I Big Star: storia della più famosa delle band sconosciute

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La più famosa delle band sconosciute? I Big Star con il loro leader Alex Chilton, una figura misteriosa, geniale, divenuta di culto tanto da essere considerato l’inventore del power pop e il padre di quello che avrebbe preso il nome di “indie rock”.

Il suo testamento è enorme. Non a caso gruppi come i Replacements, i Teenage Fanclub e i R.E.M. hanno rilasciato interviste in cui confessano il loro amore e il loro debito verso i Big Star.

Dai Box Tops ai Big Star

Alex nasce il 28 dicembre 1950 a Memphis, Tennessee. Già calda e influente dal punto di vista musicale, la città sta per essere travolta dal ciclone Elvis. Sempre qui, nel ’57, nasce la Stax Records, che darà i “natali” a Otis Redding, Sam & Dave, Booker T & the MG’s.

È con questo sound, e con i dischi jazz del padre sassofonista e pianista, che si formerà Alex. Sarà Chet Baker a fargli venire voglia di cantare e Steve Crooper, turnista della Stax e futuro blues brother, a ispirarlo per trovare il giusto approccio alla chitarra.

Nell’album Songs from Robin Hood Lane (l’indirizzo di casa sua a Memphis) sono stati recuperati brani incisi da Chilton in omaggio proprio a questi artisti con i quali è cresciuto.

In scaletta c’è una bellissima versione di My Baby Just Cares for Me, canzone degli anni ’30 resa celebre da Nina Simone nel 1958.

Ma a fargli venire voglia di suonare in una band sono i Beatles: il 19 agosto ’66 è fra il pubblico dei Fab Four a Memphis. Dopo le parole di Lennon – “Siamo più famosi di Gesù” – il tour Usa si preannuncia bollente fra proteste di fondamentalisti cristiani e minacce del KKK.

Dopo averlo sentito cantare, i DeVilles lo ingaggiano per un tour a seguito del forfait del loro cantante. Cambiano nome in Box Tops e sbancano con The Letter, il singolo di maggior successo mai inciso a Memphis, che raggiungerà il vertice delle classifiche negli Usa.

The Box Tops - The Letter (Upbeat 1967)

È il 1967, il sedicenne Alex Chilton è già una big star.

I Box Tops resistono nelle classifiche per 3 anni. Quando nel 1970 la band si scioglie, Alex ha 19 anni e un bel po’ di denaro. Non può immaginare che da quel momento la musica non gli renderà mai più abbastanza da consentirgli un’esistenza serena.

A Memphis intanto il chitarrista Chris Bell forma una band col batterista Jody Stephens e il bassista Andy Hummel. È a loro che si unirà Alex nel 1971. Le session negli studi Ardent portano a una serie di canzoni pop che non passano inosservate.

La Ardent propone di far uscire l’album nel suo catalogo quando la band non ha neanche un nome. Scelgono di chiamarsi come il supermercato che sorge di fronte agli studi di Madison Avenue: “Big Star”.

A distribuire i dischi Ardent è la Stax, che sarà la causa del loro fallimento: #1 Record arriverà nei negozi di tutti gli Usa in poche migliaia di copie. E chi corre a comprarlo dopo aver letto le super recensioni non lo trova. A splendere su #1 Record è Thirteen. Una canzone sui 13 anni, e sull’idea romantica dell’amore come rifugio, scritta per chi 13 anni non li ha più. Ma anche un monito a non dimenticare chi eravamo: “Rock ‘n Roll is here to stay”, canta Alex in un verso immortale.

Pochi accordi, durata breve. Un tema universale come l’adolescenza. È una canzone perfetta da rifare. Infatti Thirteen vanta decine di cover. Non potevano non pagare tributo i Wilco, che molto devono ai Big Star.

Big Star - Thirteen 1972

Chris Bell, dopo il flop, depresso abbandona la band. Chilton e gli altri non mollano e nel ’74 fanno uscire Radio City, ancora per la Ardent. La sorte è la stessa: grandi recensioni, potenziali hit, zero distribuzione.

Non è facile stare vicino a Chilton. Distruttivo in amore e nelle amicizie, come lo è verso la musica: prima crea, poi distrugge. A complicare il tutto è l’alcol. Con queste premesse uno strano ensemble di musicisti di Memphis dà vita al terzo disco dei Big Star.

Resiste alla batteria Jody Stephens ma il disco è tutto di un Chilton sempre ubriaco. L’album nato da quelle session uscirà 4 anni dopo, senza neanche un titolo. Certe edizioni riportano “3rd”, altre “Sister Lovers”, altre ancora “Third”.

Pietra miliare per le future generazioni indie, 3rd è un disco pesante, la radiografia di una personalità complessa. Accanto alle ballate trovano posto pezzi sperimentali in cui Chilton sembra mettere in musica quel nichilismo che l’ha sempre contraddistinto.

Fra queste, la magnifica Kangaroo ancora una volta ci ricorda meglio di mille parole da dove provengono i Wilco…

Big Star - Kangaroo

Un brano rifatto sia da Jeff Buckley che dai This Mortal Coin.

In ogni brano del disco, anche nel più apparentemente scanzonato, possiamo scorgere una cellula turbativa, un senso di smarrimento, quando non di perdita, o di resa. Una rassegnazione composta ma disperata, colorata a tinte pastello, a volte persino mascherata.

Third è l’opera dei primi che la vita ha voluto terzi, un affresco corale dedicato a quella fetta di generazione che, nel 1974, sentiva di non farcela, o di non avercela fatta, che era sopraffatta dai cambiamenti epocali, quando non tormentata da angustie personali, un requiem per le anime perse, di cui Chilton si sente parte e di cui si fa interprete. Ed è attraverso un gioco minuzioso di citazionismo, introiezione e personalizzazione, che l’artista compone il suo capolavoro, occultando tra le righe di ogni brano un pezzetto di dolore altrui.

Un disco pieno di demoni, di quelli che ti fanno scrivere una canzone come Holocaust: la più brutale, desolante e dolorosa mai scritta da Chilton.

È il lamento di un dolore che non si può fingere, con la voce di Alex accompagnata da un pianoforte e da una chitarra che sembra provenire dall’oltretomba. Tocca corde profonde e dolorose che pochi artisti hanno avuto il coraggio di percorrere.

BIG STAR - Holocaust

“Olocausto” è un affresco di come si può essere offuscati dal mondo e rimanere senza emozioni, vuoti e stanchi. Quando hai un cuore sensibile, troppe emozioni non puoi gestirle e il tuo cuore rischia di spezzarsi.

Alex Chilton canta tra sé e sé allo specchio ma il suo canto entra dentro tutti noi perché ci ricorda i drammi personali e quelli storici come appunto l’Olocausto.

Ad esempio, quando dice: “I tuoi occhi sono quasi morti, non riesci ad alzarti dal letto e non riesci a dormire” forse sta parlando di se stesso, di una persona depressa che conosce o magari di come le persone nei campi di concentramento probabilmente dovevano sentirsi.

Lo spleen pianistico di questo brano si proietta addirittura oltre ogni citazione storica: avvolto dagli spettri delle steel guitar e dei contrabbassi, ci pare di intravedere la sagoma Tom Yorke o di chissà quale altro artista del presente o del futuro. Ma forse è solo suggestione. Sarà l’ombra di Alex Chilton che continua ad allungarsi nella musica e oltre, invisibile eppure tremendamente percettibile nella vulnerabilità del genere umano.

Nel video il brano Blue Moon.

Blue Moon