13 Reasons Why, la pulsione di morte e la banalità del male

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Tredici (13 Reasons Why), la serie tratta dall’omonimo libro e ambientata nella solare California, si impernia sulle ragioni che hanno portato al suicidio Hanna Baker, una liceale carina e senza peculiarità; sulle ragioni del suo gesto: i 13 motivi. Motivi fatali, come il numero stesso, che Hanna registra su delle obsolete audiocassette destinate a ogni persona che risulta in qualche modo legata ai motivi stessi. La scelta delle audiocassette ai tempi d’oggi (la serie è ambientata nei nostri giorni) viene giustificata da Hanna perché “ascoltarle non deve essere facile. Se avesse voluto che fosse facile, avrebbe mandato un mp3 via mail“. In realtà è più probabile che il vero motivo, nell’ottica di una serie tv nel 2017, è che il retró è in auge, ma questi sono dettagli.

Il vero punto invece è: sono sufficienti 13 motivi per togliersi la vita?

Quello che è apprezzabile di questa serie è l’aver voluto conficcare il cavalletto e osservare con minuzia uno dei mali più frequenti nella nostra società del benessere, il suicidio in età adolescenziale. Quindi non solamente il bullismo. Mossa intelligente, anche perché in realtà il bullismo c’è sempre stato: c’è qualcuno che ha forse solo ricordi idilliaci della terribile scuola media o dei primi anni del liceo? L’effetto filtro Instagram, che ci regala un passato edulcorato con conseguente nostalgia, si adatta bene ai ricordi ma non riesce comunque a cancellare le bruttezze del periodo adolescenziale.

E poi, sono bastati 13 episodi? Per spiegare la pulsione di morte, per preferire di non vivere più, o parafrasando il pensiero di Hanna “per completare un processo che già era iniziato, il sentirsi nulla” e renderlo reale con il suicidio.

In generale no, non bastano, e non dovrebbero bastare. Ma la tragedia invece è proprio qui: 13 motivi, dei quali alcuni possono anche sembrarci insulsi, qui bastano. Sono sufficienti per compiere quella tendenza mortifera che ci rende odiosa la vita e chi ne fa parte e porta verso un appiattimento e ad uno stato di nulla. Ci mette di fronte al celebre dubbio amletico che si snoda appunto sulla scelta tra l’istinto di morte e l’istinto vitale. Essere o non essere? È più nobile sopportare i dardi, gli oltraggi o soccombere ad essi e disperdersi nel mare?

Ma qual è la natura di questi “dardi“?

Ad ogni dardo appartiene un episodio,  che ci viene spiegato dalla voce registrata della ragazza suicida, che è la stessa voce che era rimasta inascoltata quando era in vita, e che dopo la sua morte, chi sarà stato causa del suo gesto sarà costretto finalmente ad ascoltare. Una sorta di maledizione, una legge del contrappasso in alcuni suoi punti. Chi la fa l’aspetti, o comunque ne aspetti le conseguenze. Il male ritorna e chiama alla tua porta per farti pagare lo scotto, ma parliamo di un male, come lo definì la Arendt, “banale“, dove gli artefici non sono dei mostri ma “le loro azioni sono mostruose, e chi le fa è pressoché normale, né demoniaco né mostruoso“.

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Ed è forse questa a mio avviso la parte più potente e difficile da sopportare di questa serie: ognuno può essere un bullo, non c’è nessun mostro, abbiamo tutti il potere di fare del male; non ci salverà il viso pulito, i bei voti, o il titolo di miglior giocatore dell’anno, l’essere i figli modello; possiamo distruggere qualcuno anche senza consapevolezza, con il sorriso imbelle. Potrebbe capitare anche a noi, di trovarci  ad essere una ragione di dolore, e addirittura di morte, nella vita di un altro, senza volerlo, o giudicando le nostre azioni non così nefaste o  non così importanti.

Da lì la riscoperta costretta all’attenzione, all’ascoltare come un dovere, al non dare nulla per assunto, perché Tredici vuole essere sì una critica ad un sistema educativo fallace come quello statunitense, che affonda le sue radici nel campo di football, e in cui la meritocrazia conta i punti dei touchdown o dei canestri piuttosto che i voti in letteratura; ma vuole essere soprattutto una sorta di antidoto o un avvertimento per una prossima Hanna, o una già esistente, che forse non registrerà mai la sua voce, ma che si abbandonerà ai dardi, nell’oblio mentre noi continueremo a sorridere ignari.

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