Il bambino con lo scettro di ferro di Venezia

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Strana storia, quella della chiesa della Madonna dell’Orto, una delle più belle di Venezia del sestiere Cannaregio, quasi una storia da contrappasso se si esaminano le vicende dei religiosi che ebbero in custodia la sua statua. A cominciare da coloro che fecero edificare la chiesa a fine XIII secolo, la congregazione degli Umiliati.

La chiesa era intitolata a San Cristoforo ma oggi è nota con il nome popolare di Madonna dell’Orto, in seguito a un cambiamento deciso dalla diocesi di Venezia allorché si verificarono fatti straordinari di questa Madonna.

Veniamo perciò al tempo in cui la sua statua venne scolpita su committenza del parroco di Santa Maria Formosa.

Lo scultore che fu incaricato si chiamava Giovanni De Santi, ma nel corso di quest’opera al parroco non piacque e la rifiutò. A questo punto la scultura rimase incompiuta, cosa che indusse il suo autore e sistemarla provvisoriamente nell’orto di casa sua.

Ed ecco il segno per dare sostegno alla mia idea sul contrappasso ai danni dei religiosi, accennato all’inizio.

Chi deve avervi dato l’avvio è proprio quel prete al quale non piacque la scultura della Madonna in questione. Ma fu tale la sorpresa dei fatti meravigliosi che di lì a poco sopraggiunsero, per dar corpo a tutto ciò che poi si delineò.

Fu la moglie di Giovanni De Santi ad accorgersi del fatto straordinario che la statua emanava strani bagliori durante la notte.  Apriti cielo, perché in un baleno si diffuse questa notizia in tutta Venezia e il luogo divenne meta di pellegrinaggi. Ma si aggiunse qualcosa a creare maggior clamore, perché avvennero alcuni miracoli e il verificarsi della venerazione popolare.    Tutto questo indusse poi il vescovo di Venezia a chiedere al De Santi di spostare la statua in un luogo riparato, preoccupato per la forma impropria di culto che andava manifestandosi con la sua venerazione.

Di qui l’artista, certamente di male animo verso il prete che rifiutò la sua opera scultorea, messa poi in disparte nel suo orto, colse l’occasione per rifarsi dello sgarbo subito su altri religiosi, i frati di San Cristoforo che dovevano ospitare la Madonna, è fu il principio del mio ravvisato contrappasso.

L’artista cedette la statua ai frati, dietro un lauto pagamento e altre condizioni che furono accolte e il 18 giugno del 1377 ci fu il suo solenne trasporto in chiesa che, due anni dopo, fu restaurata a spese del Maggior Consiglio.

Solo nel 1414 la chiesa prese il nome di Madonna dell’Orto su decisione del  Consiglio dei Dieci. Ma circa mezzo secolo dopo cominciarono a verificarsi ancora le misteriose penalità, questa volta colpendo i frati della chiesa della Madonna, gli Umiliati, perché vennero scacciati con decreto del Consiglio dei Dieci approvato anche dal Pontefice a causa dei “loro depravati costumi”.

Di conseguenza la chiesa passò nelle mani della pia congregazione dei Canonici Regolari di San Giorgio in Alga. Ma anche questa subì una sorte avversa, poiché venne soppressa nel 1668 e la chiesa passò, l’anno dopo, nelle mani della Congregazione dei Monaci Cistercensi, provenienti dall’abbazia di San Tommaso dei Borgognoni.

Si deve credere che la catena delle inspiegabili penalità cessassero sul conto dei religiosi della Madonna dell’Orto? No.

Nel 1787 anche i Cistercensi smisero di essere attivi per questa chiesa che divenne di pubblica amministrazione con a capo un rettore ed alcuni sacerdoti.

Nel 1810 la chiesa, dichiarata oratorio di San Marziale, fu  restaurata nella facciata nel 1845 e i lavori del resto dell’edificio furono iniziati ma non portati a termine.

Di qui non mancò un altro affronto ostile alla Madonna dell’Orto, perché Ella fu ceduta ai militari per diventare un osceno deposito per paglia e vino.

