La Honvéd 1950-1955: il sogno infranto ungherese

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“Torneremo a casa quando splenderà di nuovo il sole”

Ferenc Puskàs

Gli occhi del Colonnello, un tempo furbi e vivaci, sono ormai vuoti, sbiaditi da un nemico subdolo che scava nei suoi ricordi e li cancella, portandogli via vigliaccamente chi che è stato: l’Alzheimer è un ospite indesiderato che una volta arrivato non se ne vuole andare e costringe chi deve convivere con lui a rinunciare giorno per giorno a un pezzo di sé.

Quest’uomo segnato dalla malattia ha da tempo dimenticato di essere per tanti una leggenda vivente e un passato in cui tutta l’Ungheria gridava negli stadi quel nome, il suo nome: Ferenc Puskàs.

La sua storia parte nel 1927 da Kispest, sobborgo appena fuori Budapest, dove l’unico passatempo è il calcio: lui è innamorato della palla e assieme agli altri bambini del quartiere riempie le giornate di interminabili partite.

Tra questi ci sono Jòzsef Bozsik e Sandor Kocsis, il più piccolo del gruppo, che quando riesce a inserirsi nelle sfide dei più grandi annulla la differenza d’età e si scatena davanti alla porta.

Del talento di Puskàs e di Bozsik se ne accorge anche Franz, il padre di Ferenc, che ha giocato a lungo per il club di Kispest e ora ne è l’allenatore: il loro debutto nel 1943 porta una ventata di freschezza a una squadra che non è tra le più competitive nel campionato magiaro.

Ocsi (fratellino) lo chiamano i suoi compagni più anziani e Puskàs vive quelle prime stagioni da professionista con la leggerezza dei suoi pochi anni, mettendosi in mostra con accelerazioni improvvise, numeri da circo e un magico sinistro che spara violente e imparabili traiettorie contro il povero portiere di turno.

Anche Bozsik lascia subito l’impronta, piazzandosi a centrocampo con una personalità e una sagacia tattica che ne fanno intravedere la classe superiore.

Dopo la Seconda Guerra Mondiale l’Ungheria finisce sotto la sfera d’influenza sovietica, con l’URSS di Stalin che impone il regime comunista di Matyas Rakosi.

La svolta per il piccolo Kispest e per i due ragazzi avviene nel 1949, quando il Regime decide di inglobare il sistema sportivo nazionale e di renderlo funzionale all’indirizzo politico del paese: il Ministero della Difesa annette e trasforma il Kispest nella Honvéd (“difensore della patria”, “soldato”), la squadra dell’esercito ungherese.

Grande architetto della nascita del nuovo club è il commissario tecnico Gusztàv Sebes, che gode della stima di Rakosi e lo convince elencandogli i vantaggi propagandistici di una squadra assemblata con i talenti migliori e destinata a essere non solo il serbatoio privilegiato per la Nazionale, ma anche fulgido esempio della grandezza socialista magiara.

Dopo aver scartato per motivi politici il Ferencvaros (troppo vicino alla borghesia), il Ministero della Difesa vira sulla giovane realtà del Kispest, che è tradizionalmente supportata dagli operai e quindi è funzionale al progetto e sposta nella squadra cinque titolari dell’Ungheria di Sebes.

Sulla porta dell’ex Kispest si piazza Gyula Grosics, conosciuto come la Pantera nera per i suoi riflessi felini, che compensano ampiamente la sua bassa statura.

Con il Partito Comunista, che ricambia poco cordialmente la cortesia, il portiere si ama poco e nel 1949 prova a fuggire oltre confine: la polizia segreta lo cattura quasi subito e lo accusa di spionaggio e tradimento, costringendolo agli arresti domiciliari, in attesa di una condanna che Puskàs (nominato Colonnello ora che la Honvéd appartiene all’esercito) e Sebes riescono a sventare.

