A colloquio con le ultime opere di Simone Fazio (e con il pittore)

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C’è qualcosa di estremamente coinvolgente nelle ultime opere di Simone Fazio, delle quali si può avere ragione nel suo saggio Carico di Rottura, in cui esplicita la sua poetica:

“Osservare il raggiungimento del carico di rottura, sotto al quale l’opera collassa su se stessa e cambia forma.

Sottopongo la mia pittura ad un carico critico e mi diverto a vedere il sistema cedere. Creazione e distruzione. Incompleto. Disadattato. Terribilmente fervido. Infinito. D’altronde anche la pittura è solo una delle tante illusioni che ci concediamo per addomesticare lo spettacolo splendidamente orrendo del reale”.

Dall’osservazione degli ultimi lavori, si ricava un turbamento immediato, molto potente, che colpisce e spiazza lo spettatore, avvolto dalla spessa coltre di un incognito, posto di fronte al disegno di un abisso in qualche modo squarciato, da sempre celato nel mistero della creazione. A germinare tale atmosfera è ciò che è oggetto specifico e ben determinato della rappresentazione, ovvero la proposizione, ogni volta, di un moto di bellezza che reca in sé la sua stessa dissacrazione: volti di donna che, nell’atto di comparire, negano lo sguardo abbassando le palpebre per una ragione o per un sentimento ineffabili, oppure, più impertinenti o sfrontatamente, rivolgono gli occhi di fronte a loro, verso lo spettatore, ma senza espressività, contenendo un’emozione che risulta intraducibile. L’artista sembra voler comporre il modello di una figura che, nel rendersi presente, trattiene oppure libera lo sguardo, esponendolo ora come un suggello che si rinchiude in sé, talaltra come un interrogativo che affonda nel compito del vedente senza offrirgli un suggerimento, anzi, inquisendolo da un luogo e da un tempo remoti, di cui lo spettatore è all’oscuro, ma a motivo del loro essere attraversamenti, transiti, passaggi, spazi dell’assenza, della fine che già sta producendosi.

Chi è quella donna? Che cosa desidera vedere-comunicare? È un caso se quella donna guarda oppure esprime una sua volontà, è forse in suo potere evocare, richiamare a sé un vedente, un veggente? Sta forse indicando all’altro la sua fragile consistenza?

È tutto nel mistero dello sguardo che si compie la storia della pittura, dell’unione casuale tra un pittore ignaro della volontà implicita nella figura e lo spettatore, spettatore interessato a sondare e a interpretare ciò che quel volto richiede, per non essere allontanato come testimone di un’esperienza non condivisibile. Insomma, il tormento e l’inquietudine che coinvolgono la figura rappresentata, l’artista e lo spettatore sono tutti riassunti nell’impresa molto difficoltosa di stabilire un rapporto, ed è come se quel soggetto dipinto, quell’immagine rediviva fosse talmente potente da non meritare l’inganno della coscienza, d’una coscienza sempre imperfetta: sia quella del pittore, sia quella dello spettatore: è forse la coscienza che crea la temporaneità (la temporalità!)? Nessuno può eleggersi interprete dell’Immagine – che assume un valore metafisico – se non commettendo un atto di violenza nei confronti di ciò che è sempre al di sopra della intelligenza umana. 

Come e perché avviene tutto questo?

Deve essere l’analisi delle opere di Fazio a chiarire l’arcano, opere dipinte su favi d’ape mielifera donati da un apicultore (un paio di giorni prima dell’inizio della pandemia del 2020) all’artista, che li ha trattati per mesi prima di poter affrontare il favo come supporto, come una tela o una tavola di legno da dipingere.  

