Con Gli Occhi Chiusi: Federigo Tozzi e la sofferenza del mondo moderno

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C’è dell’autobiografismo in ogni opera di Federigo Tozzi (Siena 1883-Roma 1920). Ma forse è proprio in Con gli occhi chiusi (1919), il romanzo che l’ha accompagnato per una vita, l’opera nella quale riusciamo ad apprezzare al meglio il vero Tozzi, dallo stile alle tematiche affrontate.

Il romanzo è la storia di una proprietà in rovina (il podere di Poggio a’ Meli di Domenico, padre del giovane Pietro) e di un amore sventurato, quello tra lo stesso Pietro, debole  e insicuro, onesto ma ingenuo, e Ghìsola, contadina del podere e figura ambigua in bilico tra affetto e inganno. Tozzi segue le vicende personali di Pietro, dall’infanzia nel podere al trasferimento a Firenze per motivi di studio, dalla morte della madre all’innamoramento per Ghìsola. Pietro è un inetto che non si sa rapportare al mondo e alle cose e viene ingannato dalla stessa Ghìsola, che sfrutta il suo amore per mere ragioni economiche. Il protagonista conduce quindi la sua vita così, con gli occhi chiusi, fino alla sconvolgente scoperta della maternità di Ghìsola, narrata nell’ultima pagina del romanzo, un finale aperto che lascia al lettore qualsiasi tipo di conclusione.

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Ambrogio Lorenzetti, Effetti del buon governo in città

La critica del romanzo ha vissuto fino a oggi di fatto tre fasi ben distinte, che hanno influenzato la ricezione del libro da parte del pubblico: la prima con Giuseppe Antonio Borgese vede Tozzi come il continuatore della tradizione naturalista del grande romanzo europeo, la seconda con Giacomo Debenedetti lo mette in continuità col romanzo modernista novecentesco, la terza con Luigi Baldacci aggiunge ai temi debenettiani approfondimenti sulla cristianità dell’autore; è dunque grazie agli spunti critici di Debenedetti e di Baldacci che Tozzi viene ormai considerato davvero come un autore moderno: dalle loro analisi si può partire cercando di condurre un’analisi critica dello scrittore senese e di Con gli occhi chiusi che si lasci alle spalle tutte le ambiguità alle quali la critica del Novecento è andata incontro.

Uno degli spunti più interessanti dell’analisi debenedettiana riguarda il tema dell’inettitudine nel romanzo, inettitudine interpretata in modo diverso da tutti i personaggi principali. Il personaggio di Pietro è un inetto il cui non voler vedere è anche un modo di sfuggire alla stranezza dell’esistenza, ai colori sordidi che intorno a lui assumono le cose, gli oggetti e le persone, di cui subisce la minacciosa estraneità (riguardo il rapporto con la madre: “Anche quando l’aveva vicino, restavano come due che avessero l’impossibilità di intendersi”). Ma Pietro non è un inetto come lo Zeno Cosini de La coscienza di Zeno; entrambi i protagonisti soffrirebbero del complesso edipico ma hanno un  atteggiamento completamente diverso nei confronti del mondo: Pietro è capace di sentire solo la propria sofferenza, senza aprire gli occhi sulla realtà degli altri, mentre è proprio la nevrosi a rendere Zeno quel personaggio mobile e ironico capace di far saltare tutti gli altarini della società borghese che lo circonda, processo che lo porterà addirittura nell’ultimo capitolo del proprio diario a staccare lo sguardo dalla propria malattia e a guardare all’insanità del mondo intero.

Come detto, l’inettitudine non è solo quella di Pietro, è anche quella del padre, che alla morte della moglie sembra incapace di aprire gli occhi sulla sofferenza degli altri, restando interessato più che altro al mondo in cui la propria sofferenza possa essere recepita (“Il suo dolore era così pieno che tutti avrebbero dovuto consolarlo! Ora si pentiva di non averle voluto bene abbastanza!”). Un padre che non è capace di una normale comunicazione col figlio (“Io me ne intendo più di tutti gli scienziati perché sono tuo padre. Nessuno sa meglio di me quello che ci vuole per te.”), ostacolato da uno strano e innaturale odio verso la sua figura (“E, allora, sarebbe stato meglio che non gli fosse nato. Perché gli era nato? Meglio non parlargli più, sopportando che camminasse accanto, in silenzio, magari a testa bassa, fino a batterla sul lastrico.”)