Solo nel 1864 la sorte della chiesa (quasi sconsacrata) cambiò, venne restaurata, e da quel porcile che era diventata, col  decreto patriarcale del 12 luglio 1875, venne dichiarata parrocchiale al posto della chiesa di San Marziale che divenne quindi rettoria.

Fine della reprimènda, finalmente!

Dal 1931 la parrocchia è affidata ai padri della Congregazione di San Giuseppe (Padri Giuseppini) di San Leonardo Murialdo, come immaginare che sia cessato il malefico sortilegio contro il clero.

Ma ci dovette essere anche un’altra ragione ad aggiungersi per aver causato tanti guai ai religiosi che si presero cura della Madonna dell’Orto.

Probabilmente Ella, forse si sentiva come una povera Madonna, collocata in fondo alla chiesa dove è sempre stata e non vicino all’altare maggiore com’è di solito.

Poi emerge un altra cosa sul conto della statua, che per metà rimase grezza e non definita come era a metà.

Lo scultore ebbe il tempo di perfezionare il piedino dell’infante che risalta come un immaginario fiore dalla rude pietra, e questo fa pensare, se si osserva il dettaglio mostrato di seguito. Insomma sembra quasi un segno che lo accosta al bambino nato dalla “donna vestita di sole” dell’Apocalisse che venne poi salvato in cielo presso Dio. Proprio a ragione di quel “piedino” ben fatto, estraneo al resto della scultura grezza.

Ora prende l’avvio in me l’idea di un velato segno di un progetto spirituale legato al futuro, perché sto cercando di far “emergere” a modo mio per intero la statua della Madonna dell’Orto, l’opera incompiuta di quel Giovanni De Santi, al suo esordio.

Ritornando al “disappunto” ravvisato in Lei, cioè sulla chiesa fatta per lei al sestriere di Cannaregio, che a differenza dei sui “abiti” grossolani, ospita ben altre Madonne, Gesù e Santi, con “vestiti” di prestigio, tutte opere prestigiose di famosi artisti, tra cui spicca il famoso Tintoretto, con ben sue 10 tele.

Ecco la realtà della povera Madonna dell’Orto, ancora come  quando era nell’orto del suo scultore, ora in una casa di signori come una serva! E come poteva reggere al confronto del Tintoretto, Giovanni De Santi, un oscuro artista, colui che la trasse dalla tenera pietra?

Ma Lei sapeva quale poteva essere tutta la sua triste storia da sempre, allorché Venezia stessa andava formandosi come tante isole galleggianti nel passato remoto. Ma solo nel presente Ella avrebbe potuto prendere forma luminosa per apparire ai veneziani col suo Figlio e dire la Sua parola d’insegnamento. Ella attendeva con pazienza chi La poteva notare e così parlasse di Lei. Ci avrebbe pensato questi a trovare poi il giusto luogo per Lei e il suo Bambino, naturalmente sempre a Venezia.

Si capisce, a questo punto che sono io ad averla notata e capito quale deve essere la sua consona dimora adatta per Lei e il suo Bambino.

Da esperto geometra ho consultato la mappa del luogo designato e ho predisposto ogni cosa come se fosse una consona casa da erigere e arredare, naturalmente per Lei.

Si capisce che sto parlando per simboli che ora si traducono in realtà mettendo piede nel luogo destinato a Lei, che è il Parco di Giuliano di Venezia. Tutto questo si può vedere guardando il disegno che ho fatto a ricalco della mappa in questione mostrato sotto. Accanto è riportata la mappa originale del Parco di Giuliano di Venezia.

Quel che mi è venuto in mente di disegnare, facendomi guidare dalle strade e altro della mappa, potrà sembrare incredibile ma, ragionando con la fantasia, si possono concepire meravigliose e incredibili allegorie. È così nei racconti surreali come questo.

Si guardi ora l’immagine del dettaglio di una gondola di Venezia mostrata sotto, a riprova che tutto questo potere è incentrato nel ferro delle Gondole di Venezia, suo antico logo.

È il ferro di prua che serve a bilanciare il gondoliere posto a poppa, ma esso simboleggia anche l’essenza stessa di Venezia, che qui trova la rappresentazione stilizzata della città.   

