1899 è una serie televisiva che, negli ultimi giorni, sta spopolando su Netflix, la nota piattaforma streaming. La serie tedesca, ideata dagli stessi autori di Dark, Baran bo Odar e Jantje Friese ed articolata in otto episodi, sta facendo molto discutere per la sua trama complicata ed ermetica, per i suoi significati criptici, ma soprattutto per l’evidente utilizzo di immagini grafiche e linguistiche altamente simboliche. Alla natura di “1899” sono state attribuite molte etichette: serie drammatica, storica, horror, fantascientifica e così via. In realtà, a mio avviso, voler per forza decidere esattamente a quale genere appartenga, è un’operazione oziosa ed inutile, contenendo svariati elementi di cui ciascuno può essere ascritto ad un particolare filone.
La serie presenta indubbi pregi dal punto di vista tecnico, essendo stata girata con la tecnologia indicata con l’espressione anglosassone “The Volume”, che permette di girare tutte le scene su un palcoscenico virtuale, creando tutti gli ingredienti dell’ambientazione concepita dagli autori. In più, i dialoghi dei protagonisti sono stati registrati nella lingua madre di ciascuno, proprio per esaltare la diversa provenienza di tutti i membri di questo onirico e stranissimo “equipaggio”. Questa impronta di “internazionalizzazione”, che acquisirà un senso maggiore soltanto alla fine dell’ottavo episodio, è meno avvertita dagli spettatori come me che scelgono di assistere allo spettacolo aiutati dal doppiaggio nella propria lingua.
La trama
La fiction è ambientata, almeno in apparenza, nell’anno che ne costituisce il titolo, anche se alcune indicazioni, già nei primi episodi, potrebbero far pensare a qualcosa di diverso. Lo scenario iniziale ci porta a bordo di una nave di considerevoli dimensioni, l’unico mezzo adoperato alla fine del diciannovesimo secolo per consentire le frequenti attraversate dei migranti dall’Europa verso l’America. Ciascuno dei passeggeri ha una propria storia, nasconde dei segreti e cerca di trovare nel nuovo continente un futuro migliore. In questo contesto viene introdotto anche lo spinoso tema dell’immigrazione. Ma durante il viaggio la nave incontra un’altra imbarcazione alla deriva, dalla quale sembrano essere sparite tutte le persone a bordo, tranne un bambino che ha fra le mani una misteriosa piramide nera. Da questo momento il viaggio verso la speranza si trasforma in un orribile ed intricato incubo. Tra i passeggeri si distingue la dottoressa Maura, esperta in discipline psichiatriche che, in alcuni flashback, come quello del prologo, si vede in una clinica legata ad una sedia, secondo gli invasivi e primitivi metodi di cura neurologica dell’epoca. Uno dei motivi portanti della serie sarà proprio la capacità “di conoscenza” del cervello umano, una querelle gnoseologica su cui il pensiero filosofico ha dibattuto fin dagli albori della civiltà e su cui ci soffermeremo in seguito. L’intera visionaria storia narrata in “1899”, insomma, si baserebbe su quella linea sottile che separa la realtà dall’illusione, il tangibile dall’immaginazione, come tendono inequivocabilmente ad evidenziare i riferimenti dei protagonisti, all’inizio ed alla fine della serie, al mito della caverna di Platone.
Il resto dei passeggeri è vario e diversificato: una coppia omosessuale in fuga sotto falsa identità per timore dei pregiudizi di quel periodo storico; un clandestino di colore; una cinese dal passato oscuro che si spaccia per giapponese, in compagnia della triste madre e di una donna ambigua e spregiudicata che non esita a sfruttarla; un ricco francese che nasconde tanti segreti, sposato ad una donna che non lo ama. In seconda classe spicca una famiglia numerosa fervente di una forma di cattolicesimo bigotto e superstizioso, dominata dalla mater familias, molto probabilmente affetta da una malattia mentale di cui il marito ed figli sono ben consapevoli ma ne continuano a sopportare le conseguenze.