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Edvard Munch, La Fanciulla Malata

L’inettitudine è propria anche del personaggio di Ghìsola, un’inettitudine per certi versi esattamente a specchio rispetto a quella di Pietro: il secondo vive con gli occhi chiusi mentre la prima non desidera essere nemmeno vista dall’aria.

“Talvolta, le veniva voglia di nascondere tutto il viso, e di restare così, di non essere veduta che dall’aria, di non mangiare più, di morire senza accorgersene. Le veniva anche voglia di gridare. E aveva paura.”

Per Pietro la realtà è un incubo da cui è impossibile uscire, per Ghisola è una minaccia incombente. Ma l’inettitudine per certi versi speculare dei due protagonisti sta anche e soprattutto nella loro interna lacerazione tra affettività e sessualità: né l’uno né l’altra riescono ad accordare l’impulso oscuro dell’eros all’investimento amoroso di un rapporto privilegiato e, per questo motivo, si negano l’accesso a una dimensione di vita ragionevole e ordinaria.

“Allora Pietro s’immaginò che Ghìsola, per cattiveria, l’obbligassero a camminar sola, tutta molle. E, pensando così, a lungo, gli venne sonno.”; “Talvolta, aveva voglia di farsi uccidere, forse da Ghìsola, che già sentiva sua”

Se Pietro rifiuta l’offerta seduttiva di Ghìsola sublimando la propria, inibita sessualità nell’archetipo di una immacolata donna-angelo, la ragazza, analogamente, prima ancora di prostituirsi, si trova a sfruttare la propria sessualità come un’arrivista qualunque.

Quello tra Pietro e Ghìsola è, per il protagonista, in un certo senso un amore che offusca la ragione, un amore che acceca e impedisce di vedere nel quale si può scorgere l’influsso del conterraneo poeta Guido Cavalcanti, primo cantore non di un amore ascetico che porta alla vita eterna ma di un sentimento distruttivo, soffocante, che fa perdere il controllo del corpo, che fa scindere lo stesso corpo e l’anima, in una depersonalizzazione avant-lettre. “Occhi chiusi” quindi come impossibilità di capire la realtà, accecati da un sentimento che non è possibile recepire, per Cavalcanti da uomini “nobili”, per Tozzi da uomini aventi una nevrosi insanabile. Esemplificative sono le ultimissime righe del romanzo, nelle quali Pietro, sconvolto per la scoperta della maternità di Ghìsola, sembra finalmente capace di vedere la realtà, di ragionare, libero dall’amore:

Quando si riebbe dalla vertigine violenta che l’aveva abbattuto ai piedi di Ghìsola, egli non l’amava più

L’incredibile modernità di Tozzi però non è solo nei temi trattati, dall’inettitudine all’estraniamento, ma nel suo modo di scrivere, nel suo modo di esprimersi . La sua modernità sta nel suo espressionismo, un anomalo espressionismo provinciale attraverso il quale ci arrivano immagini di un mondo ossessivo, irrespirabile, impastato di fetore, di ottusità, di rissosità, di egoismo, chiuso a qualsiasi possibilità di amore. Il paesaggio diviene nello scrittore senese paesaggio dell’anima: la topografia degli ambienti esterni viene scomposta, trasformata in un assemblaggio di linee e pezzi disgregati. Basta leggere qualche passo del romanzo per accorgersi della deformazione espressionistica presente nella descrizione degli ambienti:

“Strade che si dirigono in tutti i sensi, si rasentano tra sé, s’allontanano, si ritrovano due o tre volte, si fermano; come se non sapessero dove andare; con le piazze piccole e sbilenche, ripide, affondate,  senza spazio, perché tutti i palazzi antichi stanno addosso a loro.” 