Come Grosics, anche Gyula Lorànt è anticomunista, ma questo non ne vieta il trasferimento dal Vasas all’Honvéd, che ne fa il perno della difesa, dove si dedica a intimorire con la sua stazza l’avversario di turno: anche lui, dopo un tentativo di fuga, finisce nelle grinfie della polizia segreta e ancora una volta sono i buoni uffici di Sebes a salvarlo dai lavori forzati.

Dal Ferencvaros arrivano gli altri tre grandi elementi, che completano il nuovo, incredibile schieramento della Honvéd: Laszlo Budai, che porta in dote il suo carico di cross e dribbling con cui domina la fascia destra; Zoltan Czibor, la cui fantasia ed estro sono secondi solo a quelli di Puskàs; infine Sandor Kocsis, che dopo aver lasciato Kispest ed essere cresciuto è diventato un attaccante dotato di uno scatto bruciante e un colpo di testa letale.  

La Honvéd ora è talmente piena di talento che cambia la mappa del campionato magiaro, vincendolo in cinque occasioni dal 1949 al 1955 (con due secondi posti) e solo la MTK riesce a stare al suo passo, raccogliendo due successi nella competizione.

La MTK avrebbe tra i suoi giocatori altri campioni da poter aggiungere alla Honvéd, come l’eclettico difensore Mihaly Lantos e il grandissimo Nandor Hidegkuti, ma è Sebes, sempre lui, a decidere di lasciarli nell’altra squadra di Budapest: nei suoi piani la Honvéd è nata sì per primeggiare, ma in un torneo dove ci sia competizione, in modo da esaltarne maggiormente le vittorie.

La squadra, dopo essere stata guidata dal padre di Ferenc e da Béla Guttman (il cui rapporto non proprio idilliaco con Puskàs lo porta al siluramento), passa nelle abili mani di Jeno Kalmar, che con le sue intuizioni rivoluziona il gioco non solo della stessa Honvéd, ma di tutto il calcio magiaro.

Il nuovo tecnico capisce che per sfruttare al meglio l’immenso talento offensivo di cui dispone deve apportare alcune modifiche al Sistema (il modulo tradizionalmente più in voga in quegli anni) e fa della sua squadra un laboratorio tattico, sfornando una variazione sulla strategia creata da Herbert Chapman.

Normalmente chi usa il Sistema scende in campo con tre difensori, due mediani, due mezze ali e tre attaccanti (due ali e un centravanti), schierandosi secondo un 3-2-2-3 o WM, ma Kalmar intuisce che la sua squadra può diventare ancora più letale con gli opportuni ritocchi.

Il suo centravanti è il formidabile Lajos Tichy, un finalizzatore con un grande senso del goal, ma sia Puskàs che Kocsis, pur giocando da mezze ali, hanno un bagaglio tecnico superiore e con le loro qualità tecniche fanno ciò che vogliono davanti alla porta: magari con più libertà e più spazi Ferenc e Sandor potrebbero essere letali.

Così Kalmar sposta i tre attaccanti (le due ali Budai e Czibor e la punta Tichy) qualche metro più indietro, mentre Puskàs e Kocsis si avvicinano alla porta avversaria, diventando i veri punti di riferimento di un attacco rivoluzionario.

Lo schieramento diventa un 3-2-3-2 o MM e Tichy, in una posizione di vertice nel centrocampo, cambia i propri compiti trasformandosi nel primo trequartista della storia: questa innovazione tattica scardina gli equilibri in campo e fa sì che il centrale difensivo avversario, nel tentativo di marcarlo a uomo, sia portato fuori posizione, aprendo sconfinate praterie al micidiale sinistro di Puskàs e agli inserimenti sui cross di Kocsis.

La Honvéd diventa in poco tempo una piacevole ed entusiasmante diversivo per una popolazione sottomessa dal pugno di ferro del Partito Comunista: i suoi sette campioni danno spettacolo, andando a formare con Palotas, Hidegkuti e Lantos della MTK, Buzànsky del Dorog, Toth del Csepel e Zakariàs del Voros il nucleo della Nazionale magiara di Sebes.