Fazio ha usufruito di una base quantomai viva, organica, destinata a scrostarsi o a venire mangiata dai parassiti. La sua è un’operazione concettuale, volta a ricondurre la pittura nel suo alveo naturale di cera (la pittura ad olio può avere una componente cerosa per essere inspessita o del tutto amalgamata per farne colore), per destinare l’opera ad una vita effimera, che è quella propria della creatura. Una scelta, anzi un sintagma logico secondo cui la cera viene restituita a se stessa, così come la pittura e la polvere, tutte accomunate dallo stesso processo di generazione e di distruzione; l’opera artistica è affine a quella del mondo perché ne osserva la stessa legge di creazione di annichilimento e di trasformazione – annota lo stesso Fazio, “cera alla cera, pittura alla pittura, polvere alla polvere” -.

Così come sia volto al volto, ovvero restituzione della pittura all’alveo (o all’alveare) di un supporto destinato a scomparire, restituzione di un viaggio dall’esterno verso l’interno, verso l’interiorità da cui è emersa la Figura, che costituisce simbolicamente la porta e un pezzo dell’Oltranza da dove tutte le immagini provengono, protette da un nascondimento forse anche mentale, inconscio, negato alla coscienza. Ciò che si nega alla coscienza viene evocato per creare meraviglia, orrore, o per recare luce nella tenebra o tenebra nella luce, e infine per tornare poi nel luogo dei luoghi, nella selva invisibile delle immagini, dove queste occupano tutto il possibile della fantasia, di ciò che sfugge o mai sarà concreto.

Che cosa c’è di concreto nell’immagine artistica se non la espressa volontà di farne un esempio di ciò che sfugge alla materia? E se appunto questa stessa immagine, una volta evocata, messa in gioco nell’universo o nella dimensione umana fosse già stata in qualche modo truccata, ovvero predisposta all’assenza, alla mancanza che questa dimensione sceglie come fondamento? È il problema che anima Fazio e lo rende così inquietante nelle sue ultime opere, che pongono un problema filosofico e teologico di fondo sulla sostanza delle immagini, sulla verità iconica.

L’artista già in parte l’affronta, grazie all’uso del favo e all’ardita tecnica pittorica e rappresentativa, mediante cui vengono esposti volti bucherellati da un numero imprecisato di celle esagonali sparse a caso, egli intende esplicare come la creatura guardi per definire un pezzetto del visibile, concentrandosi sui contorni delle forme in funzione dei propri bisogni.

La visione è un mezzo di cui sfugge il fine immediato alla coscienza, la visione è rifuggente allo sguardo e all’oggetto focalizzato, e dunque in verità si nega nel suo darsi. L’immagine è negata nello stesso modo in cui il corpo (che è pura immagine) si nega. Il vedente non coglie la visione nella sua purezza, ma la proietta sotto forma di immagine, ovvero come idea immaginativa, che la mente elabora. Viene negata al vedente l’immagine di se stesso che svelerebbe l’atto nella sua essenza. Questo è il motivo che spinge Fazio e i pittori post-figurativi a soffermarsi sul corpo o su una parte di esso (il volto), e perché il fine massimo per un pittore sia costituito dall’autoritratto. Vedere è solamente e precipuamente sfiorare, toccare, e mettere in moto o stropicciare una superficie contro un’altra per estrarne l’immagine, risultato finale dello sfigurarsi o dello sfiorarsi. Si guarda per diventare pellicola dell’altro, l’Altra immagine. Il senso del vedere non può essere altro che la mutazione – la metamorfosi di cui solo i camaleonti posseggono o conoscono la verità. Verità che i pittori intuiscono, affidando alle loro creazioni (alle loro mutazioni) il problema.

Si vive tutta la vita alla ricerca del proprio sguardo di cui si è privati perché il vedere umano è un pensare di vedere. Vedere è mutare nell’altro per essere della propria immagine il vuoto che rende visibile l’altro vuoto.

Non comparabile con gli artisti concettuali, i performer, i videoartisti (quelli che non usano il pennello, per intenderci) che hanno perso il senso della ricerca dello sguardo, consumatori e non indagatori, meri interpreti dello sguardo del loro tempo, Fazio si pone come uno dei pittori europei più colti e interessanti, autentico, acuto notomizzatore del mistero dell’immagine.

Ho rivolto a Simone Fazio alcune domande sul suo lavoro artistico.