E ora si guardi ancora l’allegoria di Venezia Parco di Giuliano, mostrata prima, per riscontrare il ferro delle gondole tenuto ben saldo nella mano del Bambino Regale; quasi a memoria del versetto 12, 1 dell’Apocalisse di Giovanni che predice una “donna vestita di sole con la luna sotto i piedi”; e poi di seguito del suo bambino appena nato con lo “scettro di ferro”.

Il caso ha voluto che anche la Madonna dell’Orto abbia una luna posta quasi ai suoi piedi, quella disegnata sul ventre del vestito da carnevale del Bambino.

Ma non è una mia idea senza una base di riferimento, perché si tratta della rotonda del Park Veneziano, oltre all’altra rotonda relativa al volto del Bambino. La successiva rotonda è della falce lunare, relativa al canale d’acqua che vi è posto.

Non è una semplice coincidenza, l’accostamento che ho fatto all’Apocalisse di Giovanni con i versi del capitolo 12. Ciò che è coinvolgente è in relazione al “figlio maschio, destinato a governare tutte le nazioni con scettro di ferro”, perché il figlio della Madonna dell’Orto ha una sorta di scettro di ferro che è quello delle gondole di Venezia, guardando l’allegoria mostrata.

Anche la Madonna dell’Orto vi partecipa, con la sinistra vuole dirci chi è, nel tenere in mano il rostro di Cannaregio che è il luogo dove si trova la sua Chiesa.

Resta da capire il significato del gesto della mano del Bambino che punta il dito in alto, verso chi o che cosa?

La risposta non è difficile immaginarla perché l’unica spiegazione logica è che voglia indicare il “rifugio del cane” della mappa poco sopra, per fare una raccomandazione ai veneziani, cioè emulare le sue virtù: la fedeltà, l’intelligenza, la curiosità, la socievolezza e altri attributi, senza contare, la notevole pazienza.

L’altra cosa indicata è un gabbiano che plana nei cieli azzurri, accanto al braccio sinistro della Madonna, immagine intima della vita in noi.

Il gabbiano è il volatile che detiene il potere della luce, vola sul mare e sulla terra, cioè la nostra interiorità e il pensiero cosciente.

Il gabbiano in noi rappresenta la radice psichica legata alla libertà di spiccare il volo della nostra esistenza in piena responsabilità.

La libertà, ecco cosa ci indica infatti questo volatile, confermata dal ponte che lega la terra ferma del Parco San Giovanni alle isole di Venezia, chiamata appunto Via della Libertà.

Ecco la conferma del segno del Bambino con lo scettro di ferro, come voler dire,  “Io vi farò liberi”.

Resta la mano che regge il gruppo della Madonna col Bambino, corrispondente all’intera Venezia, che ho raffigurato come le due mani umane che si stringono in pieno accordo. Di lato, con l’isola di Murano, si staglia il volto dell’antico Doge della gloriosa Repubblica della Serenissima.

Alchimia del piedino della Madonna dell’Orto
L’Androgino alchemico di Elémire Zolla

L’Uomo Cosmico o Uomo Eterno come Eros alato che sta per uscire dal guscio dal guscio dell’uovo, lo scenario terrestre, che corrisponde al piedino del bambino della Madonna dell’Orto di Venezia. Ma nello scenario spirituale si è profilato con la testa fino e le braccia, oltre alla Madre in parte. Il resto non si vede perché si è riparata nel deserto per sfuggire alla bestia, come attesta l’Apocalisse di Giovanni.

