Gerhard Richter: la tecnica e le opere più importanti

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È chiaro che i miei paesaggi non sono solo belli o nostalgici, romantici o classici, come dei paradisi perduti; sono soprattutto non veritieri (anche se non sempre ho trovato il modo di mostrarlo). E per non veritieri mi riferisco al modo glorificante con cui noi consideriamo la natura, la quale, in tutte le sue forme, è invece sempre contro di noi; poiché la natura non conosce alcun senso, nessuna pietà, nessuna simpatia. Non conosce nulla ed è assolutamente priva di ragione: la totale antitesi di noi stessi, assolutamente inumana.

Questa dichiarazione è stata fatta da Gerhard Richter (classe 1932) nel 1986; in realtà il pittore tedesco, nel corso della sua vita, ha raffigurato innumerevoli paesaggi, da dolci vedute agresti e marine ad alte montagne. Tuttavia, un così totale rifiuto della natura rappresenta un’asserzione ideologicamente forte, anche se smentita dai fatti: la considerazione dell’elemento naturale come “menzognero” probabilmente deriva dall’alterità con cui la cultura di massa ha teso ad approcciarsi al mondo naturale, dalla diffidenza, dopo le due guerre, nei confronti di tutto ciò che è estraneo e sconosciuto, facendo sì che l’esperienza del reale sia sempre più filtrata e indiretta. Sul piano estetico-artistico, la produzione richteriana risente di questo clima culturale, la quale nasce sovente da elementi fittizi, irreali, poiché egli dipinge la stragrande maggioranza delle sue opere a partire da fotografie, scattate personalmente e non, confluite organicamente a partire dagli anni Settanta nell’immenso album Atlas.

Nato a Dresda, Richter lascia la città a soli tre anni, conservando con sé un ricordo mitico ed idealizzato del contesto pre-bellico, anche perché il periodo della Seconda Guerra Mondiale rappresenterà per lui una successione di lutti familiari. Durante l’adolescenza manifesta il primo interesse per l’arte e, dopo un rifiuto, nel 1951 riesce a tornare a Dresda e ad essere ammesso all’Accademia di Belle Arti, terminando brillantemente gli studi nel 1956. Tre anni dopo, compie un viaggio a Documenta II a Kassel, dove ha modo di osservare opere di artisti come Jackson Pollock o Lucio Fontana; questo fatto avrà molta risonanza nella formazione del proprio linguaggio, tanto che decide di lasciare la Germania Orientale alla ricerca di maggiore libertà espressiva e di trasferirsi a Düsseldorf (Germania Occidentale), roccaforte della pittura informale, dove era attivo il gruppo Fluxus. Lì Richter si iscrive nuovamente all’Accademia per confrontarsi con le tendenze artistiche dell’Ovest, e Joseph Beuys viene nominato Professore poco dopo l’arrivo dell’artista tedesco.

Richter inizia nel 1962 a collezionare in maniera non organica e disomogenea fotografie ed istantanee, anche banali, scattate nei suoi viaggi o semplici cartoline e ritagli di giornale, non pensando sicuramente che questa attività avrebbe pesato grandemente e per lungo tempo sul suo modo di fare arte. L’artista diede a questa miscellanea il nome di Atlas, Atlante, ancora in fieri ed importantissima testimonianza del suo modo di procedere artistico, per certi versi paragonabile all’Atlante Mnemosyne di Aby Warburg, trattandosi di un insieme di più di 5000 immagini disposte su circa 700 tavole.