I paradossi e i simbolismi della serie
La serie ha riscosso un notevole successo di pubblico, ricevendo numerosi elogi dalla critica, nonostante abbia suscitato non poche perplessità. Partirei dal finale, che non rivelo per evitare un’inopportuna segnalazione invasiva di spoiler, che si concretizza in un colpo di scena per la verità abbastanza scontato, se si osservano attentamente alcuni dettagli presentati nel corso della vicenda, come l’abbigliamento del padre di Maura. Il paradosso principale, in realtà, consiste proprio nel titolo che colloca la storia in una determinata dimensione spazio-temporale. Tuttavia, non si arriva al colpo di scena finale in maniera improvvisa, ma attraverso una concatenazione di eventi che rappresentano un gioco di specchi tra immaginazione e fatti reali. Al termine dell’ottavo episodio, pur dovendo ammettere la gradevolezza dello spettacolo, si rimane alquanto spiazzati, non perché non ci si possa aspettare l’esito finale, i cui indizi sono abilmente disseminati in tutto il corso della narrazione scenografica, ma in quanto molti punti rimangono in sospeso. Allora, fra gli altri, sorgono due dubbi principali: l’uno in merito alla produzione generale della serie, il secondo sulla natura stessa dell’idea generale concepita dagli autori. Forse era già scontato che si continuasse almeno con la seconda serie e, pertanto, si può indulgere sui punti in sospeso? Che il finale non sia un vero finale, ma un’ennesima illusione? Questo potrebbe essere un equivoco non casuale in grado di permeare l’essenza stessa della storia ed il suo significato intrinseco.
Abbiamo accennato in precedenza a come “1899” contenga una ricca simbologia anche di natura esoterica, per la verità confezionata per il grande pubblico e non per gli addetti ai lavori. In primis, l’attenzione del telespettatore è continuamente focalizzata su forme piramidali: l’oggetto ritrovato fra le mani del ragazzino sopravvissuto sul “Prometheus”, quelle più piccole incise su strumentazioni di ogni tipo, la grande piramide classica edificata ad immagine e somiglianza di quelle egizie e così via. È più che evidente che la piramide sia uno degli elementi più ricorrenti nell’intera fiction. Ci siamo soffermati in altri scritti a delineare l’alta valenza simbolica di tale forma geometrica, da mettere in relazione con le antiche tradizioni iniziatiche, dalle quali sono derivate quelle medievali, nonché quelle arrivate fino alla nostra epoca contemporanea. In particolare, in “1899” ricorre l’immagine della piramide rovesciata, congiunta con il famoso occhio di Horus, uno dei simboli maggiormente adoperato da alcune organizzazioni massoniche. Ciò rivela una ambiziosa consapevolezza degli autori di attribuire alla serie, non solo lo scopo di “intrattenimento”, ma soprattutto quello didascalico di stimolare riflessioni e considerazioni specifiche. Non possono neanche sfuggire i nomi utilizzati per le due navi protagoniste della storia. Il transatlantico che ospita i passeggeri è dedicato a “Kerberos” , nome di certo non scelto a caso, essendo associato al “traghettatore infernale” della mitologia classica. La nave ritrovata vuota, ad eccezione della presenza del bambino, che poi si rivelerà la prima imbarcazione di una lunga serie, nonché direttamente collegata a quanto si scoprirà nel finale, porta addirittura il nome di “Prometheus”, il famoso titano, amico dell’umanità che rubò il fuoco degli dèi per aiutare le povere creature terrestri. Prometeo, in ambito gnostico ed esoterico, è associato alla scintilla divina dell’uomo e, perfino, paragonato al Lucifero della teologia cristiana. Seguendo lo schema proposto nella serie, la dottoressa Maura Franklin potrebbe essere una sorta di eroina assimilabile a Prometeo, essendo colei che dispone della “chiave d’accesso” ed essendo condannata a rivivere la stessa realtà simulata, così come al titano, maledetto da Zeus, un’aquila ne divorava il fegato che, ad ogni attacco, ricresceva in una spirale di orrore e di sofferenza. Lo stesso Zeus potrebbe essere identificato con Cirian, fratello di Maura, il fantomatico “creatore”, la cui identità si scopre solo alla fine. Ed il fuoco? Il fuoco potrebbe essere rappresentato dalla tecnologia, così sofisticata ed invasiva da permeare al giorno d’oggi l’intera struttura ontologica dell’uomo, con tutti i rischi connessi alle aspirazioni transumaniste, ormai diventate attuali.