«William Blake diede voce a una tradizione diffusa e particolarmente viva presso gli alchimisti, immaginando che la materia visibile sia preceduta da una fermentazione invisibile, nel corso della quale il principio maschile della luce e del tempo ruota come una “spada fiammeggiante” entro il velo di neve e ghiaccio del principio femminile, che rappresenta l’essenza dello spazio. Il gelido velo o la solida crosta dell’aspetto femminile della materia primordiale costituisce l’aspetto visibile del reale, l’illusione cosmica o maya. Tutto ciò può essere rappresentato come un uovo, il cui tuorlo corrisponde al principio maschile del sole e del tempo (che altro non è che l’ombra gettata dal sole su un quadrante), mentre l’albume e il guscio visibile corrispondono al principio femminile dello spazio. Nel disegno alchemico l’uovo diventa il globo, l’albume la polpa vegetale, il tuorlo il sole, raffigurato qui come la testa maschile dell’androgino, i cui piedi femminili sono immersi nell’elemento acqua, in fondo alla valle, o utero, situata fra le due colline del fuoco (la salamandra) e dell’aria (le aquile). L’Uomo Cosmico appare come il bambino, replica del globo androgino .

La stampa di Blake tratta da For the Children: The Gates of Paradise (Per i bambini: le Porte del Paradiso), ci mostra l’Uomo Cosmico o Uomo Eterno come Eros alato che esce dal guscio dell’uovo, riecheggiando la tradizione greca che vede in Eros il dio dell’origine della vita . Blake gli mette in bocca queste parole:

“I rent the Veil where the Dead dwell:
When weary Man enters his Cave
He meets his Savior in the Grave.
Some find a Female Garment there,
And some a Male, woven with care”.

“Io squarcio il Velo che avvolge i Morti:
lo stanco Uomo, entrando nella sua Caverna
incontra il suo Salvatore nella Tomba.
Colà alcuni trovano un Abito Femminile,
altri un Abito Maschile, tessuti con cura”.»

http://www.forumvirtuale.it/dualdd/zolla.htm

L’idea che spunta dalla mente nel piedino della Madonna dell’Orto

L’alchimia ci porta fuori dalla realtà della nostra comune vita terrestre e quel piedino della Madonna dell’Orto è come se ci venisse strappato per appartenere ad un altro mondo. Come a decretare la fine della vita terrestre, la fine del mondo, un significato che riguarda l’umana specie ci deve restare e non può essere strappato perché ci appartiene. In quel prezioso piedino che spunta dalla Terra Madre, si può intravedere l’idea che sorge nella nostra mente per risolvere di volta in volta un problema di tutti gli uomini, piccolo e grande che sia. Dall’idea di uno scienziato o di un re, o presidente, di un popolo, a quella di un semplice e misero uomo.

Dall’etimologia dal latino, idèa significa prestito e dal greco è  idêin, cioè ‘vedere’.
Un’idea, un concetto, un’idea.
Finché resta un’idea è soltanto un’astrazione.

«Se potessi mangiare un’idea
Avrei fatto la mia rivoluzione»

Come Giorgio Gaber nel 1972, anche noi guardiamo alle idee come a qualcosa di astratto, che non si può vedere, toccare né sentire; e ciò vale per tutte le accezioni di idea, da quella basilare di rappresentazione mentale, concetto, a quelle derivate: timore, sentore (ho idea che tra un po’ pioverà); prospettiva (non mi sorride l’idea di restare bloccato qui); opinione, parere (la mia idea sulla questione è…); suggerimento, proposta (la tua idea è stata bocciata); invenzione, trovata (bell’idea!); proposito, intenzione (avevo una mezza idea di…); valore, ideale a cui aspirare (lottare, morire per un’idea). Quest’ultima accezione, però, apre una biforcazione decisiva: da una parte, ciò che è ideale non è reale (la donna e l’uomo ideali non sono di questo mondo); dall’altra, possiamo ritenere irreale ciò per cui vale la pena di vivere e morire? Andiamo a conoscere l’uomo che ha sconvolto la filosofia sostenendo che le idee siano più reali del reale.

