Providence di Nathan Fake, il nuovo album dà qualche rammarico

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Oltre dieci anni e tre album dopo Drowning In A Sea Of Love, che segnò la strada verso nuovi lidi dell’intelligent dance music, Nathan Fake è tornato con il quarto: Providence, firmato dall’iconica Ninja Tune. Il distacco dal microcosmo Border Community e l’incontro di una realtà che – seppur dal target simile alla creatura discografica di James Holden – è negli ultimi anni sinonimo di una distribuzione piuttosto ampia, è già un viatico che può far intendere che tipo di progetti l’artista di Norfolk ha imbastito nel corso degli ultimi anni. Un recente passato, a dirla tutta, fatto di complicazioni personali e blocchi creativi, che come dichiarato da egli stesso lo hanno costretto ad una lunga pausa dall’ideale forma di composizione continuativa ed ispirata, comfort zone a cui era abituato.

Sciolti alcuni bruschi nodi e rimessosi in carreggiata, Fake si è immerso in un approccio di scrittura non del tutto convenzionale ai suoi standard, non immediato per un pubblico che ne conoscesse il vocabolario, architettando trame di una serie di landscape glitch, drone e techno disconnessi e tirati. La Korg Prophecy, matrice delle sonorità che scorrono interamente in Providence, fa la voce grossa, acutizzando tonalità e colori aspri, costantemente irrequieti e dal passo estremo, acquisendo un linguaggio molto denso e cupo. Non ci sono rimandi mentali alle suite romantiche come You Are Here o alla sempiterna The Sky Was Pink, né le virate più fisiche e terrestri di Paean e Rue dell’ultimo Steam Days. L’efficacia di alcuni brani, come HoursDaysMonthsSeasons, è nella sua caparbia fusione di idee di progressione, scure e incerte come per la maggior parte dei brani, ma impossibili da non percepire. Lo stesso, però, non si può dire della title track PROVIDENCE o di CONNECTIVITY, dai tecnicismi sofisticati e alienanti, che non sembrano mai dare la sensazione di equilibrio, di quell’onda anomala creativa che la carta d’identità dell’artista presenta tra le caratteristiche principali.

L’attitudine è molto simile anche nelle tracce vocali DEGREELESSNES (con Prurient) e RVK (con Raphaelle Standell-Preston), che rappresentano una novità non di poco conto per la metodologia del racconto metaforico e color pastello di Fake, priva qui di un quid rivelatore e calibrato, risultando un discreto tentativo non molto azzeccato. Il resto dell’LP riprova, tra istantanee di ambient e di elettronica organica, a ritornare in quel territorio a cui il protagonista appartiene, dentro cui riesce a muoversi con estrema abilità. Ma è un cambio di registro piuttosto netto, in favore di un suono eccessivamente espansivo, dai contorni ruvidi, a richiamare sempre l’attenzione. Un credo stilistico eccessivamente confabulante è quello che fa la differenza, in Providence, rispetto a ciò che negli anni le commistioni artistiche di Nathan Fake hanno portato all’elettronica moderna: un connubio anacronistico di passato, futuro e sperimentazione del presente.

Il passo della sua ultima opera, decisivo in maniera negativa, è stato purtroppo confinarsi in una sintesi molto più scarna ed asciutta di tutte le componenti migliori ascrivibili al suo estro, limitato quasi consciamente. Di contro, esiste un rigore tecnico, metodologico, che risulta però cercare vie impervie e sconnesse. Preso atto – necessariamente – di questa migrazione e di questa fase embrionale di un nuovo corso, il rammarico rimane in riferimento alla qualità e alla genuina presunzione di poter fare meglio, che Nathan Fake certamente possiede. Non un nostalgico ricordo di ciò che era e ciò che ha rappresentato, va specificato, ma una sincera incapacità di vedersi travolgere positivamente da questo nuovo tessuto di imprecise ed estemporanee emozioni.

5 / 10

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