“E quando entrò nella camera, i muri e le porte traballavano e si spalancavano da sé, credette di non vedere niente.”

“Ella aveva paura di parlare, quanto dell’ombre di quei cipressi: le quali, all’improvviso, subito fuori dal paese, attraversavano la strada, risalendo come se fossero vive, con la cima su per il muro dalla parte opposta”

“Tutta la campagna correva, correva troppo! Pareva a Pietro che lo sfuggisse e non lo volesse comprendere più; anzi, lo disapprovasse. E allora aveva più bisogno di amare Ghìsola.”

In queste scissioni e accelerazioni della visione confluiscono varie scissioni figurative, perché se è evidente l’influsso della pittura senese del Trecento (Allegorie e effetti del buono e del cattivo governo di Ambrogio Lorenzetti) è impossibile leggendo una di queste descrizioni allucinate non pensare a un quadro espressionistico di Munch, o del movimento del Die Brucke. Gli ambienti interni soffocanti sembrano esattamente quelli dipinti nella Bambina malata del pittore norvegese: una pittura malata essa stessa, tutta corrosa, graffiata, nella quale la materia del colore è tutta disfatta, una pittura che sembra avere il cancro, che sembra rovinarsi sotto i nostri occhi. Gli esterni ci appaiono a loro volta esattamente analoghi a quelli del celeberrimo Urlo, in cui all’ambiente classico si sostituiscono vortici di emozioni, appunto una realtà disgregata, vista Con gli occhi chiusi, vista tutta tramite il filtro della propria sofferenza. Munch vuole rappresentare sentimenti, presenze immateriali, non oggetti o corpi materiali, vuole rappresentare l’anima delle persone, non le persone in carne e ossa; ed è la stessa identica materia che vuole rappresentare lo scrittore senese, nello stesso modo, ma con un’arte diversa.

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Edvard Munch, L’Urlo

L’espressionismo di Tozzi non è comunicativo, non agisce sulle strutture metriche, sulla sintassi, sul lessico, no, il suo espressionismo agisce sulla visione perché è esattamente la visione che lui mette per iscritto: la scrittura diventa sul serio esorcizzazione dei suoi incubi, le immagini della sua nevrotica psiche ci arrivano così, deformate, senza nessun bisogno di espressionismo linguistico, con la sola forza di una tormentata ricerca interiore.

“Pietro ascoltava, ma gli pareva che le persone accanto a lui agissero come nei sogni; e la mamma, rivolgendosi a lui, doveva ripetere due o tre volte la stessa cosa […] ma si chiese perché le cose e le persone intorno a lui non gli potessero sembrare altro che un incubo oscillante e pesante.”

In quest’ottica una novità come la distassia (la divaricazione tra il tempo della storia e il tempo del discorso) non nasce da una riflessione critica sul romanzo naturalista (come avrebbe potuto analizzarla un Borgese) ma da un’esigenza di far vivere liberamente le immagini che ossessionano la mente dell’autore, immagini che lo ossessionano e che lui non cerca di riordinare: Tozzi non crea barriere tra la propria interiorità e l’esterno ma cede, lasciandosi travolgere dalla realtà che gli rivela tutto il proprio aspetto demoniaco che nasconde a chi si trincera dietro il moralismo, Tozzi perde il contatto col proprio mondo psichico, col proprio corpo e con la realtà esteriore, estraniandosi a se stesso.

Ed è incredibile come questo non voler mettere barriere tra esterno e psiche lo avvicini alla scrittura automatica surrealista, quella pratica per la quale Brèton e colleghi  cercavano di registrare il libero movimento della loro immaginazione abbandonandosi al flusso indifferenziato con cui le immagini si producono nella mente. Ma in Tozzi non si viene a manifestare quel meraviglioso tanto cercato dai surrealisti, ma l’orribile, la violenza, perché quella è la vera realtà psichica dello scrittore senese. Con gli occhi chiusi non è certo un romanzo surrealista, ma la sua natura è comune agli scritti dello stesso periodo dei seguaci di Brèton.