Platone (428/427 – 348/347 a.C.) non è stato il primo filosofo ad usare la parola ‘idea’, ma è colui che ne ha fatto il perno della propria filosofia. In greco idéa e êidos significavano innanzitutto l’aspetto, la forma esteriore (derivando dalla radice indoeuropea ricostruita ueid-, vedere), ma poi denotarono anche la forma interiore, la sostanza, l’essenza delle cose: insomma, il loro vero essere. Il passaggio non è sorprendente, considerato che in greco il perfetto del verbo che significava ‘vedere’ (orào) aveva il senso presente di ‘conoscere, sapere’ (ho visto, quindi so), e che la conoscenza era concepita essenzialmente come visione: infatti la filosofia era appunto filo-sofia, amore per il sapere, tensione, eros che – a partire dall’attrazione per i bei corpi – si eleva al bello-buono-vero universale; ma la sofia piena era concessa solo agli dei, in virtù di una visione profetica (com’è evidente in Apollo, dio della conoscenza e della profezia). Tuttavia i sensi, vista compresa, ci ingannano, testimoniandoci una realtà mutevole e spesso contraddittoria, che non offre certezze: il giovane si fa vecchio, il bello diventa brutto, le virtù a volte si tramutano in vizi; e poi, definiamo ‘belle’ le cose più diverse – un uomo, un’azione, un oggetto.

Di questi fenomeni vari e mutevoli, secondo Platone, non possiamo avere autentica scienza (epistème), bensì solo opinione (doxa). Un sapere fondato, assoluto, può darsi solamente di ciò che è stabile, immutabile, eterno – la virtù in sé, il bello in sé, ossia l’idea di virtù, l’idea di bello – che è precisamente ciò per cui le singole cose belle o virtuose sono tali: le idee infatti sono i modelli eterni e perfetti, le forme pure intelligibili (cioè coglibili solo dall’intelletto) delle cose esistenti, che ne sono imitazione più o meno imperfetta. Anche per Aristotele, allievo di Platone, l’oggetto della scienza dev’essere ciò che è stabile e universale – la sostanza, l’essenza delle cose; ma lo specifico platonico sta nell’aver concepito le idee non come forme immanenti, intimamente connesse alle cose, bensì come separate rispetto al mondo sensibile: queste forme pure, secondo Platone, risiedono in una sfera da lui chiamata ‘mondo iperuranio’, attingibile dall’uomo in quanto l’anima, prima di incarnarsi e dimenticare, vi risiedeva, stando a contatto con le idee. Di conseguenza, l’apprendere non è che un ricordare (anámnesis, reminiscenza).

Ma quand’è che idea ha assunto il significato che ha oggi? Nel Seicento: fu Cartesio il primo ad intendere le idee come semplici contenuti del pensiero; poi John Locke si spinse oltre, arrivando a capovolgere la prospettiva platonica: le idee derivano dall’esperienza sensibile, sono una reazione della mente alle cose percepite, non la loro causa. Ecco quindi che, da ciò che vi è di più oggettivo – astratto eppure più vero (dotato di maggior spessore ontologico) del concreto –, le idee diventano un prodotto della soggettività. E a proposito di capovolgimenti, nell’Ottocento arriva un altro ribaltone non da poco: per Hegel, l’idea è proprio il superamento della frattura tra soggettività e oggettività, l’identità di finito e infinito, soggetto e oggetto, Spirito e Natura.

Insomma, con buona pace di Gaber e di tutti noi, in casa Hegel l’idea si mangia eccome.

Ma questa è una storia che può essere compresa nei racconti «Mille e una notte» (ar. Alf laila wa laila). Titolo di una celebre raccolta anonima di novelle in arabo, ma di lontane origini indo-persiane, conosciuta in ai primi del 18° sec. attraverso la libera traduzione francese di A. Gallard. Il testo canonico si è formato, nella sua redazione attuale, in Egitto tra il 15° e il 18° secolo. Una storia-cornice, secondo l’uso di molte opere narrative sanscrite, inquadra l’intera opera:

il re Shahriyār, dopo aver ucciso la moglie infedele, sposa ogni sera una nuova donna che la mattina successiva viene fatta morire. La figlia del vizir, Shahrazād, escogita un piano: intrattenere il re ogni notte con un nuovo racconto. Dopo mille e una notte il re sposa Shahrazād, che diviene regina.

La conclusione dei racconti di Shahrazād, in relazione alle idee sorgive nella mente umana, ci fa capire che occorre far funzionare la mente perchè partoriscano continuamente nuove idee, perché alfine, l’uomo alla mercè del re dei morti diventi l’uomo al servizio del Re della vita.