“Salò o le 120 giornate di Sodoma” è l’ultimo film di Pier Paolo Pasolini, uscito 20 giorni dopo la sua morte.
Il film è ispirato ai gironi danteschi e a “Le 120 giornate di Sodoma”, romanzo incompiuto del marchese de Sade; il termine sadismo si deve al cognome di quest’ultimo, e al sesso e violenza estremi presenti nei suoi racconti.
La narrazione si divide in “Antinferno”, “Girone delle manie”, “Girone della merda” e “Girone del sangue”.
Nelle sale italiane fu proiettato dal 10 gennaio 1976, ma un fulmineo polverone legale e mediatico rese il film oggetto di censura. Non mancarono le etichette: “ultimo disperato testamento di Pasolini”, “film osceno e sadico”; il produttore, Alberto Grimaldi, fu processato per oscenità e corruzione minorile. Quindi fu sequestrato, e le prime e rare copie tornarono a circolare circa due anni dopo.
Ma “Salò o le 120 giornate di Sodoma” è davvero un film osceno, sadico e disperato?
Certo, se considerato intrattenimento fine a se stesso potrebbe apparire tale. Ma tentiamo di capire il simbolismo presente nelle immagini e nella narrazione.
Quattro alte cariche della Repubblica Sociale italiana – il Duca, il Monsignore, il presidente della Corte d’Appello e il presidente della Banca centrale -, incaricano le SS di rapire ragazzi e ragazze, figli di antifascisti, e trascinarli in una villa isolata dove leggi, poche e ferree, regolano il comportamento dei prigionieri: è vietato intraprendere relazioni sentimentali, in quanto è vietato scegliere, e tutti i prigionieri hanno il dovere di obbedire alle richieste dei 4.
Una volta al giorno, nella sala delle orge, 4 ex prostitute, ormai imborghesite, intrattengono prigionieri e aguzzini con i racconti: ogni giorno un tema diverso. L’isolamento dal resto della società e le narrazioni giornaliere, fanno pensare al Decameron di Boccaccio.
I racconti hanno come tema le specialità sessuali delle donne e l’elemento accomunante è l’iniziazione sessuale avvenuta quando erano bambine da uomini e donne dell’alta società; dopo essere state convinte ad obbedire alle richieste, ricevono denaro.
Pasolini illustra una educazione capitalista che induce alla mercificazione totale dell’uomo, finalizzata al guadagno e all’utilitarismo.
I quattro aguzzini scelgono con accuratezza i prigionieri – alcuni portati in villa dai genitori -, e la condizione per entrare è la perfezione.
In una delle scene iniziali una ragazza, Albertina, viene scartata perchè senza un dente: affresco che anticipa la società dell’immagine, all’epoca del film agli albori, ma espansa nei decenni successivi.
I giorni passano e i prigionieri vengono costretti a qualsiasi tipo di vessazione e sodomizzazione, che nelle quattro cariche genera ilarità e soprattutto eccitazione.
“Salò o le 120 giornate di Sodoma” è un film sul potere che disinibisce e priva di qualsiasi ragionamento morale, o etica, i suoi detentori, il cui unico fine è soddisfare le proprie pulsioni – nel film rappresentate dalla sessualità -, alimentate dal potere stesso, ma è anche un’opera che mostra i soprusi che il popolo ha subito e continua a subire.
Due affermazioni: la prima del Duca e la seconda del Monsignore sembrano avvalorare questa lettura.
“L’unica vera anarchia è quella del potere.”
Duca
“Noi vorremmo ucciderti 1000 volte, fino ai limiti dell’eternità.”
Monsignore
Considerando che Salò – Capitale della repubblica Sociale instaurata dai nazi-fascisti – ha un ruolo centrale, il film potrebbe assumere un altro significato e generare un ulteriore interrogativo: se la bestialità raccontata da Pasolini raccontasse il caos e la disinibizione sociale dilagante nel nostro paese nel biennio 1943-45?
Alla luce di questi elementi una domanda sorge spontanea:
Se i giovani prigionieri-oggetto violentati, deturpati e umiliati fossero l’Italia? Quella del ventennio e della repubblica Sociale, e quella del boom economico?