Noi, i Radiohead e quell’intimo fascino di essere introversi

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Volete sapere la verita? Fin dall’inizio, fin dal primo giorno in cui abbiamo suonato insieme ai tempi di scuola, noi sapevamo di essere diversi. Ma non nel senso che pronosticavamo già il successo che avremmo avuto. No, tutt’altro. Noi ci sentivamo diversi come esseri umani. Emarginati, incompresi, disconnessi da tutti gli altri. Noi eravamo quelli che andavano alle feste e restavano ai margini del party, vestiti in maniera bizzarra e guardati male da tutti. È così che io – Thom Yorke – e Colin Greenwood ci siamo conosciuti, sapete? Ci ritrovavamo sempre agli stessi eventi, lui vestito in tuta con quegli stranissimi berretti e io con quegli orribili abiti di velluto. Alla fine finivamo sempre per parlare dei Joy Division.

Anche musicalmente, quando iniziammo a comporre musica e offrirla al pubblico lì fuori, non ci aspettavamo assolutamente di essere capiti o apprezzati. Cosa che all’inizio, di fatto, non successe. Quando scrivemmo Creep, il nostro primo singolo, nel ’92, a primo impatto fu bocciato da critica e radio perché “troppo deprimente“. L’avevo scritta dopo esser stato rifiutato da una ragazza che mi piaceva all’università. “Sono un mostro, sono uno strambo“, cantavo. Un’immagine da introversi distaccati dagli altri che ci identificherà a lungo. Eravamo emo anni prima che diventasse una moda. Non stavamo mica cercando di piacere al pubblico. Non ce l’avevamo nemmeno, un pubblico.

Dovette passare più di un anno, durante il quale pubblicammo (con scarsissimo successo) il primo album Pablo Honey e i singoli Anyone Can Play Guitar, Stop Whispering e Pop Is Dead, prima che quella canzone iniziò a diventare un successo. Dicevano che eravamo una brutta copia dei Nirvana. Eppure d’improvviso, nel ’93, quel pezzo così depresso iniziò a girare in diverse stazioni radio in giro per il mondo e il video finì in heavy rotation su Mtv. Tutto quello che avevamo pubblicato nel frattempo non era riuscito ad esplodere quanto invece una canzone fatta mesi prima, di colpo sulla bocca di tutti. Curioso. Fu allora che la EMI cambiò strategia e prese a spingerci, ripubblicando Creep e organizzando quel terribile tour americano, che ci diede tante di quelle pressioni che fummo sul punto di scioglierci.

Ci servì un po’ di tempo, e l’EP di passaggio My Iron Lung del ’94, ma alla fine prendemmo consapevolezza: non eravamo una meteora destinata a sparire. Avevamo un pubblico. Così ci chiudemmo in studio, convinti di non appartenere davvero ai meccanismi volatili delle tv ma comunque sicuri di avere qualcosa da dire, e ne venne fuori The Bends, nel ’95. Disco inesperto e imperfetto anche quello, se volete il mio parere personale, ma aveva dei gran bei pezzi. Come Just, qui sopra, con quell’iconico video che resta una delle cose più belle e potenti mai prodotte dalla musica, o Street Spirit (Fade Out), altra nostra hit rimasta nel tempo. Fu solo alla fine di quell’anno, quando vedemmo il disco in diverse classifiche annuali, che ne fummo sicuri: quella di mettere su una rock band, con tutti gli alti e bassi, i momenti in cui vuoi mollare e lo stress di dover sopportare le pressioni di un successo sempre più grosso, era stata comunque una buona idea.

Da quel momento sviluppammo l’autostima necessaria per muoverci verso risultati sempre migliori, sempre più sorprendenti e spiazzanti. Nel ’97 uscì OK Computer, e quello sì che convinse tutti fin dal primo istante. Certo, lo definirono la nostra incursione nel progressive rock e lo accostarono ai Pink Floyd (quello prima invece era il nostro disco britpop: i critici ci han sempre tenuto così tanto a rinchiuderci dentro le definizioni di genere più strette…), ma tutti riconobbero il nostro modo di sperimentare e la nostra formula distintiva, fatta di energia ma anche di alienazione, pessimismo, disillusione verso il mondo moderno. Anche lì, apprezzamenti di caratura eccezionale (dissero che OK Computer è uno dei dischi più belli mai fatti) e singoli di enorme successo (oltre a Karma Police qui sopra ci furono Paranoid Android e No Surprises, entrambi con video che resteranno impressi a lungo nella memoria dei nostri fan). E un disco che, se lo ascoltate ancora oggi, vi dà quella sensazione di familiarità e contemporaneità dovuta all’emotività della parte vocale, alla scelta di formule non scontate, al rifiuto del senso logico del mondo contemporaneo, tutte caratteristiche che ormai la musica ha sposato con convinzione.

Poi ci fu il nostro spartiacque. Il doppio disco Kid A/Amnesiac che spaccò in due il pubblico. Furono i nostri dischi più sperimentali, è vero, così lontani dalle formule rock sicure che avevamo offerto prima di allora. Come aver lasciato questo pianeta e averne decantato i dolori e le false speranze col filtro di un lontano ricordo. L’obiettivo era lasciare che il flusso scorresse, qualsiasi fosse la sua direzione. Ci sentivamo nel nostro momento migliore e non volevamo sprecarlo ribattendo la strada che già conoscevamo bene, anche se ciò ci avrebbe dato un successo scontato. Ma nello stesso tempo non mi aspettavo tanto clamore. Qualcuno addirittura bocciò Kid A perché “fatto intenzionalmente in maniera troppo complicata“. Non ci badammo troppo. Certe cose sbocciano sulla lunga distanza. Col tempo si sviluppò una sorta di mito intorno a quei due dischi, con molti critici che li considerarono i veri ispiratori dell’approccio decostruttivo adottato dalla musica del nuovo millennio. Furono il nostro apice creativo. Ma vi confesso: il disco a cui sono più affezionato, ancora oggi, doveva ancora arrivare.