La grandezza, la contraddizione, l’ambiguità di questo scrittore sta proprio qui, una sua pagina potrebbe portare tanto a un quadro senese del Trecento quanto a uno norvegese di fine Ottocento, in pieno espressionismo, perché Tozzi è modernità, ma è anche provincialità, al tempo stesso. Provincialità che è ben riscontrabile nella sua tormentata religiosità. Baldacci in questo senso ci indica la giusta via di interpretazione: non possiamo vederlo come uno scrittore totalmente sprovveduto e a-ideologico, no, egli è un uomo ossessionato dalla verità, ed esige una nuova corrispondenza tra cose e parole, cioè una nuova corrispondenza tra le parole intese come espressione ideologica e la realtà psichica che sta dietro di esse. Quindi l’incontro col cristianesimo può essere letto anche in questa maniera: non solo sfogo della nevrosi ma bisogno di legarsi a una forma storica dello sviluppo culturale che legittimasse la sua sensibilità. E quale altra forma storica poteva conoscere un uomo nato e cresciuto nell’Italia provinciale?

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Federigo Tozzi

Ma ovviamente la religione per lui non è fede, egli pone l’accento sulla violenza e sul sacrificio di Cristo: l’aggressività, il sacrificio di sé diventano il primo passo per l’aggregazione sociale; aggregazione sociale che Piero\Federigo ha infatti cercato in tutti i modi, addirittura iscrivendosi al partito socialista, quando la fondazione della rivista cattolica reazionaria La Torre sembrava farlo pendere verso ben altre ideologie. La cristianità è un elemento basilare dell’opera tozziana, prescindendo dal simbolismo dei suoi romanzi del sessennio romano, è evidente come dalla sua concezione del cristianesimo egli ricavi una visione pessimistica della vita nella quale esistono vittime predestinate e capri espiatori che propugnano una salvezza che non arriverà mai, visione che emerge da ogni pagina di Con gli occhi chiusi (“Si commuoveva, dunque, d’essere destinato soltanto a soffrire”). Dal primo dialogo capiamo quale sarà il destino dei due protagonisti: non c’è nessuna via d’uscita, ma non è una mancanza di via d’uscita dettata dalla propria condizione sociale, come poteva essere per I Malavoglia di Verga, nessun determinismo storico, nessun verismo, nessun naturalismo, è una mancanza di via d’uscita dettata dal destino di sofferenza uguale per tutti gli uomini, e non solo, perché la cristianità tozziana è evidente anche nel modo in cui egli tratta gli animali nei suoi scritti (se eccettuiamo quella anomala opera frammentata che è Bestie). Gli animali sono visti come esseri viventi uguali agli uomini in quanto esseri che condividono la loro stessa identica sofferenza:

“Fu trovata con la testa sul pavimento, verso l’armadio che aveva aperto; tutta stesa in avanti; come quegli animali che hanno avuto una calcagnata sul capo”.

Elemento, quello della sofferenza cosmica, anche animale, che è prova della forte cristianità tozziana, in quanto riscontrabile in un altro grande artista cristiano del novecento, il regista francese Robert Bresson, che addirittura incentra tutto il suo film Au Hasard Balthazar sulla figura di un asino, sui suoi occhi pieni di sofferenza, come quelli di qualsiasi uomo.

Con gli occhi chiusi è espressionismo, è cristianità, è sofferenza, è inettitudine, è modernità, è provincialità, è una piena esorcizzazione dei demoni interni di Tozzi. Con gli occhi chiusi è subordinato a un bisogno di narrare come bisogno di comunicare, di raccontare un’esperienza personale oggettivandola e neutralizzandola, un bisogno che si traduce con una narrazione asciutta, essenziale, a tratti violenta, illuminata da un vigoroso lirismo capace di cogliere la pena e l’angoscia del vivere.

Cover Image: Edvard Munch, Disperazione (dettaglio)

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