Gerhard Richter, Alpi – Atmosfera, 1969

Dal 1968 compaiono nel corpus delle sue opere numerosi dipinti dedicati alla montagna, realizzati tramite la dialettica artistica foto – pittura. Ne è un esempio Alpi – Atmosfera del 1969, dove l’ambiente non è definito e i contorni sfumati delle cime si confondono con la nebbia e l’umidità, come sovente accade nelle sue tele, realizzate come fossero fotografie leggermente mosse, sfocate. Gli ambienti montani vengono raffigurati spesso a monocromo, bianchi e neri con sfumature grigie, colore che denota assenza di positività, tristezza personale che a volte si è estrinsecata e placata tramite l’Arte, ma anche imbarazzo concettuale e senso di impotenza nei confronti dell’impossibilità di descrivere univocamente alcuni soggetti, tra cui i monti:

Il grigio è senza dubbio ispirato alle foto-pitture. Certo, c’entra anche il fatto che per me il grigio è un colore importante, il colore ideale dell’indifferenza, dell’indecisione, del silenzio, della disperazione. In altre parole, di quegli stati d’animo e situazioni che ci colpiscono e per i quali vorremmo trovare un’espressione visiva.

Dunque, oltre la negatività, il grigio porta quasi ad una epochè, ad una moderna sospensione del giudizio per quel che concerne alcuni ambiti, tra cui quello montano, che può, comunque, proprio perché indefinibile, essere latore di un sentimento collegato alla bellezza, «non una bellezza spensierata. Una bellezza molto seria». Considerandola in questo modo, non potrebbe esistere tinta cromatica più adatta da applicare alla resa della natura, illusionista e bugiarda, silenziosa e indifferente a volte, roboante e crudele altre, in montagna più che altrove.

Dagli anni Settanta tende a dipingere partendo da particolari di foto, snaturandoli dal loro contesto, o da ingrandimenti: osserviamo, infatti, sebbene in maniera aurorale, uno sfaldamento del tessuto pittorico tendente verso la non figuratività, come a dimostrare che qualsiasi elemento del reale, quando avulso dalla sua naturale collocazione, in un contatto ravvicinato, perde di significato o ne assume degli altri; diviene, in ultima analisi, astratto.

Negli anni Ottanta è l’opera Il mare di ghiaccio (o il naufragio della speranza) del pittore romantico Friedrich ispira Iceberg, così come la serie dei quattro quadri di Davos è strettamente legata al concetto di sublime romantico, dove il sole che dovrebbe illuminare il picco montano della foto-pittura è offuscato, in linea con l’indefinitezza legata al grigio, coperto da nebbia e nuvole.

Gerhard Richter, Iceberg, 1982, olio su tela

La rarefazione figurativa si presenterà, nel corso della vita artistica del pittore, sempre più marcata: a metà degli anni Ottanta Richter esce da una difficile situazione personale di tipo sentimentale, alla quale forse è dovuta una certa cupezza cromatica nelle opere precedenti. Ora torna il colore, dapprima con lavori su vetro, poi, dal 1986 con una serie di “foto sovraverniciate”, connubio di tre elementi: fotografia e figuratività (fotografie realmente scattate di luoghi realmente esistenti) e astrazione data dalla pittura. Richter aveva sempre impiegato ritagli di giornale, di riviste e foto come linea guida per eseguire le sue opere, guardando, contemporaneamente, ai classici; a questo punto della sua carriera, però, accade qualcosa: egli inizia a riflettere sulla grande mole di fotografie che circola nel mondo odierno, vedendo in esse pura immagine, sganciata, per quanto possa esserlo un prodotto umano, dalla riproposizione umorale e arbitraria del reale. Inizia, così, a lavorare direttamente su pellicole stampate:

La fotografia non è reale, è pura immagine, mentre la pittura ha una sua fisicità: si può toccare la tela, ha una sua realtà, sebbene produca pur sempre un’immagine, più o meno bella. Ma queste sono solo teorie che non servono a nulla. Una volta ho preso delle fotografie di piccolo formato e le ho coperte di pittura. Questo ha in parte risolto la questione meglio di qualsiasi dichiarazione che avrei potuto fare a riguardo.

Nelle fotografie sovradipinte, emerge dal mondo oggettivo una specie di forza psichica, lucreziana, nella visione in cui l’uomo cerca in forma materiale ciò che vive spiritualmente, eliminando il problema della forma, poiché l’arte astratta o pseudo tale si risolve nel realismo, essendo l’unica in grado di mostrare il cosmo spirituale.