Il risveglio è uno dei temi più ricorrenti della serie televisiva, così come il ricorso ad iniezioni per uscire dalla simulazione. Come era successo nella fiction Dark, anche nell’idealizzazione di 1899, gli autori ricorrono al pensiero platonico. È ben noto come nell’allegoria della caverna di Platone, a cui abbiamo già accennato, alcuni prigionieri sono raffigurati come incatenati in fondo ad un oscuro antro, senza che sia stata concessa una prospettiva diversa fin dall’inizio della loro esistenza. Dietro a dove sono posizionati i prigionieri, vi è un imponente muro che non consente loro di vedere cosa ci sia oltre. Al di là del muro, altri uomini muovono delle sagome di carta che si imprimono sulla parete della caverna che diventa, in questo modo, l’unica realtà per gli sventurati prigionieri. Qualora costoro fossero liberati, si renderebbero conto di vivere in una grande illusione e che il braciere non è altro che un surrogato del sole che illumina il mondo (sempreché sia questa la realtà dei fatti e non un’illusione del cervello umano). A similitudine dell’allegoria platonica, i passeggeri del “Kerberos” compiono un percorso onirico sulla nave che li dovrebbe portare dalla illusone fino alla verità che, almeno stando a quanto farebbe supporre l’ultimo episodio della prima serie, si svelerebbe solo nella scena finale. Vi è un altro simbolo molto importante che sembra un inutile orpello da cartone animato: si tratta dello scarabeo verde che funge quasi da guida, per condurre alcuni passeggeri in zone specifiche del transatlantico. Si può dire, in estrema sintesi che, nella tradizione mitologica dell’antico Egitto, gli scarabei erano considerati come il simbolo della resurrezioni. Infatti sotto forma di amuleti o di monili erano collocati sulle mummie per indicare la possibilità di rinascita, cioè di un’ulteriore vita dopo la morte fisica. Nella serie “1899” lo scarabeo è concepito come un congegno meccanico che sollecita il risveglio dei passeggeri. Non manca un altro importante elemento mutuato dalla filosofia greca, il cosiddetto “triangolo di Aristotele” a cui lo Stagirita si rifà per spiegare quali siano i pilastri dell’arte della retorica, ossia la capacità di persuasione. Secondo la visione aristotelica, perché la persuasione possa essere considerata efficace e duratura, è necessario far leva sulle seguenti tre caratteristiche umane: sull’etica, quindi sull’autorevolezza di chi si vuole imporre, sull’emozione, adoperando suggestioni struggenti e convincenti e sulla logica, cioè con l’utilizzo di elementi e dati che non possono essere confutati. Al triangolo capovolto si attribuiscono anche altri significati. Ad esempio nella stregoneria sta ad indicare la “terra”. A questo punto è lecito chiederci che valore avrebbe raffigurare la terra in mezzo all’oceano? La risposta forse più naturale sarebbe quella di voler rappresentare un barlume di speranza nel vortice delle avversità, quasi a tracciare l’ascesa verso un più alto grado di consapevolezza.
Si può osservare che forse le vicende narrate in “1899” siano troppo avvitate su se stesse, giocando non solo su piani temporali diversi, ma anche sulle situazioni personali dei protagonisti che risultano molto spesso inspiegabili. A mio avviso, tuttavia, il fascino dello spettacolo consiste nel fatto che ogni singolo elemento è strettamente legato agli altri, in un incastro di puzzle enigmatico ed inesorabile. Le componenti paranormali hanno il gusto dell’imprevedibilità, contribuendo a fornire un quadro a tinte fosche della mente umana, il microcosmo dove sarebbe contenuta l’intera realtà, immagine speculare del macrocosmo esterno.
Un altro tema ricorrente è quello dell’incomunicabilità, a partire dall’utilizzo, come già si è detto, di un notevole numero di idiomi, a seconda dell’appartenenza nazionale attribuita ai passeggeri. La difficoltà di comunicare e l’impossibilità di riuscire a comprendere l’essenza delle cose emerge sia nelle immagini degli spazi raffigurati che nei concetti espressi dai personaggi. Tra i corridoi labirintici della nave si ha l’impressione di assistere ad uno spazio che replica senza sosta la propria copia o che crea altre copie con l’aggiunta di inquietanti particolari. Le varie cabine della nave, la cui numerazione corrisponde alle stanze della clinica psichiatrica che ogni tanto riaffiora nei sogni/ricordi, non sono altro che spazi della mente dei personaggi, uniti fra loro in una sorta di stato di angoscia collettivo. Uno degli elementi che desta maggiore curiosità è il fatto che ciascuno dei personaggi si trovi all’interno della simulazione per sfuggire alle ombre del proprio passato. Ciò potrebbe far credere che tutti i personaggi abbiano accettato di sottoporsi ad una specie di esperimento neurologico organizzato. Ma l’insieme del panorama narrativo evidenzia come tutti i tasselli del complesso sistema non si integrino in maniera perfetta, lasciando intendere che la vera regia possa essere un’altra. Ad esempio fin dall’inizio della storia sembra che il cattivo di turno sia il padre di Maura, ma poi siamo indotti a credere che egli stesso sia intrappolato nella simulazione. Ma allora perché non sarebbe concesso all’uomo di fuggire? Magari conosce qualcosa che non è stato ancora rivelato?
Forse dobbiamo essere cauti sul ritenere definitivo quanto emerge alla fine dell’ottavo episodio. Potrebbe, infatti, trattarsi di un’ulteriore inception della presunta simulazione. Non resta che attendere la seconda stagione.