Il CT, che segue molto attentamente ciò che avviene alla Honvéd, prende in blocco le idee di Kalmar e le trapianta con decisione nella sua squadra, preferendo però Hidegkuti a Tichy nel ruolo di attaccante atipico.

Le intuizioni tattiche e il debordante talento in avanti trasformano così la Honvéd e la Nazionale in perfette macchine di calcio e goal, catalizzando l’attenzione internazionale: entrambe le squadre diventano in poco tempo richieste dovunque per incontri amichevoli e Rakosi lascia fare, convinto che l’esportazione del talento magiaro sia la migliore pubblicità per la nazione.

Ai giocatori però viene intimato di non approfittare di questi viaggi per provare a fuggire all’estero, perché le conseguenze sarebbero tutt’altro che piacevoli: scotta ancora nei piani alti del regime la vicenda di Làszlo Kubala, stella di prima grandezza del Ferencvaros e del Vasas, che nel 1949 era scappato in Austria e, dopo aver ottenuto la cittadinanza spagnola, si era accasato al Barcellona.

L’occasione per mettere in mostra di fronte al mondo la grandezza del calcio ungherese capita nel 1952, con le olimpiadi finlandesi: Sebes e i suoi arrivano facilmente in finale e sconfiggono la Jugoslavia 2 a 0 con goal di Puskàs e Czibor.

Le cronache riportano la superiorità indiscussa della selezione magiara, riconosciuta universalmente per le prestazioni e la qualità dei suoi interpreti come la squadra più forte in Europa: in patria, di fronte al successo olimpico, l’Ungheria viene ribattezzata Aranycsapat, la Squadra d’oro.

L’Ungheria vince anche la Coppa Internazionale (il Campionato europeo del tempo) e riceve l’invito dall’Inghilterra per un’amichevole da disputarsi a Londra nel novembre 1953: di fronte ai centomila spettatori di Wembley gli inglesi, da sempre imbattuti in casa, vengono sconfitti con un 6 a 3 e per l’Aranycsapat è l’apoteosi definitiva.

Nel maggio 1954, su richiesta degli inglesi (che evidentemente non ne hanno avuto abbastanza), l’Ungheria concede la rivincita: a Budapest non c’è partita e l’Inghilterra subisce la sua più grande sconfitta di sempre, finendo schiacciata con un perentorio e roboante 7 a 1.

Per chi non se ne fosse ancora accorto, ormai dovrebbe essere chiaro: l’Aranycsapat è la squadra da battere negli imminenti Campionato del Mondo svizzeri, distanti poche settimane.

Dopo aver scherzato con la Corea del Sud per 9 a 0 nella prima partita del girone, i magiari se la devono vedere con la Germania Ovest, che umiliano con un sonante 8 a 3.

Purtroppo per l’Ungheria la vittoria è particolarmente amara: Puskàs è costretto a uscire per un brutto infortunio dopo un’entrata scellerata del suo marcatore Liebrich, frustrato dalle continue provocazioni della strafottente stella, che si diverte a umiliarlo con tunnel a ripetizione. 

Nei quarti di finale l’avversario designato di un’Aranycsapat priva a tempo indeterminato di Ocsi è il temibile Brasile di Djalma Santos, Didi e Julinho.

L’incontro è tutt’altro che semplice per l’Ungheria, con i sudamericani che ribattono colpo su colpo alle folate offensive magiare: alla fine gli ungheresi si impongono per 4 a 2 in una partita che verrà ricordata più per la violenza (Puskàs verrà addirittura alle mani con Pinheiro, rompendogli una bottiglia in testa negli spogliatoi) e le espulsioni, piuttosto che per il bel gioco.

In semifinale ora li aspetta l’ostico Uruguay di Schiaffino, campione del mondo in carica: anche questa partita è aspra e dura e termina solo ai tempi supplementari, quando Kocsis segna la rete del definitivo 4 a 2.

La finale è contro la Germania Ovest, che sulla carta è molto più abbordabile del Brasile e dell’Uruguay e poi è già stata affrontata e annientata nel precedente incontro del Mondiale.

