L’erba cattiva non muore mai

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Che strano affare la morte. Questa cosa strana e brutta che colpisce indistintamente tutti, a volte senza preavviso, altre volte con un preavviso che, benché possa essere ampio, non sarà mai abbastanza per accettare la fine. E ci si mente immaginando una vita dopo la morte, pensando che il bene che si possa aver fatto su questo mondo di passaggio sia la garanzia per la felicità eterna. Perché noi, la morte, la temiamo.

Il mondo contemporaneo abbraccia lo spettro della morte come un notabile abbraccerebbe un lebbroso sporco e povero. È il frutto del progresso, della velocità, dell’infinità di informazioni che si possono raggiungere in una quantità di tempo irrisoria, quasi incalcolabile. Ma quando finalmente questa morte arriva nella nostra cerchia di vita la affrontiamo con sentimenti contrastanti: che sia un parente stretto a morire determina un pianto e un dolore profondi e incalcolabili; che sia uno lontano ad essere traghettato da Caronte, lo pensiamo profondamente per qualche giorno durante il rito funebre e poi qualche ricordo, sparuto, forse consistente, che fa sorridere e che fa scorrere una lacrima lenta, pesante, funerea sulla guancia.

Da qualche ventennio ormai, la morte ha assunto una caratteristica peculiare. O meglio, non tanto la morte, ma la percezione che ce ne danno. Che muoia un uomo illustre a livello nazionale o mondiale comporta un grappolo di eventi: prima la notizia sui mezzi di informazione, con voce metallica, da giornalista; poi un breve elenco dei suoi meriti in vita; poi una serie di video memoriali, documentari e repliche di programmi tv che si chiudono con una scritta tipo “Grazie per averci donato un sorriso”, a coronare la giornata del ricordo.

Poi ci sono gli effetti sulla gente: qualcuno con gli occhi lucidi che pensa i tempi in cui è apparso in tv e ha stupito il mondo, accompagnando al ricordo espressioni come “è vero, è stato un grande in questo”; qualcun altro, invece, apprende passivamente la notizia non lasciandosi trasportare emotivamente dal fatto e prendendo amaramente atto che giornalmente muoiono un sacco di persone. Infine ci sono i simpatici che, cogliendo al balzo l’argomento tabù, si chiedono “ma quest’altro mai muore?”.

In Sicilia c’è un motto, un proverbio, che proviene dagli antichi, depositari della verità assoluta, immaginifica cerchia ristretta e colta genitrice di enunciati che si ergono a  veri e propri fondamenti della vita quotidiana: l’erba tinta nun mori mai, l’erba cattiva non muore mai. Da questa risposta si ottiene un’interpretazione oramai convenzionale: le persone cattive non muoiono mai. Perché?

Ammettendo per un momento che sia la verità, ciò implicherebbe una doppia riflessione: da un lato che sia la cattiveria delle persone a renderle longeve, immortali, una scorza dura che le protegge dalla Triste Mietitrice che con la sua falce coglie i deboli, gli onesti; dall’altro lato c’è una riflessione religiosa: la vita è un modo per dimostrare la propria bontà attraverso buone azioni, intenzioni e pensieri, morire significa essere pronti ad entrare in quel regno tutto bianco e felice fatto di persone buone, angeli ed eternità serena. Quindi durare a lungo significa non essere ancora pronti e dimostra la bontà del creatore che, per redimerti, pentirti veramente, ti da ancora del tempo.

Ovviamente ciò comporta delle insanabili e insondabili lacune, insanabili se non attraverso un trattato filosofico-morale degno di un Ambrogio incallito e feroce. C’è però un terzo spiraglio di riflessione che nasce dall’analisi del famoso motto in sé: quando si parla di una persona morta non si spendono che parole gentili e care, cogliendo soltanto il lato buono (anche se questo è posto in profondità). E ancora: qualora ci fossero stati attriti in vita, si dice di non augurare la morte a nessuno sollevandosi dall’eventuale colpa di avergli augurato la morte e che quell’augurio sia stato fatale. Quella persona, quindi, sebbene possa essere stata una iena in vita, merita comunque rispetto e racconti epici che ne enfatizzano le peculiarità. La morte, oltre che spaventare, offuscare la ragione, corrompere i giusti, offre il bilanciamento a qualsiasi azione si sia compiuta in vita. L’erba tinta nun mori mai.