Fu Hail To The Thief, il nostro sesto disco, nel 2003. Un disco in cui ottenemmo la perfetta sintesi tra la nostra anima rock e l’inevitabile vena sperimentale. Un disco in cui tutta l’agitazione e la rabbia verso le storture del mondo moderno (erano i tempi bui dell’amministrazione Bush negli USA) tornò ad esprimersi con energia attiva, cattiva, distruttiva. Aveva i suoi momenti cupi e disarmati, ma anche reazioni nervose fatte di sangue e chitarre. Non sono molti lì fuori a considerarlo il nostro album migliore, eppure è lì che riuscimmo a condensare tutti i nostri volti in un equilibrio perfetto. Fu anche l’ultimo disco del nostro contratto con EMI, dopo il quale abbandonammo il sistema delle etichette major e diventammo ufficialmente la più grande band esistente senza un contratto discografico. Rientrava nel nostro modo di uscire fuori dalla comfort zone, sfidarci in situazioni sempre nuove. L’instabilità, la sfida di ritrovarsi in una situazione nuova, in realtà sono le cose che hanno sempre tirato fuori il meglio di noi.

Fu in quel periodo che pubblicai anche il mio album solista, The Eraser, pregno di nuovi suoni elettronici. E qualche tempo dopo fu la volta di In Rainbows, il disco dei Radiohead più fruibile in assoluto, come dissero in molti. Non saprei se confermarlo o meno. Il fatto è che eravamo in una nuova fase, consapevoli di una grandezza riconosciuta, e la nostra priorità non era più inventarci ancora una volta qualcosa di spiazzante, che cambiasse le carte in tavola. Quindici anni dopo il nostro esordio, probabilmente il mondo pretendeva le rivoluzioni da altri, non dai Radiohead. No, in realtà la nostra priorità, da quel momento in poi, è stata confermarci. E In Rainbows ci confermò: c’era l’energia sporca del rock di Bodysnatchers, quei momenti disperati di Jigsaw Falling Into Place, le armonie melodiche di Nude e un singolo come All I Need (sopra), la traccia perfetta per essere amata da tutti. Fu anche il disco di cui parlarono tutti per la modalità di distribuzione: download diretto dal nostro sito web e modalità pay-what-you-want, lasciando liberi i fan di offrire la cifra che volevano. L’importo medio pagato dai fan fu meno di tre euro. Diciamo che servì a spingere meglio la distribuzione ufficiale che sarebbe arrivata dopo.

Il nuovo decennio proseguì con lo stesso spirito, continuando a riproporre e confermare i diversi volti che contraddistinguono i Radiohead, che erano ancora tanti e potevano ancora essere approfonditi in maniera da non suonare come una ripetizione. Gli ultimi due album, The King Of Limbs del 2011 e A Moon Shaped Pool del 2016, potete vederli come due volti contrapposti della nostra arte. Il primo era molto ritmico, nervoso, dalla natura complessa, creativo più che sperimentale. C’era una stratificazione ritmica così avanzata che per i live dovemmo coinvolgere un percussionista aggiuntivo. L’atmosfera malinconica c’era sempre, eppure c’era anche un velo di ottimismo, come potete sentire da Lotus Flower qui sopra.

A Moon Shaped Pool invece è stato il nostro disco più rilassato. Affondammo più che mai nei canoni della classica contemporanea, usammo in maniera massiccia il pianoforte e i violini, e cercammo un sound volutamente calmo, emotivo, per certi versi il più intimo di cui eravamo capaci. Anche qui magari la ricezione fu variegata (c’è anche chi lo definì soporifero), ma anch’esso è riuscito ad approfondire in modo nuovo un volto dei Radiohead rimasto sottinteso in passato. Non a caso riuscimmo finalmente a metterci dentro True Love Waits, brano vecchio di anni e sempre scartato al momento di costruire la tracklist dei nostri album, che invece si ambientava perfettamente al nuovo album, nella sua nuova versione minimalista fatta quasi esclusivamente al piano.

È questo il miglior dono che i Radiohead possano fare oggi al pubblico: offrire la loro massima purezza e sincerità, approfondendo fino alle espressioni originarie tutte le caratteristiche che il mondo ama della nostra musica, facendo in modo che ognuna di esse riesca a tirare fuori l’intera gamma di possibilità. La cosa più importante, a questo punto, è scongiurare il pericolo che qualcosa si perda per strada. È un po’ quel che accade sempre nella fase di maturità: si vedono le cose in maniera più profonda e si ha la sensazione che da giovani quelle cose siano state affrontate col fervore e l’entusiasmo tipico di quell’età, ma magari impedendo di liberare l’anima più nascosta e profonda della nostra ispirazione. Oggi il pubblico è perfettamente consapevole di ciò che ha e di ciò che ama di noi, e dai Radiohead vuole una cosa sola: spessore. E – potete scommetterci – faremo in modo che lo abbia sempre.

Le monografie di Aural Crave sono monologhi immaginati in cui l’artista viene raccontato in prima persona. La verità che incontra l’interpretazione, un modo stimolante per riscoprire i personaggi chiave dei nostri tempi.

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