Sebes vive le ore che precedono la finalissima contro la Germania Ovest con più di un dubbio che lo tormenta: Puskàs sembra recuperato e arruolabile, ma la sua condizione precaria potrebbe rivelarsi controproducente in un’epoca dove non è concesso fare sostituzioni durante il match.

È lo stesso Puskàs a decidere per lui, rifiutandosi categoricamente di essere escluso dalla gara, nonostante più di un compagno nello spogliatoio lo preferisca da spettatore piuttosto che a mezzo servizio in campo: alla fine Sebes cede e Ocsi rientra nella formazione titolare.

Così il quattro luglio la Germania Ovest e un’Ungheria spossata dalle terribili sfide con Brasile e Uruguay, ma con un Puskàs di nuovo disponibile, si affrontano sul campo di Berna per l’ultimo atto del Mondiale 1954.

Dopo cinque minuti proprio Ocsi segna il vantaggio magiaro, seminando il solito Liebrich, che vorrebbe finire il lavoro iniziato nel loro precedente incontro. I tedeschi sembrano accusare il colpo e faticano a riprendersi, così Czibor, approfittando di uno svarione difensivo, raddoppia agevolmente il bottino dell’Aranycsapat: in soli dieci minuti scarsi l’Ungheria sembra già pronta a sollevare la Coppa del Mondo.

Il campo intanto inizia a risentire della pioggia incessante e a farsi sempre più pesante e gonfio di pozzanghere: una di queste cattura un incauto retropassaggio di Zakarias verso Grosics, consentendo all’opportunista Morlock di accorciare le distanze all’undicesimo.

Un’altra imprecisione difensiva su calcio d’angolo permette a Rahn di pareggiare al diciottesimo: in pochi minuti gli stati d’animo delle squadre sono già ribaltati.

La partita prosegue con l’Ungheria che attacca a testa bassa senza riuscire però a scalfire il muro tedesco: a sei minuti dalla fine l’ennesima leggerezza difensiva magiara lascia un’altra occasione al limite dell’area a Rahn, che ne approfitta e con un sinistro imparabile supera ancora Grosics.

Ci sarebbe ancora una speranza per la Squadra d’Oro, ma il goal di Puskàs al novantesimo viene annullato dal guardalinee per un fuorigioco inesistente: incredibilmente la Germania Ovest vince la Coppa Rimet.

Stavolta ad accogliere Puskàs e il resto della squadra non c’è nessuno e proprio il silenzio opprimente fa più male di una contestazione: il partito ha maldigerito la sconfitta e Sebes salva il posto per miracolo, mentre tra i giocatori è il solito Grosics quello che paga per tutti e che deve vedersela con l’AVH.

Per gli ungheresi l’insuccesso dell’Aranycsapat sembra portar via quella coperta con cui celare un’esistenza vissuta sotto padroni feroci e spietati, che pur cambiando colore e indirizzo politico nel corso degli anni non sembrano differenziarsi più di tanto: la delusione è enorme e la Nazionale e i suoi giocatori perdono consensi, venendo anche messi in discussione, come se la disfatta maturata in Svizzera certifichi la sconfitta di un popolo intero e non di una squadra di calcio.

Nei mesi successivi la stanchezza nei confronti del regime cresce e si trasforma in un malcontento diffuso, fino a sfociare nell’ottobre 1956 in una contestazione generale, che in poco tempo diventa armata: l’URSS invia l’esercito a sedare quella che è a tutti gli effetti una rivolta di un popolo per riappropriarsi della libertà.

Nel caos generale Puskàs apprende dai media di essere morto, falciato mentre combatte secondo alcuni a fianco dei rivoltosi, secondo altri con la famigerata AVH: Ocsi probabilmente in altre circostanze si farebbe una risata, ma in quel momento in Ungheria c’è poco da ridere, mentre gli scontri a fuoco invadono la capitale e le strade si riempiono di cadaveri.

