resasi comunque un po’ più spigliata rispetto ai primi momenti, chiede a Frederic di farsi crescere i capelli e la barba: inizia di fatto a cercare di cambiare il compagno (e chi sa quale fosse la fisionomia del suo vecchio grande amore). Catherine è un personaggio molto ambiguo, a più facce, che noi conosciamo solo attraverso il filtro del pensiero del protagonista; la possiamo di fatto conoscere solo attraverso piccoli atteggiamenti e comportamenti, che poi di fatto è l’unico modo in cui una persona può conoscere una persona come lei, una persona totalmente estraniata dal mondo che cerca di rendersi invisibile e il più possibile “comoda” per gli altri per non far soffrire il prossimo, o forse per non far soffrire se stessa.


Calvino su Hemingway

In prima linea tra gli intellettuali italiani a recepire maggiormente il mito Hemingway vi è sicuramente Italo Calvino: in una intervista del ’66 egli ha dichiarato di essersi ispirato alla rapidità dello stile di Hemingway per la scrittura dei suoi primi racconti, evidenziando però a posteriori come questa fase fosse costruita e strutturata, alla stesso modo del suo periodo francese, insomma una scarnificazione della prosa che sottostà ad un reticolo decostruttivo alla radice. La testimonianza sicuramente più importante di Calvino sullo scrittore americano è però Hemingway e noi del ’54; qui lo scrittore mette in evidenza lo stile antiretorico di Hemingway, uno stile capace di disincrostarsi dalle memorie che il fascismo aveva cristallizzato dal Risorgimento.

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Italo Calvino.

Lo stile hemingweiano è definito paratattico: esso cerca di arrivare dritto al nocciolo fluido della realtà, di distruggere gli schemi eliminando la logicità delle subordinate. Hemingway ricerca la brevitas, una brevitas tra l’altro insita nelle stesse memorie dal fronte che lo scrittore aveva dovuto raccogliere, delle memorie che coglievano appieno l’estrema precarietà di quel momento. La prosa nordaamericana però non viene limitata una risposta alla retorica del ventennio, ma è anche una risposta alle risposte: il neorealismo era infatti anche stanco dai modelli dell’ermetismo e della prosa d’arte, Hemingway diventa il primo scrittore in cui un’intera generazione di scrittori italiani si riesce a riconoscere.

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Ernest Hemingway e la sua traduttrice italiana Fernanda Pivano.

Questa generazione, come ammette lo stesso Calvino nella prefazione al Sentiero dei nidi di ragno (importante testimonianza a posteriori del movimento neorealista) erige dunque Hemingway a vero e proprio mito, un Dio esempio di fattualità, sia pratica che morale, che riesce ad arrivare in una bruciante scintilla ai sentimenti veri tramite un linguaggio secco, immediato, realistico, limpido, che riesce a cogliere la realtà come “la punta di un iceberg” (esprimendo apparentemente solo la parte che si vede in superficie, ma con un implicito e sconvolgente baglio dell’immensità che non si vede a occhio nudo). Basta pensare all’incipit del romanzo per realizzare le sottili corrispondenze che Hemingway crea nella sua prosa, apparentemente semplice e scarna:

“Anche i tronchi degli alberi erano polverosi e le foglie caddero presto quell’anno e si vedevano le truppe marciare lungo la strada e la polvere che si sollevava e le foglie che, mosse dal vento, cadevano e i soldati che marciavano e poi la strada nuda e bianca se non per le foglie.”

Addio alle armi è dunque di fatto l’esempio più eclatante della costruzione di sé da parte dello scrittore americano: il testo avventuroso della propria biografia si incastra al testo inventato di sana pianta di una guerra mai combattuta. Ma se anche il suo romanzo rientra in questo enorme testo di auto-mitizzazione, allora cosa è vero e cosa è falso? Chi è Ernest Hemingway? Dove finisce la sua biografia e dove inizia la sua opera d’arte? Sono domande a cui forse non avremo mai una risposta e che proprio per questo hanno alimentato, alimentano e continueranno ad alimentare uno dei miti letterari più influenti del ‘900.

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