Fazio, esiste libertà per il pittore?

Nel 2012 per la prima volta mi sono soffermato a riflettere su un particolare che iniziava a sfuggirmi, nonostante una certa esperienza accumulata dal 2005, anno in cui ho iniziato questo percorso da pittore. Mi sono chiesto seriamente quanta libertà artistica avessi davvero, quanta possibilità di dire e creare tutto quello che la mia mante era capace di pensare e le mie mani di fare, e quanto fosse frenato dal “folle” mercato. La galleria per la quale lavoravo mi aveva messo di fronte a qualcosa di assurdo e in più iniziava a “scartare” opere perché “non conformi al mercato”. Pensavo che il mercato si potesse creare e non solo subire. Fino a quel momento almeno avevo avuto l’impressione che fosse così, come per qualsiasi altro prodotto dell’uomo. Quella fu la prima volta in cui qualcosa si strappò e mi rese molto più disilluso riguardo alle questioni artistiche in generale. L’artista non era nulla a confronto del potere che serviva per affermarlo, e che di conseguenza, qualsiasi sforzo “umano” non avrebbe sortito nessun cambiamento se non fosse subentrata la mano “divina”. L’élite aveva fatto per la prima volta la comparsa nella mia coscienza artistica. Quel determinato pensiero, quella determinata “visione” lucida, quel pensare all’enormità della cosa, mi creò la condizione per “vedere” nitidamente cosa fossi nell’ingranaggio della macchina del “mercato artistico”: una mezzena di carne fresca pronta alla frammentazione fino all’esaurimento. La carne sacra di Caravaggio, la carne colata via dalla nevrosi di Bacon, diventa per me solo un prodotto per un tempio consumistico che porta la stessa creatura creativa ad essere merce fino al suo stesso esaurimento.

Come hai vissuto gli anni di reclusione forzata dovuti al morbo pandemico?

Da artista per me è facile capire la situazione. Chi come me lavora sempre in solitudine, ritirato in una riflessione continua sul mondo e sulle dinamiche personali che lo animano, vivere isolati è un mantra. Isolarsi per concentrarsi. e poi, ho sempre cercato di capire l’assurdo che ci circonda. nella mia pittura e nel mio personale modo di vedere il mondo l’apocalisse è sempre stata con noi, ci camminava di fianco, lo ha sempre fatto. alcuni la vedevano, altri ne ridevano giustamente ci davano dei visionari… Ora più che mai penso che sia necessario uno sforzo di intenti per dichiarare come vogliamo il mondo di domani. Ma ho anche un po’ di dubbi, sul fatto che cambieremo in meglio.

Tra i pittori post-figurativi a mio avviso quel che manca è la visione della manipolazione scientifica sul corpo e uno sguardo più attento alle mutazioni antropologiche, e a quelle di natura storico-politiche che intervengono sul corpo delle masse… Una maggiore attenzione al simbolico… occorrerebbe un ritorno all’intelligenza di Savinio…

La forza simbolica a proposito del discorso storico-politico e sociale è una causa persa nel panorama italiano. È una vena spenta che non porta da nessuna parte perché non c’è più una coscienza, o un’idea, che la possa sostenere. �nel 2012 presentai una natura morta che riportava la copertina del Mein Kampf contrapposta ad un sedativo miorilassante, che apriva una narrazione al politico, al risorgente nascosto, all’aberrazione che ci indigna per il simbolo ma che inconsciamente abbracciamo nell’ideologia dell’odio verso l’altro…. Non ti dico: nessuna galleria ne ha voluto parlare, nessun critico si è preso la responsabilità (insieme a me ovviamente) di fare un discorso serio e urgente sulla questione. anzi, rifiuto totale. Come a farmi capire che il mercato, e quindi l’arte in italia, non è interessata a queste cose a meno che non siano solo innocue e canzonatorie.