Nonostante la grave situazione interna il calcio non si ferma e la UEFA non acconsente a posticipare l’incontro di Coppa dei campioni tra la Honvéd e l’Athletic Bilbao, costringendo Puskàs e gli altri a lasciare il paese per la Spagna.

A Bilbao vincono i baschi per 3 a 2, mentre nel campo neutro di Bruxelles il pareggio per 3 a 3 sancisce la sconcertante eliminazione dalla coppa dei magiari, chiaramente poco lucidi e sopraffatti dalla preoccupazione per le loro famiglie a casa.

Dopo l’incontro, in quelle che sono ore drammatiche, i giocatori e lo staff tecnico decidono di non rientrare in patria: scelgono di ammutinarsi e per racimolare i soldi necessari alla fuga dei loro cari dal paese organizzano delle amichevoli in giro per l’Europa e il Sudamerica.

Quando tornano in Europa dal Brasile vengono informati che le truppe sovietiche hanno ormai ristabilito l’ordine e spento la resistenza nel sangue: la squadra si spacca e Grosics, Boszik, Budai, Tichy e Lorant decidono di rientrare e affrontare le conseguenze del loro gesto, mentre il tecnico Kalmàr, Kocsis, Czibor e Puskàs scelgono di restare dall’altra parte della Cortina di ferro, facendosi raggiungere dalle loro famiglie.

La squalifica internazionale voluta dal governo ungherese non permette ai fuggitivi di riprendere subito l’attività agonistica e gli accordi che nel frattempo i giocatori hanno firmato con i club occidentali vengono annullati: ci vogliono mesi prima che Kocsis e Czibor riescano a raggiungere Kubala al Barcellona, mentre Puskàs, in preda alla depressione e all’impossibilità di unirsi all’Inter, prende venti chili e sembra ormai un ex.

Su di Ocsi scommette alla fine il Real Madrid di Di Stefano, che in quegli anni colleziona assi come figurine: contrariamente a quanti lo considerano finito (e anche a Madrid non mancano) Ferenc si rimette in forma e contribuisce alle nuove vittorie del club spagnolo, giocando fino a quarant’anni.

Il nuovo governo ungherese non ha alcun interesse a continuare nel progetto di Sebes (ormai sempre più ai margini dell’élite) e la Honvéd, privata all’improvviso dei suoi maggiori fuoriclasse, scivola inesorabilmente verso un ruolo di semplice comprimaria nel campionato magiaro.

Anche la Nazionale, a seguito della squalifica di Puskàs e degli altri fuggitivi, perde il suo status di squadra da battere, non riuscendo più a ripetere le grandi prestazioni di quando era la temuta e invidiata Squadra d’oro.

Solo nel 1990, con la caduta del comunismo e la fine della dittatura, Ocsi può finalmente tornare in Ungheria e riabbracciare Budapest, che non lo ha mai dimenticato: anche lui, nonostante una carriera da allenatore che lo ha portato in giro per il mondo, sente che quella è casa sua.

Chissà come sarebbe andata se lui e i suoi compagni avessero vinto quel maledetto Mondiale? Magari le cose sarebbero andate meglio. O forse no.

Non ci sono più i suoi amici con cui giocava da piccolo quando Kispest era il loro stadio privato: Kocsis se n’era andato nel 1979, suicidandosi in ospedale a Barcellona dopo aver scoperto di avere una malattia incurabile, mentre Bozsik se lo era portato via un infarto l’anno prima.

Dal 2000 Ferenc inizia a dimenticare, fino a essere costretto a un’assistenza continua in una struttura ospedaliera: qui, nella sua amata Budapest, passa per lo più le sue giornate davanti al televisore e riceve le visite di parenti e amici, da tempo rassegnati a non essere riconosciuti e a vederlo spegnersi a poco a poco.

Quando però sintonizzano sul canale tematico del Real Madrid, raccontano che l’espressione di Ferenc si ravviva, che un bagliore sembra in grado di farsi strada nella fitta nebbia che lo imprigiona e così non lo disturbano più e lo lasciano a contemplare quelle maglie bianche che inseguono un pallone. Il suo pallone.