Album: Bonobo – Migration

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Simon Green, in arte Bonobo, dj e producer britannico trapiantato negli States, è ufficialmente tornato con il suo sesto studio album. Migration era una delle release attese al varco, in questo inizio anno, con grandi aspettative al seguito giustificate dalla qualità e dalla continuità sorprendente che l’artista di casa Ninja Tune ha saputo tracciare durante gli anni. Black Sands e The North Borders, i due album precedenti, hanno segnato probabilmente in maniera decisiva quel passaggio in cui Green ha trovato una dimensione tutta sua, capace di convincere una vasta fetta di pubblico per la delicatezza nel lavorare sulle sfumature, abbracciando in maniera sapiente ed abile più stili di scrittura e fondendoli in maniera quasi scientifica. Una formula pressoché perfetta, dalle caratteristiche che ci si aspetta nel compositore ideale moderno, a cui è spesso richiesto spaziare tra più mondi sonori. Un concetto molto vicino alla migrazione che Bonobo ha voluto esporre per mezzo della musica, fatta dei simboli e delle lezioni che si possono imparare dalla ricerca di nuove mete, destinazioni, che sono state la cornice di esperienze dei suoi ultimi tre anni di scrittura, compresa la scelta di trasferirsi a Los Angeles dopo una lunga permanenza a New York.

Tutto ciò ha fatto sì che la sua nuova creatura fosse così bramata dagli appassionati già dai primissimi teaser che sono apparsi in rete negli ultimi mesi, poi con il lancio dei singoli che hanno anticipato l’uscita, il 13 Gennaio. Il primo, Kerala, è un connubio tra l’onda ritmica dark di Burial e un animo tropical più terso, che si avverte in diverse forme durante il percorso. Poi è stata la volta di Break Apart, in featuring con Rhye, in cui jazz e soul si mischiano con ambient e chill wave in una ballata avvolgente, che seduce con i mezzi che il nostro è solito fare, e sì, anche molto bene. Un connubio artistico che definisce probabilmente la miglior traccia dell’album, alla pari con 7h Sevens, che è al contempo il picco più sperimentale, in grado di scostarsi dal flusso coerente creato dall’album, sviluppando una trama folktronic mascherata dal downtempo marchio di fabbrica, dove gli archi si fondono con i sintetizzatori, creando magia. Di un’impostazione simile anche Outlier, fatta di linee melodiche elettroniche nitide e forti, tra le più ballabili e imprevedibili, come il synth – forse non del tutto necessario nella dinamica – che diventa protagonista nello sviluppo. Grains è il brano che sembra più di tutti parlare di migrazione sonora, con gli echi vocali ed i sample di matrice soul a mescolarsi nell’intreccio musicale, mente Second Sun, dolce e quieto ritratto di richiamo northborders, mostra l’incontro tra le componenti più sincere e lucenti nelle composizioni di Bonobo, tra archi e piano a disegnare poesia.

La title track, Migration, è l’emblema dell’elettronica per palati fini che l’artista britannico è in grado di portare in vita, formata da un motivo di piano (scritto da niente meno che Jon Hopkins) e una trama malinconica che si avvale man mano di batteria, sample e chords nell’esposizione. Ontario e Figures restano esattamente a metà tra questa stessa stupefazione e una più lucida conservazione di nuovi elementi, pur mostrando spunti interessanti e piacevoli, che continuano ad incarnare lo spirito di una soundtrack mentre si osserva il crepuscolo al tramonto, o al sorgere del sole. Molta curiosità destavano anche i featuring, e se nel caso di Break Apart assistiamo ad uno dei picchi più alti, lo stesso non è possibile dire di Surface (con Nicole Miglis) – probabilmente il brano più debole e poco ispirato – e l’attesissima No Reason, con i vocal dell’ormai ex Chet Faker, Nick Murphy, che è stato il terzo estratto della release, ma che non sembra mai decollare in maniera significativa, risultando abbastanza asettico anche nell’esposizione sonora, rispetto al resto (video ufficiale sopra). Infine Bambro Koyo Ganda, composta con il collettivo marocchino Innov Gnawa, in cui le percussioni e le ritmiche afro si fondono con una linea di basso simile ad Outlier, ha qualche idea nel posto giusto, ma non sorprende così tanto.

Migration ci regala tutte le sensazioni che ci aspettiamo da un album di Bonobo. E lo fa, per gran parte della durata, in maniera veramente convincente, appassionante, nella costante concatenazione di quei paesaggi immaginari che siamo abituati a vedergli creare. La potenza di sistemi così evocativi e totalizzanti, coniugati alla dolcezza con la quale Green compone quel puzzle di generi che regge benissimo da sé, sembra mancare di mordente in alcune fasi di quest’opera, a volte mistificato dal livello d’intensità raggiunto in certi brani, che alimenta sempre più le aspettative, altre per virate verso tentativi non completamente convincenti. Solo qualche breve passaggio a vuoto che si può perfettamente comprendere, se l’impianto stilistico continua in larghissima parte ad essere di una solidità unica: non è di certo l’evoluzione a risentirne, né il trasporto da cui si è catturati, e l’ascolto di Migration è certamente da consigliare a chiunque voglia approcciarsi ad un’elettronica audace e affascinante. Rimarrà, con molta probabilità, tra le uscite migliori del 2017.

7,5 / 10

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