Allora, in queste opere dai titoli spesso impersonali, come 12.3.92 il dato sensibile di una foto, di una cartolina, di un paesaggio lacustre alpino, con le cime che dominano lo specchio d’acqua circondato da conifere, sembra inglobato in un magma universale che scioglie la materia e le conferisce nuova esistenza, al di là dell’immagine imperfetta del mondo fenomenico che i nostri sensi ci trasmettono. La pozione di reale che la camera oscura ha impresso sulla carta viene divisa in fotogrammi che, assemblati, formano il paesaggio, ma in modo più vivo e colorato di come una montagna fredda ed innevata potrebbe sembrare, esprimendo la stimmung montana, intrisa di spiritualità, che l’uomo lo voglia o no, che cerchi di ferirla o meno; sentimento del sublime stavolta è espresso tramite il colore, con tocchi, grumi e schizzi che richiamo il clima dell’Arte Informale, ri-creando un ambiente mistico e rarefatto, che sembra portare a vertigine ed obnubilamento dei sensi. Come Friedrich aveva dipinto il paesaggio osservandolo dal vero, Richter parte dall’osservazione filtrata dalla modernità, per poi andare ad operare sulla modernità stessa, applicando però su di essa, letteralmente, il peso della tradizione.

Gerhard Richter, Piz Surlej, Piz Rosatsch, olio su fotografia a colori, 1992

Altro fatto interessante: consideriamo la foto sovradipinta Piz Surlej, Piz Rosatsch, del 1992 come le altre due. Su di una foto del monte svizzero, in una giornata assolata, limpida, con il cielo terso, di un blu disarmante e il sole a mezzogiorno, con sotto i monti solo parzialmente coperti di neve, Richter applicata direttamente tre macchie di colore, una nera e due bianche, come a ricordare qualcosa di ascendente o fluttuante, indicando una esistenza puramente ipotetica a fianco di un dato reale, in un accostamento che tanto ricorda le Amalassunte su fondo blu del marchigiano Osvaldo Licini.

Man mano, la materia pittorica si sfalda, fino ad arrivare alle prove degli anni Ottanta e Novanta, astratte nel senso proprio del termine, dove il reale viene sublimato e affiora il senso più vero dell’arte, quello religioso, nell’ottica che un quadro non debba per forza avere un senso ed essere spiegato, compreso, essendo attinente alla sfera dell’illogico e dell’irrazionale. È il caso di opere come Montagne (1984), incrocio di forze, colori e piani bidimensionali, o della tela Ghiaccio, dove il bruciante gelo della materia liquida solidificata viene ben trasmesso. Ovviamente, di logico in queste associazioni c’è ben poco, tutto è basato su un gioco di sensazioni immediate. Afferma l’artista nel 1986, riguardo le vedute cittadine e le rappresentazioni alpestri:

Ho iniziato a dipingerli in un periodo in cui non volevo più fare foto-pitture figurative. Cercavo di svincolarmi da un linguaggio divenuto univoco, da forme narrative ripetitive e limitate. Le città morte come le Alpi mi hanno sedotto, le une come le altre erano mucchi di sassi, cose che non parlavano. È stato un tentativo per comunicare un contenuto più universale.

Gerhard Richter, Fuji, 1996

L’universalità passa, dunque, a detta del pittore, per forme morte, prive di vita; a volte la contraddizione è tangibile, specialmente in termini energetici, in lavori come Fuji del 1996. La sacra montagna giapponese si dissolve, l’energia ascende verso l’alto in un trionfo di bianco, rosso e celeste, mentre i verdi monti minori, appena accennati, restano ancorati a terra, soggetti alla forza di gravità. Lo sfocato, il senso di indefinito scenografico danno uniformità alla tela: l’artista non sa niente di preciso sul reale, per cui l’indefinito pittorico è corrispondente di incertezza ontologico-esistenziale; potrebbe trattarsi di una foto mossa, venuta male, che non dà conclusioni sicure sul reale. Come, del resto, alle soglie del Nuovo Millennio niente sembrava essere idealmente più stabile e sicuro. Solo le montagne continuavano (e continuano) a restare indifferenti nel loro posto.

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