Noi, artisti come Kiefer o i Chapman Brother, che lavorano politicamente sul ricordo e sull’ideologia e sui mostri che la politica ha prodotto, non ne abbiamo più avuti. Per quanto riguarda l’estetica contaminata con la ricerca scientifica, nel mio piccolo sto sempre di più accennando al fatto che sarebbe significativo ritornare alla contemplazione di quell’arte che ha ancora connotati alchemici al suo interno, quella pittura che per forza di cose era ancora una conoscenza scientifica, di polveri minerali, vegetali, di collanti animali e ricerca della laccatura perfetta, della cera giusta, degli agenti seccativi più puri. Ci aspettano tempi duri nei quali avere dimestichezza di ciò che compone il mezzo sarà risolutivo per i problemi che ci troveremo ad affrontare. Voglio vedere se l’industria non sarà più in grado di garantire bombolette con solventi idonei, cosa ne sarà di tutta l’esperienza “graffitara” (che a mio avviso è talmente sopravvalutata da coprire subito con pattume e immondizia le poche buone cose che potrebbero sopravvivere autonomamente). Lavorando con acidi e resine, polveri e paste ricavate dallo scioglimento ella cera alle volte mi sembra di essere io stesso lo scienziato, e si può capire facilmente come 300-400 anni fa questa fascinazione potesse portare alla pretesa di trasformare il ferro in oro. La composizione di un’immagine richiede tanta bravura ma anche enorme conoscenza. A Gennaio del 2020 ho dato alle stampe un calendario perpetuo. La serie di 12 opere che la compongono (70x70cm cad) ha avuto origine nel caos ma si è dimensionata e rivelata solo con un approccio semi-scientifico al tema: il tempo. Volevo portare all’eccesso le peculiarità di questo colore “nuovo”, senza rendermi conto che non avrebbe risposto come quello sicuro industriale. Ho quindi scardinato ogni sicurezza per addentrami in una dimensione sconosciuta, dimensione che mi sono reso subito conto di avere molto a che fare col tempo. mentre lavoravo alle 12 tele mi sono reso conto che tutto quello che facevo poteva esser anche “buona alla prima” ma lo scorrere del Tempo mi suggeriva invece che la stratigrafia del colore, le masse, lo stendere e raschiare, lo schiacciare…

Stavano tutti sortendo il loro effetto in stretta relazione al tempo fisico che subiva la lavorazione. La base cerosa del colore è il tempo: tutti i corpuscoli pigmentati che ne rivelano identità siamo noi… Entrambi viviamo anche separati, ma senza senso. L’incontro delle due cose crea il caos circolare che ci unisce e ci rivela il flusso nel quale contenere il nostro scorrere. Il tempo è un dittatore neutrale: non ha interesse nelle cose ma è le cose stesse. Io vedo e posso decodificare e toccare il mondo che mi circonda (conosciuto e sconosciuto) ma è solo attraverso la fisicità tangibile del tempo che creo esperienza e storia. Se è vero che la luce e lo spazio rivelano le cose rendendole decodificatili e interpretabili, nella mia umile visione d’insieme, è solo il tempo che le rivela. Vado quindi in contrapposizione a tutta la filosofia orientale che vede nel tempo solo un’illusione che attende all’infinito cambiamento e alla mutazione…. Il concetto stesso di cambiamento non può essere separato dalla sua fisicità. È suono ed eco nello stesso piano, la madre che permette lo scorrimento del “tutto” (panta rei) all’interno e all’esterno di sé. Con lo studio dei buchi neri abbiamo intuito che ci deve essere un equilibrio che regola la forza della materia: se nulla si crea e nulla si distrugge le particelle esaurite devono per forza trovare un’altra collocazione. E allora perché non immaginare che queste enormi voragini energetiche altro non siano che punti casuali in cui il tempo butta le sue colonne portanti per mettere equilibrio nel caos?

Se tutto questo motore distruttivo (ai nostri occhi) fosse solo la logica conclusione del tutto, non avrebbe il tempo una sua dimensione assolutamente pragmatica? E l’illusione delle nostre vite non avrebbe più senso imputarla a tutto ciò he ci rende umani?: sentimenti, speranze, amore e morte.