John Cage e l’utopia del silenzio

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“Tutto ciò che facciamo è musica”. Una dichiarazione d’intenti forte da parte di John Cage, eccezionale nella sua capacità di confermare e allo stesso tempo confutare la definizione stessa di musica: l’arte e la tecnica della combinazione di suoni, semplici o complessi, secondo regole e generi differenti. “Combinazione di suoni” appunto, ma il silenzio?

Prima dell’amor vacui esplicitato nella tetralogia dell’incomunicabilità di Michelangelo Antonioni e parallelamente ai White paintings di Robert Rauschenberg, il musicista americano si mette alla prova con quella che definirà in seguito e più volte la sua opera più importante. L’idea originale, nata intorno al 1947-1948, si ispira all’esperienza che Cage stesso vive all’Università di Harvard in una camera anecoica, ovvero quasi completamente insonorizzata. Il compositore si rende conto che il silenzio assoluto non esiste. Al contrario, fa esperienza della “produzione sonora” del proprio corpo: il battito cardiaco, lo scorrere del sangue nelle vene… L’intuizione rivoluzionaria, perciò, riguarda la natura del silenzio, che non è più assenza di suono bensì materia che dialoga con altri suoni e che può essere utilizzata a tutti gli effetti come strumento di espressione artistica.

Quest’operava immaginata, dunque, come il culmine di un percorso graduale a tre tappe nell’utilizzo creativo e massiccio dell’assenza di musica, la prima rappresentata dal Duetto per flauti del 1934 (con un iniziale periodo di silenzio) e la seconda da Waiting nel 1952, che anticipa di pochi mesi 4’33’’ e prevede un solo breve ostinato strumentale.

Il minutaggio espresso nel titolo non è casuale. Esso, infatti, si riferisce allo zero assoluto (0° K, ossia -273, 15° C, pari ai 273 secondi del brano), la temperatura più bassa possibile per la materia ma che, come il silenzio assoluto, è nella realtà dei fatti impossibile da raggiungere.

Quattro minuti e trentatré secondi, pertanto, in cui la partitura (per qualsiasi organico) non prescrive alcun intervento strumentale o vocale. Ciò nonostante, è importante fare un passo in avanti rispetto alla concezione comune di cosa sia la musica e cercare di seguire il ragionamento di John Cage. Se è vero che tutto è musica e che il silenzio assoluto è un’utopia, 4’33’’ è a tutti gli effetti una composizione ricca di possibilità sonore. Nella quiete dell’organico, infatti, la sala da concerto in cui si svolge l’esecuzione si riempie di altri suoni. Il respiro dei presenti, il ronzio di una mosca, un colpo di tosse, lo scricchiolio di una sedia…

I tre movimenti – rispettivamente di trenta secondi, un minuto e ventitré e un minuto e quaranta – recano una sola indicazione, “Tacet”, quantomai eloquente sulla natura dell’opera. John Cage, dunque, chiede agli strumenti di tacere. Ma la vita che prosegue intorno al palco? Quella, evidentemente, può e deve proseguire. Anzi: è importante che vada avanti, in modo tale da diventare essa stessa la composizione. Ciò che è occorre sottolineare, però, è l’essenza spontanea e casuale di ciò che entra a far parte di 4’33’’. Nessun suono e nessun rumore devono essere intenzionali e l’esecuzione necessita un’apertura mentale e una concentrazione pari a quelle canonicamente affidate ad un’orchestra.

Benché lo studio sulla natura del silenzio e sulle sue possibilità di applicazione nel discorso musicale sia solo un capitolo dell’immensa ricerca svolta dal musicista americano, il mondo dell’avanguardia si rende presto conto di quanto rivoluzionario e importante sia questo specifico contributo. John Cage apre le porte ad una riflessione profonda sul lavoro del compositore, sulla quantità e qualità del materiale che modella e propone secondo la propria sensibilità, nonché sull’atteggiamento da adottare in un momento di grandi cambiamenti che investono anche il contesto della musica colta.